La solitudine dei numeri primi

La solitudine dei numeri primi

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Dopo aver raccontato la chiusa comunità degli italiani di Brooklyn (Caffè Mille Luci), la micro-realtà della sala urgenze di un policlinico (Sala rossa), la condanna di una famiglia palestinese costretta in una casa dai soldati israeliani (Private) e la clausura di un gruppo di monaci (In memoria di me), il passaggio alle solitudini esistenziali (auto)inflittesi da due esseri umani con tante cicatrici raccontate in La solitudine dei numeri primi sembrava un approdo quasi inevitabile per Costanzo. In concorso a Venezia 2010.

La superficie liscia delle cose

Gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza di Mattia e Alice scorrono paralleli senza congiungersi mai. Sono stati anni difficili per entrambi, compromessi da avvenimenti terribili che segneranno le loro fragili esistenze fino alla maturità e renderanno difficili i rapporti con gli amici, in famiglia, sul lavoro. La consapevolezza di essere diversi dagli altri non farà che accrescere le barriere che separano Mattia e Alice dal resto mondo fino a condurli a un isolamento inevitabile ma consapevole… [sinossi]

Sarebbe servito un talento straordinario per raccontare nell’unica forma interessante un libro che cerca di sedurti con quel poco che ha, riuscendoci anche a tratti, ma senza scalfire la superficie delle cose. Magari sarebbe servito Paolo Sorrentino per trasformare questo romanzo di formazione, questo manifesto generazionale, questo best-seller di carta ma totalmente privo di anima in un puro e semplice incontro di corpi, sguardi, quasi tutti mancati, affetti isolati, gesti attesi e mai arrivati o arrivati tardi, insomma in una sorta di thriller o horror (chiamatelo psicologico o come vi pare) taciturno e dispotico, esistenziale e meravigliosamente folle. Questo sarebbe stato davvero l’unico modo per rendere interessante, nella forma come nel contenuto, un prodotto algido che furbescamente si rende (in)utile come La solitudine dei numeri primi. Fare qualcosa di altro rispetto a un prodotto, per giunta, su cui grava un peso non indifferente, ed è il peso della fama e di un successo senza precedenti. Difficile, per carità, farsi carico di tutto ciò, e come detto a nostro parere l’unica possibilità reale di confrontarsi con quel magma letterario era quella di far nascere sulla pellicola un’altra storia, derivata dal romanzo di Giordano – e sia chiaro che in questa nostra disamina non giocheremo allo scopri le differenze tra romanzo e film: perché ci ruberebbe troppo spazio e ci richiederebbe una grossa dose di pazienza, ma soprattutto perché sarebbe sostanzialmente inutile.

Questa premessa deve dunque fungere da unico salvacondotto per Saverio Costanzo, il quale certamente continua quantomeno la propria originale parabola ondivaga in fatto di stile con il quale mette in scena le proprie storie. A ben vedere però sembrava quasi naturale che Costanzo si avvicinasse a questo testo: dopo aver raccontato la chiusa comunità degli italiani di Brooklyn in Caffè Mille Luci, l’isolata e particolare micro-realtà della sala urgenze di un policlinico (nel documentario Sala rossa), la condanna di una famiglia palestinese costretta in una casa dai soldati israeliani (Private) e infine la clausura di un gruppo di monaci (In memoria di me), il passaggio alle solitudini esistenziali (auto)inflittesi da due esseri umani con tante cicatrici (fisiche e non) raccontate in La solitudine dei numeri primi ci sembra l’approdo più giusto. Ammirevole anche, volendo, la scelta di farlo eliminando di fatto tutto l’universo iconico del libro di Giordano: vera la quasi impossibilità di portare sullo schermo i numeri e la matematica, ma a mancare sono anche tutte le suggestioni (o ossessioni) che dal libro emergono chiaramente, come la conta delle gocce d’acqua per esempio. Tutte immagini queste che emergono espressamente dal (para)testo e che Costanzo ha deciso di amputare: e se questo deve essere l’unico imprinting del regista per far sì che il film venga riconosciuto come proprio, alla fine non è che ci importi poi tanto, l’importante è che detta operazione risulti alla fine in attivo. Si sarà intuito che il bilancio è già tanto se chiude in pareggio: le immagini originali del film di Costanzo sono forse ancor più scontate di quelle del libro, e in più ne sono totalmente estranee, con tutto ciò che ne consegue. Ma quel che è più grave appare la pretenziosità con cui Costanzo ha concepito la propria opera: a metà tra pedissequo adattamento letterario e alte velleità autoriali, con sguardi altri in piedi per miracolo, l’universo iconico della pellicola si limita a scimmiottare Kubrick (le inquadrature sui corridoi vuoti, come a riportare in vita l’Overlook Hotel, sono oggetti filmici assolutamente inanimati e privi di senso) condendolo con un ritratto d’interno borghese alla Muccino (che non si parli di Bergman) e un gesto (quello finale della carezza) che serve per trovare una definizione (esistenzialista, magari alla Antonioni) da dare ai giornali (probabile idea di marketing, del resto non stupirebbe dato che si parte da un libro che è stato letteralmente creato ad hoc da Mondadori). Non basta poi un guizzo finale per riportare in vita uno spazio urbano altrove dimenticato, perché anche questo aspetto risulta essere figlio di uno sguardo vacuo che si ricorda di esistere solo quando non sa a cos’altro guardare. Così come non basta riempire di un’ingombrante musica l’intero film per avere una pellicola che possa dirsi completa: il vuoto di idee, ancora una volta, si palesa selvaggiamente, è come se la musica dovesse dire qualcosa che le immagini non riescono a fare (la collocazione temporale, siamo negli anni Ottanta e partono i sintetizzatori simil-horror, ma certo non possono bastare i Golbin per fare un horror!, nei Novanta c’è la disco-music, solo per fare due esempi), riempire un buco, farsi narrazione, cinema magari. No, non è cinema nemmeno il tentativo di raccontare cronologicamente l’evoluzione dei corpi dei suoi due protagonisti, perché corpi non sono, ma semplici macchine da recitazione a cui una dieta ha tolto o aggiunto qualche chilo (eppure sì, Alba Rohrwacher si conferma interprete sottile e partecipe), ed è quindi inutile costruire su tutto ciò un’epica dei corpi che non sussiste, se non nelle intenzioni. Forse. E di emozioni, comunque, non c’è traccia.

Info
Il trailer de La solitudine dei numeri primi.
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