Nata di marzo

Nata di marzo

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Un altro ritratto di solitudine nella lunga galleria femminile (ma non solo) che Antonio Pietrangeli ha dedicato al vuoto esistenziale di tutta un’epoca. Nata di marzo ha le sembianze di una commedia sentimentale aerea e “glamour”, ma conserva al fondo un nucleo tragico e amarissimo.

Diciassettenne mutevole e viziata, Francesca si sposa “sbadatamente” con Alessandro, un architetto di vent’anni più grande. Facile agli entusiasmi e altrettanto volubile nel passare da un desiderio all’altro, ben presto la ragazza si rende conto che la vita coniugale è assai meno facile di quanto pensava, e che suo marito si aspetta da lei un ruolo di moglie che non le si addice… [sinossi]
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“Sono solidale! Sono solidale!” grida Francesca correndo incontro a una camionetta di carabinieri che si sta portando via una prostituta. Può sembrare l’ultima provocazione di una ragazza viziata e intrattabile, che a diciassette anni ha fatto carte false per sposarsi con un architetto di vent’anni più grande e che poi rifiuta quasi congenitamente qualsiasi vera felicità. In realtà è l’ultima tappa di un percorso vagamente esemplare, ma sapientemente emulsionato in un racconto brillante e amaro, sorridente e dolorosissimo. L’ulteriore racconto di una solitudine, ancora femminile come spesso accade nella filmografia di Antonio Pietrangeli, ma che ha trovato anche splendide incarnazioni maschili (Lo scapolo, Il magnifico cornuto).
A confondere le connotazioni troppo scopertamente sociologiche interviene prima di tutto un elemento di popolaresca saggezza: Francesca è una “nata di marzo”, mese che secondo i proverbi dà i natali a soggetti umani sbarazzini e mutevoli, ingestibili e umorali, dominati da un’indomabile ansia di vita che si traduce in un’eterna (tragica?) insoddisfazione.
È secondo tali coordinate che la famiglia di Francesca (madre e nonna) interpreta i suoi comportamenti volatili e contraddittori, assecondando anche il suo proposito di andare a nozze con un uomo maturo nel volgere di un incontro in tram. Tuttavia, la vita coniugale è irta di insidie e pericoli; tra la ragazza e il marito Alessandro non vi è soltanto il solco generazionale, ma risuonano anche secoli di storia dei rapporti tra uomo e donna. Le questioni sono sempre le stesse: spazi reciproci di libertà, diverse visioni nell’affrontare i risvolti finanziari della vita di coppia, crescente senso di vuoto e solitudine, e soprattutto una diversa lettura del ruolo della donna in società. Alessandro si è sposato una moglie-bambina che con le migliori intenzioni vorrebbe tramutare in moglie-bambola, regina di una casa in cui lei possa riempire il tanto tempo libero facendo e disfacendo arredamenti. Non accetterebbe mai che la moglie si mettesse a lavorare; lei ogni tanto ci pensa, ma sulle prime il lavoro non sembra rientrare tra le sue priorità. Poi la solitudine a casa, i lunghi pomeriggi in attesa del ritorno a casa del marito. La noia, il vuoto, la consueta ansia di vita. Si arriva alla separazione. Ci metterà una pezza il produttore Carlo Ponti, che impose a Pietrangeli un lieto fine assai stonato, oltretutto in parziale contraddizione con l’intero assunto del film. Ma l’amarezza generale resta, la sensazione di aver assistito a una sorridente commedia italiana anni Cinquanta che sembra edulcorare conflitti, e nei fatti scava invece nelle profondità di universali disagi e ontologiche solitudini.

Tutto il racconto è contenuto in un unico flashback, un resoconto dell’esperienza coniugale che Francesca fa a un suo vecchio amico d’università, con qualche momentaneo ritorno al presente narrativo. Per il momento si tratta di un utilizzo delle sfasature temporali del tutto “coerente” e lineare, ben lontano dalle spericolate sperimentazioni di alcuni dei successivi film di Pietrangeli. Qui il racconto a posteriori si riduce a poco più di un rodato dispositivo narrativo, che però è reso funzionale a un percorso di malinconica maturazione tramite la voce narrante della stessa Francesca, colta nell’atto dell’amara riflessione su ingenuità ed errori, su bizze e giuste cause, per arrivare a essere la donna che è adesso, davanti all’amico Carlo. Senza voler forzare ad ogni costo la coerenza autoriale, sembra riverberare nelle gioie e nei vuoti di Francesca un primo abbozzo dell’Adriana Astarelli di Io la conoscevo bene, la stessa gioia infantile davanti alla vita che dura giusto il tempo di una canzonetta, prima di mutare desideri e passare ad altro.
Tuttavia, rispetto alla sua futura reincarnazione Francesca dispone in più di una rocciosa determinazione, che magari si appunta su cento desideri diversi nell’arco di una giornata, ma ogni volta con totale fermezza e tensione all’obiettivo. Soprattutto, rispetto ad Adriana la “nata di marzo” ha qualcosa di assai più decisivo: è piuttosto ricca, viene da una famiglia della Milano medio-borghese proprietaria di una sartoria e si sposa con un rampante architetto. Adriana viene dalla provincia contadina e si lascia stritolare da un mondo che non la (ri)conosce, ballando sorridente un boogie-woogie: Francesca è ricca e viziata, e sulle prime nella vita coniugale sente la mancanza soltanto di ciò che ha sempre avuto in famiglia. Comprende poco i limiti delle disponibilità finanziarie, vorrebbe essere sempre al centro dell’attenzione come il peggior bambino egocentrico, e si concede ogni bizzarria.

Una volta di più, insomma, il cinema di Pietrangeli sembra raccontare qualcosa, mentre racconta tutt’altro. La veste esteriore di Nata di marzo porta infatti tutti i segni della garbata commedia nazionale anni Cinquanta, stavolta addirittura riletta secondo canoni non del tutto familiari al nostro cinema. I rapidissimi ritmi narrativi, la netta valorizzazione di un serrato tessuto di dialoghi glamour e di alto profilo, la palese adesione a un’atmosfera “rosa” ricordano più da vicino le pratiche della coeva commedia americana che la nostra tradizione autoctona, tanto che più di una volta sembra di riconoscere nel volto pulito di Jacqueline Sassard le movenze e l’eleganza di una Audrey Hepburn solo più stizzosa e inviperita.
A questo probabilmente contribuisce anche l’ambientazione milanese, ben lontana dall’esperanto nazionale delle commedie “romanocentriche” con tanto di tuffi nel Tevere. Ne sono prova anche le figure di fianco, a cominciare da mamma e nonna di Francesca, decisamente inconsuete per aspetto fisico e per disposizione psicologica, laddove ci aspetteremmo una solita Ave Ninchi buffa, autoritaria e piagnona.
Del resto, nell’occasione in assoluto meno felice e personale della sua carriera (Souvenir d’Italie, 1957) Pietrangeli aveva già mostrato una chiara e convinta adesione a schemi di commedia americana, dall’uso di sdolcinatissime musiche al lieto fine che più lieto non si può. Tuttavia, in Nata di marzo tale canone espressivo è saggiamente adottato per scardinarlo dall’interno in fasi successive. La prima metà del film è tutta dedicata a una cronaca di felicità coniugale, in cui si aprono a poco a poco crepe sempre più profonde. I primi segnali prendono le mosse da un puro e semplice dato visivo: l’estrema distanza fisica tra Jacqueline Sassard e Gabriele Ferzetti, vent’anni di differenza aggravati dal fatto che lei sembra ancora più giovane, e lui ancora più maturo di ciò che sono. Lei minuta, lui robusto. Un padre che sposa una figlia perché resti per sempre una moglie-bambina; lui è un architetto serio e intelligente, ma resta comunque vittima di sovrastrutture socio-comportamentali che vedono nella moglie un oggetto o poco più, da mettere in salotto accanto al divano. E lei nel frattempo, tra una bizza e l’altra, cresce, cambia, sbaglia, e poi capisce.

In superficie Pietrangeli, Scola&Maccari e Age&Scarpelli costruiscono insomma una commedia romantica di tira e molla sentimentali in cui però intanto si dà conto di un mondo in trasformazione e di una tacita violenza antropologica, condotta sul piano di un accordo più o meno condiviso. Tali sottili notazioni si rendono fluide dentro a dialoghi di rarissima intelligenza narrativa, capaci di emulsionare più o meno evidenti intenzioni didascaliche in un tessuto brillante e mai forzato, in cui le voci si attaccano ai corpi dei personaggi in totale coerenza. Non si ricava mai la sensazione del dialogo sovrascritto al personaggio, della categoria sociale o dell’impegno che declamano tramite la bocca di fittizie figure umane. Proprio per questo il cinema di Pietrangeli, rivisto oggi, si conferma così fortemente “politico”; niente proclami, niente militanza, bensì una profetica ricostruzione del reale in cui a poco a poco prende piena residenza l’inquietudine esistenziale per precise ragioni socio-antropologiche dalle risonanze universali.
Dietro alle schermaglie di Francesca e Alessandro risuonano ancora, come in tutto Pietrangeli e come nella migliore commedia all’italiana in generale, le distruzioni e i dissesti provocati da nuove logiche produttive, ovvero tutto ciò che il boom italiano del benessere economico ha significato in termini di genocidio culturale. I due protagonisti di Nata di marzo sono una coppia moderna, che vedono soffiarsi a poco a poco il tempo da dividere insieme dalle esigenze del lavoro e dalla rete di rapporti sociali necessari al lavoro stesso e al loro sostentamento. Anche qui fa capolino tutto il bric-à-brac della nuova tecnologia e della nuova società di massa, dalle moderne cucine americane, al finto prato in terrazza, all’automobile, ai tram affollati in cui è impossibile parlare, ai patetici robottini di Godzilla che un venditore vuole appioppare a Francesca e Carlo al ristorante. Come il Paolo Anselmi de Lo scapolo, come la Pina de La visita, come Adriana, anche Francesca vive senza sapere cosa fare del proprio tempo, posticipando tragicamente il momento in cui cercare un senso a se stessi e rifugiandosi in faticose forme di falsa libertà. Perché il vuoto è tanto, e la paura altrettanta.
Se poi nella progressiva autocoscienza che Francesca acquisisce rispetto a se stessa vogliamo vederci tracce di proto-femminismo (come alcuni hanno affermato), possiamo anche starci. “Sono solidale! Sono solidale!” grida la ragazza per prendere le difese della prostituta arrestata, dopo che il marito l’ha fatta sentire tale. Certo, Francesca è diventata più grande e consapevole. Ma è sola. Come Alessandro. Perché per Pietrangeli si è sempre soli in mezzo al vuoto. Un vuoto che si riempie di oggetti di modernariato, tanto per dare un senso alla sfiducia e alla distanza tra gli esseri umani. Ma quel vuoto rimane, sempre. Mentre un juke-box suona una canzonetta.

Curiosità: Dario Fo fa una comparsata ed è pure autore ed esecutore di una canzone. Eraldo Da Roma, leggendario montatore del nostro cinema, appare qui nel suo unico ruolo da attore, interpretando il personaggio di Tito, che ha pure una notevole rilevanza narrativa.

Info
La scheda di Nata di marzo su Wikipedia.
 

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