King Kong
di Ernest B. Schoedsack, Merian C. Cooper
King Kong che scala l’Empire State Building e viene attaccato dai mitra dei biplani è una delle immagini più iconiche della storia del cinema. Ma il film di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack nasconde al suo interno molte storie, non solo cinematografiche; storie che parlano di avventura, di horror, ma anche di schiavismo, e della paura del mondo wasp verso l’uomo “di colore”.
Il (gratta)cielo è l’unico limite
Carl Denham è un avventuroso produttore di documentari. Insieme a una giovane disoccupata di New York, Ann, parte alla volta di un’isola tropicale, Skull Island, abitata da un gigantesco e leggendario gorilla, King Kong. Il gorilla s’innamora della bella Ann e, preso in trappola, viene catturato da Denham. Portato a New York in catene, viene esibito. Ma King Kong riesce a liberarsi e a fuggire in cerca della sua amata Ann… [sinossi]
King Kong cade dalla sommità dell’Empire State Building, colpito dalle mitragliate dell’aviazione statunitense, e rovina al suolo morendo, mentre una folla di curiosi esulta per la fine del mostro. Solo Carl Denham, colui che ha portato l’immenso gorilla a New York per esporlo al pubblico ludibrio, comprende la realtà: non è stata la forza militare a sconfiggere King Kong, ma la bionda Ann. La bella ha ucciso la bestia. In quella caduta tragica, in quel salto nel vuoto, nel momento in cui anche il più tremendo dei mostri palesa la propria fragilità, il proprio essere vivente, King Kong di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack smette di essere solo un esaltante film d’avventure, di quelli che la Hollywood classica aveva ancora il potere di sfornare senza troppi dilemmi “morali” – il famigerato Production Code, più noto con il nome Codice Hays, inizierà a essere applicato solo a partire dal gennaio del 1934, a un anno circa di distanza dall’uscita nelle sale di King Kong – e assurge al ruolo di oggetto mitico, icona in grado di condensare al proprio interno riflessi tutt’altro che banali sulle paure dell’americano medio (wasp) e sulle distonie del sistema politico e mediatico.
Prima di approfondire queste intuizioni, un plauso agli organizzatori della presentazione alla stampa italiana di Kong: Skull Island, che hanno scelto come data per la proiezione il 2 marzo, a 84 anni esatti dalla prima proiezione pubblica di King Kong. Una reminiscenza cinefila che in pochi avranno colto, ma che non può essere casuale. Era infatti il 2 marzo del 1933 quando diecimila newyorchesi, divisi tra il Radio City Music Hall e il suo “fratello minore” RKO Roxy (dall’altro lato della strada, sulla Sixth Avenue), assistettero per primi alla megalitica apparizione di uno scimmione gigantesco, terribile, furente ma allo stesso tempo in grado di innamorarsi perdutamente di una fragile biondina in cerca di carriera. Nelle stesse ore in cui la furia della natura si abbatteva sul Giappone, con un terribile terremoto e ancor più devastante tsunami (oltre tremila vittime), gli ignari spettatori di New York si chiudevano gli occhi con le mani per non dover assistere alla rabbia furente di un mostro che prendeva possesso dello schermo come mai nessuno prima di lui era riuscito a fare. Sull’importanza storica di King Kong si è scritto molto, e dopotutto la scia lasciata dal suo passaggio è ben visibile anche agli occhi meno attenti, a partire proprio dai kaijū eiga, i film di mostri giganti che hanno lasciato un marchio profondo e fertile nell’industria cinematografica giapponese (il riferimento al terremoto non voleva essere solo cronologico). King Kong, in forme sempre più enormi e brutali, è infatti il protagonista di due classici dei film con protagonisti i “mostri di grandi dimensioni”: Ishirō Honda, il “papà” di Godzilla, diresse per la Toho Il trionfo di King Kong (Kingu Kongu tai Gojira, alla lettera King Kong contro Godzilla, 1962) e King Kong – Il gigante della foresta (Kingu Kongu no gyakushū, vale a dire Il contrattacco di King Kong, 1967), dando il via a quel testa a testa tra l’abnorme gorilla e il dinosauro reso vivo dagli effetti speciali del maestro Eiji Tsuburaya che a quanto pare troverà nuova linfa nei prossimi anni con lo statunitense Godzilla vs. Kong, punto di contatto tra il Godzilla di Gareth Edwards (che avrà un secondo capitolo nel 2019) e il già citato Kong: Skull Island.
In realtà pochi sono a conoscenza del fatto che il Giappone, ben prima dell’irruzione in scena di Honda e dei suoi kaijū, avesse già fatto suo King Kong: la Shochiku, che distribuì il film di Cooper e Schoedsack nell’arcipelago, si adoperò in fretta e furia per sfruttarne il successo mediatico. Già nel 1933, a pochi mesi dall’uscita dell’originale, vide la luce nelle sale nipponiche Wasei Kingu Kongu (traducibile con King Kong giapponese), una commedia diretta da Torajirō Saitō [1] che sulla carta sembrerebbe in parte preconizzare l’omaggio allo scimmione che John Landis inserì in Slok, il suo esordio alla regia. Nel 1938 fu invece la volta di Edo ni arawareta Kingu Kongu (più o meno King Kong fa la sua apparizione a Edo), ambientato addirittura nell’epoca Tokugawa, un jidaigeki in piena regola. Entrambi i film sono considerati perduti, con ogni probabilità in seguito ai bombardamenti – anche atomici – subiti dalla nazione nel 1945.
Al di là di questo curioso dettaglio, King Kong, una volta abbandonata l’Isola del Teschio, si lanciò da subito alla conquista del mondo: il film fu campione d’incassi un po’ ovunque, sbalordendo il pubblico per i suoi effetti speciali e convincendo, in buona parte, la critica, che non era certo abituata a maneggiare una materia simile. Non mancarono comunque voci dissonanti, soprattutto in chi vedeva nell’operazione un puro divertissement spettacolare che metteva da parte la vocazione “artistica” della Settima Arte (in Italia una posizione di questo tipo fu sposata da Mario Gromo sulle pagine de La Stampa). Con il passare degli anni si è poi radicata l’idea che nelle fattezze dello scimmione si nascondesse un razzismo neanche troppo velato, e l’infatuazione di King Kong per Ann rappresentasse in realtà una presa di posizione netta contro i matrimoni fra etnie diverse. Eppure, citando una volta ancora Carl Denham, “It was Beauty that killed the beast!” [2]… È d’altronde cosa nota che i due registi rifiutassero qualsiasi tipo di lettura allegorica del film, asserendo di aver voluto solo girare una spettacolare avventura al limitar del fantasy.
Sotto il profilo strettamente spettacolare King Kong lascia ancora oggi a bocca aperta lo spettatore: basterebbe già l’inquadratura iniziale, con il battello a vapore che solca l’acqua mentre sullo sfondo troneggia lo skyline di New York, per evidenziare una propensione “megalitica” alla messa in scena. Spesso ridotto a puro scenario eretto alla bene e meglio per sostenere l’apparizione in scena del gigantesco primate (i titoli di testa lo segnalano come “l’ottava meraviglia del mondo”, e non vanno troppo lontani dalla verità), il film di Cooper e Schoedsack è in realtà una cupa e tutt’altro che rassicurante lettura dello stato di ebollizione di una nazione che, passata attraverso le forche caudine della Grande Depressione – quella di Stato, non quella personale –, ha preferito nascondere la testa sotto la terra, affidando il proprio immaginario a un’evasione senza limiti, né verità. Quando King Kong è uscito da solo un paio di giorni, Franklin Delano Roosevelt tiene il discorso di insediamento e dichiara, in un passaggio: “Sono convinto che, se c’è qualcosa da temere, è la paura stessa, il terrore sconosciuto, immotivato e ingiustificato che paralizza. Dobbiamo sforzarci di trasformare una ritirata in una avanzata. […] Chiederò al Congresso l’unico strumento per affrontare la crisi. Il potere di agire ad ampio raggio, per dichiarare guerra all’emergenza. Un potere grande come quello che mi verrebbe dato se venissimo invasi da un esercito straniero”; questa preistorica scimmia del Borneo è già una minaccia straniera, e il popolo statunitense, terrorizzato e stremato, non può che vederlo come un nemico, qualcosa che è necessario abbattere.
Il New Dead cercherà di (ri)costruire l’american dream, ma è ancora di là da venire. Per questo il cinema, che non teme ancora censure preventive, mette spesso in scena personaggi alla deriva, sperduti e minacciati. Solo pochi mesi prima di King Kong la RKO ha licenziato in sala un altro film d’avventure diretto da Schoedsack, stavolta in collaborazione con l’eversivo Irving Pichel, uno che finirà sulle liste nere redatte durante il Maccartismo. Il film in questione è La pericolosa partita, ed è stato girato in contemporanea con King Kong: di giorno il primo, di notte il secondo. Così se La pericolosa partita ha il luminare bianco di una fuga vittoriosa dall’isola gestita dal folle conte Zaroff, King Kong brucia nel nero della notte. Solo l’atroce macchina dello spettacolo capitalista va avanti senza preoccuparsi di niente: la scimmia catturata e svilita nonostante il suo appellativo (“king”) per essere esposta al pubblico “bene” di New York, quella fetta di popolazione che non deve rovistare nei cassonetti dei rifiuti per trovare un boccone di pane, si vendica. Strappa via le catene, semina il panico. Il Capitale è a un passo dal crollo. Non è un’ideologia a minacciarlo, non è la bancarotta del sistema economico. No. È un’enorme, gigantesca, scimmia.
Il negletto, lo schiavo, la minoranza, il “diverso”. L’America bianca è finalmente minacciata. L’America bianca è finalmente sotto attacco, sul suo territorio, dopo che è andata a far caccia grossa nel terzo mondo. King Kong, per quanto catturi anche qui le simpatie del pubblico, non è ancora quel romanticone ritratto da Peter Jackson, né ha intenzione di metter su famiglia come nel remake diretto da John Guillermin; è la potenza devastante di ciò che non è riducibile a pura massa di consumo. È il furore che si agita nel sottobosco, lo spirito che può apparire e che solo di fronte alla bellezza può mostrare le sue fragilità. Solo Ann, e lei sola, ha il potere di indebolire Kong. Solo Ann può veramente minacciarlo. Il resto del mondo occidentale verrebbe spazzato via in un baleno, con tutte le sue luci, con le sue onnipresenti macchine fotografiche, col cicaleccio di sottofondo, con quell’opulenza che ha asfaltato la povertà, nascondendola sotto lo zerbino affinché non si dicesse che esiste. King Kong è la resurrezione degli inermi. È la vendetta di un universo che non ha mai avuto voce in capitolo, fino a quel momento. Materializza l’incubo di una nazione, o meglio, di un’intera filosofia di vita.
Allo stesso tempo King Kong è anche la messa in quadro del moralismo reazionario di quei tempi confusi e allarmati: il campo/controcampo del primo incontro tra Ann e Kong nasconde uno dei sottintesi erotici più destabilizzanti della storia del cinema. Ed è tra una donna e una scimmia di proporzione impensabili: Ann è terrorizzata, ma paradossalmente troverà proprio nel suo nemico un alleato formidabile, il migliore difensore che potesse mai pensare di incontrare sul suo cammino. Molto più dinamico e protettivo del pur volitivo Jack Driscoll. Ovviamente non si può non ricordare la sequenza, tra le più note, in cui Kong spoglia Ann, ed è proprio in quel momento di gioco (erotico e pre-erotico) che si svela la natura tragica di King Kong, bestia fuori misura, ultima della sua specie – non ne esistono simili sull’isola – costretta a cercare un rifugio affettivo in una specie diversa dalla sua. La testarda pervicacia con cui la grande scimmia cerca in ogni modo un luogo per vivere con Ann, è uno slancio di mélo che non era pensabile in un film di questo tipo, e che di fatto trasformerà completamente le regole di un genere, quello che contrapponeva uomini a creature mostruose (si pensi a Il mondo perduto diretto nel 1925 da Harry Hoyt traendo spunto dal romanzo di Arthur Conan Doyle, sempre grazie agli effetti speciali mirabolanti di Willis O’Brien, lo stesso artigiano a cui si deve King Kong). Tutto questo, ancora una volta, senza dimenticare il lato puramente ludico, con lo schermo invaso da tirannosauri, pteranodonti, stegosauri, brontosauri. Ma da un solo, unico e inimitabile, scimmione. Kong. Il re. L’ottava meraviglia del mondo. Per la nona bisognerà attendere il 1954, e spostarsi dalle parti di Tokyo; in mezzo ci sarà stato l’olocausto nucleare su Hiroshima e Nagasaki…
Note
1. Considerato il “re della risata” giapponese dell’epoca antecedente alla Seconda Guerra Mondiale.
2. Il film per di più si apre con in epigrafe la citazione di un antico proverbo arabo che recita: “E la bestia guardò in faccia la bellezza. E tolse le sue mani dall’uccidere. E da quel giorno, essa fu come un morto”.
Info
Il trailer statunitense di King Kong per la riedizione in sala nel 1938.
- Genere: avventura, fantasy, horror
- Titolo originale: King Kong
- Paese/Anno: USA | 1933
- Regia: Ernest B. Schoedsack, Merian C. Cooper
- Sceneggiatura: James Ashmore Creelman, Ruth Rose
- Fotografia: Eddie Linden, J.O. Taylor, Kenneth Peach, Vernon L. Walker
- Montaggio: Ted Cheesman
- Interpreti: Bruce Cabot, Ed Allen, Etta Mae Allen, Fay Wray, Frank Angel, Frank Reicher, Fred Behrle, James Adamson, James Flavin, Leo Beard, Noble Johnson, Ralph Bard, Reginald Barlow, Robert Armstrong, Roscoe Ates, Sam Hardy, Steve Clemente, Van Alder, Walter Ackerman
- Colonna sonora: Max Steiner
- Produzione: RKO Radio Pictures
- Durata: 100'