Piazza Vittorio

Piazza Vittorio

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La piazza più multiculturale di Roma viene raccontata da Abel Ferrara in Piazza Vittorio, presentato fuori concorso: un documentario a tratti troppo ingessato, a tratti – grazie alla presenza in scena del cineasta – ruspante e vivace.

Me ne annavo pe’ questa Roma…

Piazza Vittorio è la più estesa piazza romana. Si contraddistingue, la piazza ed i quartieri adiacenti dell’Esquilino, per la varietà multietnica dei propri abitanti. [sinossi]

Il cinema di Abel Ferrara ha la caratteristica – sempre più rara – di mantenersi fedele alle sue origini, vuoi per necessità produttive, vuoi per scelta di vita. Anche in Piazza Vittorio, fuori concorso a Venezia 74, si ritrova lo stesso spirito anarcoide, auto-biografico, disperatamente vitale, auto-ironico e abborracciato di tutti i lavori del cineasta italo-americano, da The Driller Killer a Napoli Napoli Napoli.
Il suo nuovo documentario però, con il quale ormai Ferrara certifica la sua stanzialità romana, soffre parzialmente degli stessi difetti proprio di Napoli Napoli Napoli: delle sequenze in cui la presenza dell’autore di Pasolini non si avverte – e dunque appare tutto un po’ freddo, a partire dalla messa in scena -, contrapposte invece a delle altre in cui lo vediamo apparire in tutta la sua nervosa fisicità.

È perciò in questa discrasia che si colgono i limiti di un progetto come Piazza Vittorio, con cui Ferrara prova a raccontare la notevole diversità etnica che lì si muove, dai cinesi agli africani, passando per i romani che rimpiangono i tempi andati e finendo allo stesso Ferrara, che all’inizio del film si definisce anche lui immigrato e che, come i giovani stranieri con cui parla in piazza, lamenta anche lui l’assenza di un lavoro e la disperata ricerca di soldi (e il leit-motiv assegnato alla canzone di Woody Guthrie, Do Re Mi, esplicita ulteriormente tale andamento). Questi sono i momenti migliori del film, quelli in cui il regista parla con i suoi intervistatori, ci discute in maniera animata, insiste a indicare in che punto si devono mettere per non rovinare l’inquadratura e ci litiga anche (perché, ad esempio, un ragazzo africano vuole altri dieci euro per continuare a farsi riprendere).
Ecco, qui emerge la sincerità del progetto e, per l’appunto, se anche una o più inquadratura sono mal riuscite o buttate via, lo si accetta e, anzi, lo si desidera: perché si capisce che sono il frutto di un regista tormentato, irruento, impaziente.

Al contrario, non mancano in Piazza Vittorio dei momenti un po’ “azzimati”, come ad esempio l’intervista con Matteo Garrone (anche lui abita nel quartiere Esquilino da tempo) o come quella con Sonia che gestisce nei pressi della piazza uno dei ristoranti cinesi più famosi della Capitale. E non mancano anche momenti vagamente ambigui, come la lunga intervista agli attivisti di Casa Pound, in cui il film non prende apertamente posizione rispetto alle cose che vengono dette (anche se, crediamo, che – considerandosi immigrato – Ferrara non possa condividerne le opinioni), ma soprattutto li lascia ripetere più e più volte lo stesso banale e fascista concetto: gli stranieri debbono tornarsene a casa loro e costruirsi una vita e una società lì. Come se non fosse da sempre, dai tempi della Magna Grecia, l’incontro tra popoli differenti l’unico motore per stimolare l’accrescimento culturale ed esistenziale. E anche la storia degli Stati Uniti, al di là di Trump, sta lì a dimostrarlo.

In ogni caso, Piazza Vittorio è un film realizzato in fretta, montato rapidamente, ma in cui riesce comunque a emergere il tipico spirito del suo autore. Un film piccolo, girato perché un regista come Ferrara deve continuare sempre a girare – anche senza soldi – per continuare a sentirsi vivo.

Info
La scheda di Piazza Vittorio sul sito della Biennale.
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