Insidious: L’ultima chiave

Insidious: L’ultima chiave

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Quarto capitolo della saga horror prodotta dalla Blumhouse, Insidious: L’ultima chiave sembra più interessato a giustificare in modo quasi maniacale la serialità in cui è inserito che a spaventare.

Perdere la chiave

Nel 1953 la piccola Elise vive una vita di terrore per via di suo padre, violento e dispotico militare impiegato nel braccio della morte di una prigione che affaccia proprio davanti casa loro. Tanti anni dopo, Elise è diventata una veggente, in grado di risolvere casi di possessione demoniaca e di attraversare l’Altrove, il mondo dei morti, per riportare indietro i vivi. Solo che stavolta il percorso nell’Aldilà dovrà farlo per risolvere i suoi traumi familiari. [sinossi]

Fin dal primo capitolo, risalente al 2010 e diretto da James Wan, la saga di Insidious si è dimostrata un ricettacolo di traversalità orrorifica, mischiando e miscelando – a tratti in maniera convincente, a tratti meno – differenti e sempiterni filoni del terrore: il refrain sulla casa stregata da un lato, quello della possessione demoniaca dall’altro, la suggestione del mondo dei morti dall’altro ancora (l’Aldilà – o l’Altrove, come qui viene chiamato – da poter attraversare per tornare tra i vivi). Se però nei primi due film il discorso teneva perché restava ‘attaccato’ agli stessi personaggi – la famiglia che di figlio in padre si ‘trasmetteva’ la possessione – a partire dal terzo episodio le cose sono cambiate e hanno finito per assumere l’assetto di una serialità pseudo-televisiva. La protagonista è diventata la veggente Elise – interpretata da Lin Shaye – che, di volta in volta, si trova ad affrontare casi diversi. Nel terzo risolveva il dramma di una ragazzina che voleva comunicare con la madre morta, qui – in Insidious: L’ultima chiave (ma sarà davvero l’ultima?) – si imbatte in questioni relative al suo stesso passato e alla sua famiglia, famiglia in cui troverà persino un erede capace anch’esso di relazionarsi con l’Altrove, in modo tale da porre le basi per un nuovo possibile atto della saga (d’altronde, il problema di Elise è che è morta alla fine del primo film, e dunque da lì in poi non si è fatto altro che ripercorrere il suo passato, lasciando cadere la suggestione di continuare a far vivere il personaggio sotto forma di fantasma).

È questo – se vogliamo – l’aspetto più scocciante di Insidious: L’ultima chiave: l’ossessione di voler coprire tutti i vuoti narrativi lasciati aperti dai precedenti capitoli. E allora, visto che questo quarto film si situa temporalmente un attimo prima che inizi la vicenda raccontata nel primo Insidious, si vuole raccontare cosa fece esattamente Elise prima di arrivare a quel punto, un risvolto sicuramente non necessario dal punto di vista della coerenza filmica ma sostanzialmente ‘dovuto’ ai fan della saga. È qui dunque che si può riscontrare quell’aspirazione alla serialità meditata – come se tutto, tra un capitolo e l’altro, debba per forza tornare – cui volendo si potrebbe benissimo fare a meno, visto che tecnicamente non serve a sprigionare ulteriori dinamiche horror, ma anzi le ammortizza trovando sempre – e forzatamente – delle razionalizzazioni alle parabole dei personaggi. Questo perché Elise, e con lei i suoi due buffi e mai divertenti aiutanti ‘acchiappafantasmi’ (in cui uno è interpretato dallo sceneggiatore di tutta la saga e regista del terzo film, Leigh Whannell), si sono mangiati lo spazio e ora pretendono di avere un passato e una solida base di character per potersi destreggiare tra un’avventura e l’altra.

Vi è però una novità che sembra palesarsi nell’incipit di Insidious: L’ultima chiave, e la si può individuare nella ri-collocazione morale dei vivi e dei morti, vale a dire che, se finora nell’ambito della saga il male veniva sempre dall’oltretomba, stavolta si vuole suggerire che i viventi sono ben più crudeli dei trapassati. Il padre di Elise è d’altronde lì a testimoniarlo: bastona la povera figliola solo perché lei dice di vedere i fantasmi. E non solo: lavora nel braccio della morte di una prigione, e dunque nel suo piccolo contribuisce a rafforzare il Male nell’ambito della società, così come – nel suo grande – faceva Stalin, di cui all’inizio del film si vedono in tv le riprese del funerale. In tal modo si è dunque portati a pensare che lo sceneggiatore Leigh Whannell e, con lui, il regista Adam Robitel vogliano suggerirci delle nuove chiavi di lettura per l’orrore, un orrore ben più terreno di quel che si era visto nei tre precedenti Insidious. La semina però non porta ad alcun frutto, anzi. Sarà infatti una bella delusione scoprire che in qualche modo la scaturigine del tutto si dimostrerà essere ancora una volta opera di un qualche non ben motivato oscuro abitante dell’Altrove. Ed ecco perciò che rischia di scatenarsi anche un pericoloso percorso di auto-giustificazione: ho fatto del male su questa terra non perché volevo, ma perché qualcuno dall’Aldilà me lo imponeva.

Non resta così che affidarsi al classico, agli strumenti più basici di un qualsivoglia horror che si voglia un minimo far rispettare: il buio scantinato che cela il mostruoso, un paio di occhi che roteano, delle fanciulle indifese e impossibilitate a sfuggire dal carnefice di turno, e così via. Su questo Insidious: L’ultima chiave si concede per quel minimo garantito che permette di fare un paio di salti sulla poltrona, ma nulla di più. Forse l’unica trovata degna di questo nome è assegnata proprio alla chiave del titolo che, oltre a un significato simbolico, ne ha anche uno pratico: rappresenta infatti un curioso e crudele strumento di tortura elargito con discreta generosità da un demone. Ma certo non basta per passare sopra ai tanti limiti dell’ennesima operazione di successo targata Blumhouse.

Info
Il trailer di Insidious: L’ultima chiave.
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