La leggenda di Gösta Berling

La leggenda di Gösta Berling

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Il finlandese di origine polacca Mauritz Stiller, tra i nomi più lucenti della ricca cinematografia svedese di inizio Novecento, è oramai dimenticato. Con lui rischia l’oblio anche La leggenda di Gösta Berling, il suo capolavoro della maturità, che segna anche la prima apparizione di rilievo sullo schermo per Greta Garbo. Nella rassegna Bergman 100 organizzata al Palazzo delle Esposizioni da Azienda Speciale Palaexpo, La farfalla sul mirino e CSC – Cineteca Nazionale.

I cavalieri di Ekebù

In una zona meridionale della Svezia, il Värmland, nel 1820 un pastore di nome Gösta Berling ha seri problemi con l’alcoolismo, tanto da lasciare il villaggio in cui vive. Si unisce così a un gruppo di cavalieri che vivono nel castello di Margareta… [sinossi]

La leggenda di Gösta Berling, che in Italia fu conosciuto a lungo come I cavalieri di Ekebù prima di riprendere l’originale Gösta Berling saga, è un’opera sepolta dalle ceneri del tempo. Non solo. Lo stesso destino è toccato anche al suo autore, Mauritz Stiller, e perfino a un’intera industria cinematografica, quella svedese d’inizio Novecento. Solo Greta Garbo, che all’epoca delle riprese non era conosciuta e utilizzava ancora il suo vero nome (Greta Lovisa Gustafsson), è sopravvissuta nella memoria cinefila, anche se forse solo come ricordo ancestrale di un passato delle immagini in movimento che oramai sembra lontano, disperso nelle brume del tempo e della storia. Quella storia del cinema che in pochi si prendono oggigiorno la briga di studiare – dopotutto il discorso critico ha perso gran parte della sua reale essenza analitica, diventando puro oggetto di un vacuo onanismo intellettuale – e che racconta di una Svezia protagonista assoluta sul proscenio internazionale. Prima di Hollywood. Prima delle avanguardie storiche, dell’espressionismo tedesco e del surrealismo. Prima di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn e dell’uomo/macchina da presa di Vertov. I motivi che portarono il regno scandinavo a dominare la scena mondiale della Settima Arte sono molteplici, e non hanno a che fare solo con il valore strettamente artistico delle opere prodotte. Certo, Stiller e ancor più Victor Sjöström immaginarono nuove declinazioni tanto al melodramma quanto alla commedia, segnando in maniera forte ritmi e chiaroscuri cui avrebbero attinto molti cineasti nei decenni a venire, da Ernst Lubitsch a John M. Stahl. Ma il successo del cinema svedese lo si deve anche alla Prima Guerra Mondiale: con le altre nazioni impegnate nell’industria bellica, la produzione svedese non ebbe effettivi rivali, trovando una ricezione privilegiata soprattutto in terra germanica, tagliata fuori dalle opere provenienti dalle nazioni della Triplice Intesa.

Quando Stiller inizia a lavorare a La leggenda di Gösta Berling la guerra è finita da più di un lustro. In Germania, la patria che più di tutte accolse con fervore l’onda svedese, hanno già raggiunto le sale Il gabinetto del dottor Caligari di Robert Wiene, Nosferatu il vampiro di Friedrich Wilhelm Murnau e Il dottor Mabuse di Fritz Lang. Una nuova era sta iniziando. Non è certo un caso, dunque, se il film di Stiller, tratto dall’esordio letterario del premio Nobel per la letteratura Selma Lagerlöf, venne all’epoca trattato con sufficienza dalla critica, in particolar modo in patria. Non si tratta, in tutta evidenza, di accuse mosse in maniera esclusiva da una concezione altra del cinema. La leggenda di Gösta Berling venne bistrattato, prima della rivalutazione berlinese – un espatrio voluto con forza dallo stesso Stiller, consapevole della necessità di sfuggire alle grinfie della cappa socialdemocratica –, perché osava l’inosabile. Prendeva in mano una delle saghe di Lagerlöf, vera e propria musa della nazione, e la rimodellava a proprio piacimento, rubando e tradendo a più non posso. Stiller, tra i primi consapevoli metteur en scéne della storia del cinema (in questo senso moderno prima del moderno), smarcava in maniera concreta e oggettiva il cinema dalla demarcazione letteraria, e attraverso una regia sfavillante, in aperto contrasto con la logica stringente dello studio di posa, anche dalle derivazioni teatrali.
Imperdonabile, però, agli occhi della critica svedese, appariva lo svilimento (solo fittizio, è evidente) del testo di partenza. Il concetto di “saga”, su cui Stiller era già intervenuto nell’appena precedente Gunnar Hedes saga, a sua volta tratto dalla penna della scrittrice – e non appare forzato parlare di dittico –, è quello già hollywoodiano di storia, di narrazione attraverso aneddoti, accadimenti, eventi specifici.

Stiller, che è anche cosceneggiatore insieme a Ragnar Hyltén-Cavallius (figura fondamentale dell’industria svedese dell’epoca, autore di script e a sua volta regista, oramai completamente dimenticato), non è minimamente interessato alla scrittura analitica della psicologia dei suoi personaggi. La sua struttura narrativa preconizza già quel che prenderà piede dall’altra parte dell’oceano nei due decenni successivi: il fatal flow di Gösta Berling è la dipendenza dall’acol, primo effettivo conflitto che il film evidenzia. In realtà il conflitto è antecedente a questa debolezza dell’uomo: è il conflitto con il rigore della fede, con l’appartenenza a un ordine – Gösta Berling è un pastore luterano – che non permette la libera espressione del protagonista. Già in questa lettura dell’ordine ecclesiastico e della sua imposizione sulla natura umana si può comprendere l’adesione di Ingmar Bergman nei confronti del film, e di fatto il suo inserimento all’interno della ricca rassegna Bergman 100, organizzata a Roma da La farfalla sul mirino insieme alla Cineteca Nazionale in occasione del centenario della nascita del regista di Fanny e Alexander e Il posto delle fragole. Gösta Berling è un uomo incapace di vivere nel mondo che gli è stato costruito addosso, e solo nella conoscenza con un’altra anima in pena, la giovane Elisabeth Dohna incarnata dalla Garbo, può cercare di trovare una sua consolazione all’esser vivo.
Là dove la scrittura della Lagerlöf puntava su un’epica debordante, Stiller rinnega qualsiasi estroflessione del corpo narrativo in direzione di un romanticismo svuotato dei valori puramente pulsionali. Gösta e Elisabeth non sono umani, perché rappresentano funzioni dell’umano senza incarnarli in una pura verità, ma non sono ovviamente divini, perché con la loro stessa attrazione reciproca negano il candore del divino. Sono δαίμων nell’accezione greca, servono alla narrazione per trovare quel punto d’incastro in cui materiale e immateriale si fondono in un’unica forma. Nel dualismo sessuale, che è indubbiamente uno degli aspetti fondamentali de La leggenda di Gösta Berling, si innesca un conflitto tra parti che in realtà sono specchi della medesima condizione, quella umana.

Più che un conflitto tra maschile e femminile, Stiller indaga la necessità di una fusione tra le due parti. Lo fa con le armi di una regia che punta sull’estetica, sull’inquadratura ricercata, sul taglio fotografico migliore per illuminare la scena, sulla presenza/assenza fisica dei protagonisti. Nel modo in cui utilizza la carne di Lars Hanson e Greta Garbo si intuisce il furore belluino di un regista che non accetta i dogmi morali del proprio tempo, si interroga sul valore dell’etica in un’epoca che ha appena abdicato alla propria etica favorendo il massacro indiscriminato degli esseri umani, e cerca di trovare il punto di interconnessione tra il maschio e la femmina, tra il fallico e il vaginale, tra il desiderio di dominio/penetrazione e quello di controllo/accoglienza.
Se l’amore di Stiller per l’immagine fotografica perfetta può apparire fine a se stessa, e rischia di relegare agli occhi del contemporaneo questa interminabile avventura (il film di dipana oltre le tre ore di durata), La leggenda di Gösta Berling è in realtà un’opera viva, contorta, che non accetta di doversi piegare alla marea montante e tenta di rintracciare anche nella futilità del bello il grimaldello per disinnescare l’ingranaggio nel quale si sta già intrappolando il cinema a trent’anni appena dalla sua invenzione. Una sfida che inevitabilmente Stiller non può far altro che perdere. Il suo inno all’amore che va anche contro la stessa logica degli eventi è il rauco ma raffinatissimo grido di disobbedienza di un autore con troppa facilità dimenticato. Con lui, e con La leggenda di Gösta Berling, muore di fatto la grande epopea del cinema svedese. Proprio nel 1924 Sjöström se ne va a Hollywood, dove girerà alcuni dei grandi capolavori del periodo (su tutti L’uomo che prende gli schiaffi e Il vento); anche Stiller e la Garbo compiono la traversata, ma mentre la seconda sarà destinata all’appellativo di “Divina”, Mauritz Stiller morirà ben presto, nel 1928, e poco per volta verrà dimenticato. La leggenda di Gösta Berling è un canto del cigno, l’ultima lacrima amara – ma non priva di lieto fine – di un mondo che provò a convertire la morale a colpi di immagine. Una gloriosa sconfitta.

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Il trailer de La leggenda di Gösta Berling.

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