Nosferatu, il principe della notte

Nosferatu, il principe della notte

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Nosferatu, il principe della notte non è solo la rilettura che Werner Herzog fa di un capolavoro della cinematografia tedesca. È anche e soprattutto una riflessione sull’ontologica natura predominante del Male, e sull’impossibilità di una sua distruzione da parte dell’uomo.

La danza notturna della peste

Jonathan Harker è un giovane agente immobiliare di Wismar, sul Mar Baltico, nella metà dell’Ottocento. Felicemente sposato con l’affascinante e sensibile Lucy, non l’ascolta quando questa gli dice di avere un brutto presentimento riguardo al viaggio che lui dovrà intraprendere per la Transilvania. Lì lo aspetta il Conte Dracula, interessato ad acquistare una casa proprio nei pressi della loro abitazione. [sinossi]

Nosferatu, il principe della notte ha compiuto quarant’anni: era infatti il 17 gennaio del 1979 quando venne distribuito su suolo francese – la Gaumont dopotutto risultava tra i produttori, insieme alla tedesca ZDF e alla piccola compagnia fondata da Werner Herzog. Il film sarebbe poi uscito anche nelle sale italiane a ridosso di San Valentino (in fin dei conti non si può certo negare la dimensione romantica, sia sotto il profilo concettuale che culturale, del film) prima di approdare alla Berlinale, nell’ultima edizione diretta dal compianto Wolf Donner, al quale la struttura attuale del festival deve moltissimo, a partire dalla scelta di collocarsi a febbraio – in precedenza le date oscillavano tra fine giugno e inizio luglio. Nell’edizione del 1979 Nosferatu se la vide in concorso tra gli altri con Messidor di Alain Tanner, L’amore fugge di François Truffaut (ultima avventura sul grande schermo per Jean-Pierre Léaud nella parte di Antoine Doinel), Alessandria perché? di Youssef Chahine, Hardcore di Paul Schrader, Incontri con uomini straordinari di Peter Brook. Gli altri film tedeschi oltre a quello di Herzog erano Il matrimonio di Maria Braun di Rainer Werner Fassbinder, Die erste Polka di Klaus Emmerich e David di Peter Lilienthal, che ricevette l’Orso d’Oro da una giuria capitanata da Jörn Donner. Così come l’opera di Fassbinder dimostra di leggere la storia tedesca come una lunga e articolata rincorsa al successo personale, al raggiungimento di un ruolo apicale che si fa beffe della morale, dell’etica, dell’umanesimo, allo stesso modo anche Herzog entra nuovamente in rapporto, e in conflitto, con la propria terra. La supposta modernità della nazione era stata già messa alla berlina ne L’enigma di Kaspar Hauser, e in modo ancor più misterico in Cuore di vetro; la vicenda del conte Dracula – com’è notorio Herzog reintroduce i nomi originali del romanzo, al contrario di quanto fatto nel 1922, perché i diritti sono scaduti – e il suo incontro con Jonathan Harker permette invece al regista di confrontarsi a tu per tu con una memoria scintillante della cultura teutonica, Nosferatu il vampiro di Friedrich Wilhelm Murnau.

Il “nuovo cinema tedesco” volta le spalle e guarda dietro di sé, a quello spicchio di anni in cui la cinematografia germanica svettò, al pari di quella sovietica, al di sopra del resto del mondo. Pochi anni, nella tumultuosa Germania della Repubblica di Weimar, prima della vittoria del nazismo e del ritorno alla barbarie. Pochi anni in cui l’ingegno di alcuni cineasti – oltre a Murnau Fritz Lang, Georg Wilhelm Pabst, Paul Leni, Robert Wiene – cambiò la prospettiva del cinema, e così facendo anche la prospettiva con la quale leggere e decodificare la società. Per questo nel vampiro messo in scena da Murnau c’è già l’ombra lunga di Hitler e allo stesso tempo la radicale negazione di una socialdemocrazia malata, che ha mandato a morte gli avversari politici – la distruzione della Lega Spartachista è del 1919 – e non sa uscire dal cono d’ombra di un’oligarchia ferale, immortale come il succhiasangue che viene dalla Transilvania.
Herzog non ha più bisogno nel 1979 di questa interpretazione della vicenda, perché il nazismo, la predazione notturna e lo sterminio non sono più metafore possibili, ma la crudele verità storica che una nazione divisa a metà porta sulle proprie spalle ogni singolo giorno. Il suo Dracula non è dunque l’immagine di un pericolo, ma del Male assoluto, dell’ontologica natura ferale dell’uomo, dell’impossibilità di sconfiggere il demone che affligge l’umanità. Il rituale del suggere con cui Dracula fa sua la bella Lucy Harker – Herzog, chissà perché, decide di invertire i nomi delle due donne protagoniste, facendo di Lucy la moglie di Harker – termina con la morte dell’ingordo vampiro, incauto nel non rendersi conto dell’avvento dell’aurora. Ma la luce può pietrificare il mostro, che non svanisce più nell’alba (il tempo degli effetti ottici è finito, la materica realtà rivendica il proprio spazio), non ucciderne l’essenza. Così è Harker, tornato con la febbre cerebrale dal suo viaggio all’estero, dove ha visto l’orrore nascere dal buio della notte e brulicare come i topi portatori di peste che infestano le bare trasportate dalla nave, a diventare Dracula, in un passaggio di consegne filosofico e spirituale.

La cavalcata finale di Harker/Dracula, con il deserto che rievoca la Fata Morgana, il miraggio, è la raffigurazione della propagazione del male, della pestilenza che annienta l’umano, lo rende schiavo di una perpetuazione infinita dello schema che vede la preda vittima del predatore. È la Messa solenne di Charles Gounod ad accompagnare la fuga verso l’orizzonte privo di confini di Harker (il resto della colonna sonora è, come d’abitudine in quegli anni, composta dalla musica cosmica dei Popol Vuh). Una fuga alla luce del sole, prova dell’evoluzione stessa del Male, che ora non teme più neanche il giorno, i raggi ultravioletti. Nel confrontarsi, e in qualche misura giocare, con Murnau, Herzog espone una verità filosofica tragica: esiste il martirio, ma questo non è redentore, non è salvifico, non comporta alcun tipo di vittoria. Il martirio è solo l’atto della sopraffazione, in realtà di per sé naturale – anche se portato a termine da una creatura soprannaturale – e destinato a diventare a sua volta sollazzo. Danza, Dracula, muovendosi nella piazza vuota. Quella piazza in cui la società di Wismar (Herzog andò a girare a Delft, nei Paesi Bassi) celebra la propria dannazione, tra le deiezioni dei maiali, il brulicare dei muridi; l’occidente si sgretola, la sua borghesia commerciale – Harker è pur sempre un immobiliarista, tanto nel romanzo di Stoker quanto nelle rappresentazioni varie, da Murnau a Herzog fino al Dracula di Francis Ford Coppola – va in decomposizione. Attira a sé il Male perché possa commerciare, portare soldi, visto che il conte che vive isolato nel suo castello in Transilvania è uno speculatore edilizio. E una volta che il Male è entrato a far parte della società, l’ha infettata, quest’ultima si lascia morire in mezzo ai bagordi. Herzog guarda a Murnau e vi legge in filigrana Poe, inneggia al cannibalismo di una società che si crede moderna e che tale non è. E può essere spazzata via in un batter d’occhio, senza che ne resti traccia. Eccolo il senso di quel vertiginoso incipit, in cui lo spettatore si trova a tu per tu con le mummie di Guanajuato, morte nel 1833 in Messico a seguito di un’epidemia di colera. Corpi mummificati, esseri umani che all’epoca delle riprese avevano meno di 150 anni e che, esposti in un museo, erano diventati qualcosa di più simile all’arte astratta, o a una rappresentazione deforme – perché ex-viva – dell’Urlo di Edvard Munch. Lì inizia Nosferatu, il principe della notte, e lì inizia l’incubo destinato a dimostrarsi realtà di Lucy Harker. Se la società moderna crede nella propria perpetua evoluzione, per poi finire a mangiare le proprie feci e budella sulla piazza gotica del municipio o del duomo, l’unica evoluzione è quella del vampiro, che sa essere pipistrello e tornerà in vita anche dopo la pietrificazione, cambiando “involucro”. E dimostrando la propria superiorità, la propria reale essenza eterna.

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Nosferatu, il principe della notte, il trailer.
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