Il colibrì

Il colibrì

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Francesca Archibugi dirige Il colibrì, trasportando sul grande schermo il romanzo di Sandro Veronesi già vincitore nel 2020 del Premio Strega. L’adattamento è fedele, ma soffre delle stesse debolezze imputabili al libro: un racconto spesso innamorato di sé, che si rifugia nel ghiribizzo temporale ma non sembra avere la forza, e forse neanche la voglia, di approfondire davvero i suoi personaggi. Pierfrancesco Favino, con la sua interpretazione, sembra quasi cannibalizzare il film, che arriva nelle sale dopo aver aperto ufficialmente la diciassettesima Festa del Cinema di Roma.

Lattes e i suoi derivati

È il racconto della vita di Marco Carrera, “il Colibrì”, una vita di coincidenze fatali, perdite e amori assoluti. La storia procede secondo la forza dei ricordi che permettono di saltare da un periodo a un altro, da un’epoca a un’altra, in un tempo liquido che va dai primi anni ‘70 fino a un futuro prossimo. È al mare che Marco conosce Luisa Lattes, una ragazzina bellissima e inconsueta. Un amore che mai verrà consumato e mai si spegnerà, per tutta la vita. La sua vita coniugale sarà un’altra, a Roma, insieme a Marina e alla figlia Adele. Marco tornerà a Firenze sbalzato via da un destino implacabile, che lo sottopone a prove durissime. A proteggerlo dagli urti più violenti troverà Daniele Carradori, lo psicoanalista di Marina, che insegnerà a Marco come accogliere i cambi di rotta più inaspettati. Il Colibrì è la storia della forza ancestrale della vita, della strenua lotta che facciamo tutti noi per resistere a ciò che talvolta sembra insostenibile. Anche con le potenti armi dell’illusione, della felicità e dell’allegria. [sinossi]

Rimuove il contrappunto epistolare trasformandolo in immagine, Francesca Archibugi, avvicinandosi alla riscrittura per un diverso medium de Il colibrì, romanzo che ha portato in dono a Sandro Veronesi il secondo premio Strega a quattordici anni di distanza da Caos calmo, che lo ottenne nel 2006. A essere rimosso in qualche modo è sia il concetto di oggettivo – nel film nessuno legge mai le lettere, tranne qualche lacerto qua e là, quando invece esse hanno un ruolo effettivo, perfino fondamentale, all’interno del romanzo – sia quello di estremamente soggettivo, perché Archibugi rifugge dall’analisi introspettiva della mente e del desiderio di Marco Carrera, uomo tutto d’un pezzo su cui sembra gravare ogni sfortuna possibile dell’esistenza, fin da quando sua sorella Irene venne ritrovata riversa nell’acqua a pochi metri dalla riva, o forse anche prima, quando il padre d’imperio decise che dovesse andare con lui a Milano da Firenze per fare una cura ormonale, visto che a quattordici anni ne dimostrava ancora solo dieci. Il principale tratto distintivo del dodicesimo lungometraggio di Francesca Archibugi, per chi avesse avuto in sorte di imbattersi nel lavoro letterario di Veronesi, sta proprio in quest’opera di spoliazione totale della psicologia del suo protagonista, un elemento interessante perché sembra in qualche misura voler rivendicare un aspetto che nel romanzo è vagheggiato, vale a dire la totale insussistenza del perché di vita di Carrera, quest’uomo per tutti “buono” ma in fin dei conti mediocre, incapace di accettare le svolte della vita e ancorato a un immobilismo del tutto privo di fondamento, esclusivamente abitudinario. In questo senso, e letto sotto questa prospettiva, il lavoro che Archibugi ha portato a termine in fase di scrittura insieme a Laura Paolucci e Francesco Piccolo possiede una sua peculiarità distintiva non indifferente, acuita dall’interpretazione come al solito assolutizzante di Pierfrancesco Favino, che arriva a far suo in modo così forte questo Marco Carrera da cannibalizzare il film, mangiando pezzo per pezzo tutti i suoi colleghi in scena, in particolar modo quell’universo femminile che nel romanzo fungeva da contrappunto, e che qui appare quasi solo di contorno, impossibilitato a trovare scampo nel dominio di Favino.

Se ci si sofferma sul valore della presenza in scena di Favino, o sulla scelta di spoliazione della psicologia del suo personaggio, è perché per il resto Il colibrì (che arriva in sala dopo aver aperto la diciassettesima edizione della Festa di Roma, e ancor prima essere stato presentato a Toronto in anteprima mondiale) non sembra altro che l’ennesima endoscopia che la produzione cinematografica italiana fa del corpo (in)sano della borghesia: ecco dunque le ville in Versilia, le belle magioni fiorentine e romane, la Parigi più chic, le serate di poker con posta iniziale di ventimila euro – e la voglia di rinunciare a quasi un milione di euro di vincita per supposta rivendicazione morale. Un panorama che la produzione nazionale ha mostrato in ogni sua declinazione, e che qui viene ripresentato con tutti i cliché possibili e immaginabili, in questo dimostrandosi fedele a un romanzo che a sua volta non cercava in nessuna occasione di spiazzare con una propria reinterpretazione del rito di vita di questa classe sociale. Dopotutto anche Archibugi, come Veronesi – forse come il colibrì, nel senso dell’animale –, ama passare di pistillo in pistillo, saltando di palo in frasca da un momento storico all’altro, da un evento di quando Marco era solo un adolescente a quando è oramai un uomo anziano, con solo memorie da coltivare nel proprio salotto e lutti da enumerare. Così il film è una sequela di andirivieni spazio-temporali che dovrebbero comporre un mosaico, alla fine del quale l’uomo novecentesco muore e nasce l’uomo nuovo. Eppure forse troppo interessata ai dilemmi amorosi di Carrera (che fin da ragazzo ama riamato Luisa Lattes, la ragazza che passava l’estate nella villa accanto alla sua in Toscana, senza però che ci sia mai stata una evoluzione nel rapporto; Carrera ha “ripiegato” sulla bella hostess Marina, con cui passa da una crisi matrimoniale all’altra nonostante la nascita di Adele) la struttura narrativa perde di vista l’unico reale obiettivo del romanzo, tralasciando passaggi dolorosi ma essenziali – l’eutanasia praticata dall’uomo al morente padre Probo che si ripresenta a lui stesso, sotto forma di scelta, per esempio –, e dimenticandosi per strada tanto il personaggio della figlia Adele quanto e ancor più quello di Miraijin, l’amata nipotina che qui è quasi episodica nella sua presenza in scena.

Resta, come si è già avuto modo di scrivere, solo Marco Carrera (e quell’incipit al telefono, con la risposta “Sì, sono io Marco Carrera” che viene riproposto più volte e da diverse angolazioni nel corso del film sembra quasi una rivendicazione di onnipotenza del personaggio), senza però che se ne percepisca davvero il senso se non quello, di per sé poco ammaliante, del racconto di una vita che si è quotidianamente accusata delle proprie debolezze e per questo, in maniera immancabile, quotidianamente assolta. Poi ci sono gli incontri che quest’uomo fa, in scene di dialogo a due che restano volatili nell’aria, passando in rassegna traumi e conflitti che il film sceglie deliberatamente di non affrontare in modo netto, come se in fin dei conti la vita levigasse tutto, e nulla avesse davvero più un ruolo così fondativo. Quel che ne viene fuori è però un film decorativo, che porta in scena il “male” del cinema italiano contemporaneo, la sua incapacità – o mancanza di volontà – di incidere la carne che si sta mettendo in scena per farla davvero sanguinare, senza dover sempre tamponare le ferite e fingere che non esistano. In questo racconto di una vita a mancare è paradossalmente proprio la vita, i suoi umori, le sue scorie. E quando a entrare in scena è Nanni Moretti si ha quasi la straniante impressione che Favino stia recitando in un canonico film borghese mentre il suo partner in scena sia ancorato ai suoi film, in uno sdoppiamento che non porta con sé però materia fertile. Eppure quando Moretti, che interpreta Corradoni, lo psicologo della moglie di Carrera che vuole parlare con l’uomo perché convinto che sia “in pericolo”, è seduto sulla sedia da arbitro in un campo da tennis, sembra quasi che l’aria riecheggi di un lontano “Bastoniii! Anche la Quarta B!”; ma è un istante, e ci si rende conto che è solo un illusione. Quel tempo del cinema italiano, come le merendine che si mangiavano da bambini, non tornerà più.

Info
Il colibrì, trailer.

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