Le ali della libertà

Le ali della libertà

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Titolo importante della produzione americana anni Novanta, ispirato al racconto «Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank» di Stephen King, Le ali della libertà di Frank Darabont è un nuovo classico molto amato, che sposa con fedeltà i canoni del dramma carcerario avvolgendoli di una conclamata aura favolistica. Tim Robbins e Morgan Freeman come bella coppia di protagonisti. Di nuovo in sala.

È necessario pazientare

Maine, 1947. Nel carcere di Shawshank viene condotto il giovane e brillante banchiere Andy Dufresne, condannato a due ergastoli per l’omicidio della moglie e dell’amante di lei. Andy continua a dichiararsi innocente, mentre prende confidenza con la durezza della vita in prigione, dove spadroneggiano secondini violenti, direttori spietati e detenuti ai limiti della psicopatia. A Shawshank è rinchiuso già da molti anni anche l’attempato Red, un uomo di colore che funge da trovarobe per i suoi compagni di carcere. Tra Andy e Red si sviluppa a poco a poco una profonda amicizia, che si dipana lungo i decenni di condanne apparentemente a vita. [sinossi]

Le ali della libertà è un film amatissimo. Dalla sua comparsa nelle sale quasi trent’anni fa, tra il 1994 e il 1995, ha acquisito fin da subito un enorme apprezzamento popolare, che si è robustamente consolidato almeno nella generazione di spettatori coeva alla sua realizzazione e ricezione. Tanto per misurare tale popolarità con un dato se vogliamo un po’ superficiale ma immediato, è il film che a tutt’oggi riscuote la media voti più alta sul database IMDb. Viene ovviamente da chiedersi da dove derivi questo riscontro positivo così generalizzato. Banalmente, innanzitutto dalla qualità del film. Che non appare un capolavoro come più voci magari sarebbero disposte a dichiarare, ma che sicuramente si colloca nel solco ben dissodato del solido spettacolo hollywoodiano. A guardarli a distanza di un trentennio, gli anni Novanta americani sono un’ottima decade cinematografica, e in tal senso Le ali della libertà appare un esempio decisamente significativo di una qualità medio-alta che forse, nei pallidi orizzonti della Hollywood odierna, risulta al momento perduta. Si tratta di un cinema che molto semplicemente si cura ancora di raccontare una storia, di infonderle un qualche significato, foss’anche convenzionale e telefonato, di dare spessore e prismaticità alle figure umane narrate, che a loro volta strusciano magari con qualche luogo comune. Le ali della libertà porta su di sé il respiro del grande romanzo per immagini. Ed è paradossale in tal senso che la sceneggiatura del film provenga da un racconto non lunghissimo di Stephen King, «Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank», contenuto nella raccolta «Stagioni diverse» (1982) in cui trova posto anche la notissima novella «Il corpo» che diede vita alla trasposizione cinematografica Stand By Me – Ricordo di un’estate (Rob Reiner, 1986). Si tratta di uno Stephen King diverso dalla sua produzione più conosciuta, che riserva l’orrore a poche sparute pagine dove l’incontro con il Male sprofonda nel più crudo realismo all’interno di un percorso formativo verso l’età adulta. Vale per il gruppo di amici ragazzini di «Il corpo», e vale anche per i detenuti adulti di «Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank». Nel racconto al quale Le ali della libertà si ispira assume tale evidenza tutta fisica e materica, ad esempio, l’evocazione della violenta omosessualità carceraria.

Frank Darabont, regista ungherese naturalizzato statunitense, esordì alla regia cinematografica con Le ali della libertà, e fu un letterale esordio con il botto. La produzione di Darabont per la sala non è ricchissima di titoli (solo quattro opere, di cui tre ispirate alla produzione letteraria di King), e vede poi un decisivo passaggio alla serialità televisiva di The Walking Dead, esperienza bruscamente interrotta nel 2013 con annessi lunghi strascichi legali. Di poco posteriore a Le ali della libertà è l’ulteriore successo raccolto da Darabont con Il miglio verde (1999), di nuovo ispirato a un romanzo di Stephen King e, nelle sue conclamate derive fantastiche e spiritualistiche, ancor più incardinato di Le ali della libertà intorno al tema della speranza. Speranza è d’altra parte la parola-chiave di «Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank». Il racconto originario si chiude su una sorta di struttura anaforica intorno al verbo «sperare», e più in generale la lezione del personaggio di Andy Dufresne è esattamente il culto di una metodica, meticolosa e pazientissima fiducia nel futuro. Darabont raccoglie uno degli spunti più schietti del racconto di King per costruire una vera e propria favola carceraria. Il protagonista e voce narrante, il Red di uno splendido Morgan Freeman, rifiuta più volte l’etichetta di favola per il suo racconto in prima persona. Eppure Le ali della libertà sposa da un lato una messe di convenzioni da cinema carcerario americano, dall’altro assume la struttura conclamata di una favola dove i buoni sono buonissimi, i cattivi cattivissimi e, soprattutto, dove possono succedere piccoli e grandi miracoli. Malgrado il subplot intorno al triste destino (enfatizzato rispetto alla fonte letteraria) dell’anziano bibliotecario Brooks possa far pensare anche a un atto di denuncia nei confronti dell’istituto carcerario, gli interessi di Darabont sembrano ben lontani da quelli del cinema civile. A ben vedere, infatti, molto del tessuto narrativo di Le ali della libertà è venato di crudo realismo quanto di favolistica inverosimiglianza. I secondini degli anni Quaranta americani certo dovevano essere cattivissimi, le condizioni di vita in carcere dovevano essere ai limiti del campo di rieducazione. Eppure la scaltrezza di Andy Dufresne viaggia con ogni evidenza sul crinale della meraviglia e dell’eccezionalità. Un efferato secondino vuol gettarlo giù da un tetto; lui se la cava proponendosi come fiscalista privato per tutte le guardie del carcere, e pure per il direttore. E la sua fuga finale, pure, si colloca ai limiti della leggenda. Le ali della libertà vuol essere un canto intonato alla speranza, l’unico motore, secondo Darabont, in grado di dare senso, stratificazione e risonanza alla vita anche nelle sue peggiori manifestazioni. E la fuga di Andy Dufresne è materificazione di una speranza così rocciosa da essersi diligentemente srotolata lungo un trentennio di lavoro quotidiano. È lo stesso narratore Red, nel racconto di Stephen King, a far esplicito riferimento a una buona dose di fortuna per giustificare l’incredibilità della fuga di Andy. Darabont crede ancor più radicalmente nella favola. Darabont non fa alcun riferimento alla fortuna. Semplicemente, l’incredibile può accadere. Si deve credere anche all’incredibile.

Tale dimensione favolistica è ancor più accentuata dal filtro narrativo di Red. È lui, in qualche modo, a dare forma a una vera e propria mitopoiesi intorno alla figura di Andy. Leggendo il racconto di King viene più volte da chiedersi se Andy sia davvero esistito, o se sia una proiezione del vecchio detenuto Red che in quella fantasia trova rifugio a decenni di vita carceraria resa sopportabile dal desiderio di avere più coraggio, più scaltrezza, più intelligenza, e di dare vita infine a una fuga spettacolare e memorabile. Per parte sua, Darabont depotenzia tale ambiguità. Andy è esistito. Tutt’al più, nell’ammirazione dell’amico Red, i confini tra storia e mito si confondono. Più volte è lo stesso Red, affidandosi alla struttura dei «Si dice che…», a lasciare intorno alla figura di Andy un alone di leggenda. Così, un film carcerario apparentemente convenzionale si svela per un’intima riflessione intorno alla necessità dell’illusione e della narrazione, al bisogno di miti vecchi e nuovi, che siano anche orali e sgorgati dalla vita quotidiana, per dare senso e profondità all’esistenza. Nel racconto, nel produrre racconti, riferirli e ascoltarli, vi è in ultima analisi una fonte di speranza. Secondo tale linea di ragionamento il film di Darabont è ancor più sintonizzato del raccontooriginario su una sorta di meraviglia infantile e fanciullesca. Ancor più che in King i conflitti si estremizzano. Con una consueta operazione di semplificazione e condensazione di personaggi, nel film lo spietato direttore del carcere Samuel Norton è protagonista dell’intero arco narrativo annullando le figure che lo precedono e lo seguono nella fonte kinghiana. Ma in Le ali della libertà Norton è ancor più cattivo, ampiamente oltre la soglia del credibile. Con significativo giro di vite sulla crudeltà, Darabont trasforma Norton in un vero e proprio mandante di un’esecuzione sommaria ai danni del testimone Tommy che potrebbe liberare finalmente Andy dalla sua ingiusta condanna. Su ordine di Norton, Tommy viene ucciso da un cecchino, mentre King se la cava più morbidamente con un accordo finanziario fra Norton e Tommy e il trasferimento del ragazzo in un carcere meno duro. Proporzionalmente, Darabont sceglie una nota molto più drammatica per il destino di Norton, che diversamente dal racconto finisce suicida. Nell’universo di Darabont c’è una sorta di piana azione/reazione nella condotta dei cattivi. Sono crudeli come la strega Malefica di La bella addormentata nel bosco, e per la stessa ragione la loro punizione dev’essere esemplare. Di segno uguale e contrario è il destino dei buoni. Soffrono pene inusitate per decenni, ma alla fine per loro è garantita la salvezza e la speranza. È la struttura della favola, per l’appunto, dove una vicenda adulta come un dramma carcerario è ricondotta alla dimensione di uno sguardo narrativo quasi ad altezza-bambino. Tale dimensione piena di stupore, meraviglia e sentimenti basici, fatta di cattivi cattivissimi e buoni angelicati, sarà poi espansa all’ennesima potenza in Il miglio verde. Invenzione tutta della farina del sacco di Darabont è invece uno degli episodi più noti di Le ali della libertà, quel rinchiudersi di Andy ad ascoltare Mozart al grammofono condividendone il piacere con tutti i suoi compagni tramite gli altoparlanti del penitenziario. È poesia facile, certo, in netto distacco rispetto all’universo di King, che spesso è spietato e tenero come qualsiasi iniziazione alla vita, ma quasi mai in cerca di immediate emozioni midcult a buon mercato.

Stilisticamente Le ali della libertà è solido cinema americano anni Novanta. Nulla di trascendentale né di innovativo, fatta eccezione per un pugno di ariose sequenze che si srotolano secondo sinuosi movimenti dall’alto sugli ambienti del carcere, e per lo score originale di Thomas Newman. Forse è solo una nostra suggestione, ma dietro al racconto di King e al film di Darabont sembra di intravedere più di una dinamica narrativa e metaforica debitrice di «Qualcuno volò sul nido del cuculo» nella sua doppia veste letteraria (Ken Kesey) e cinematografica (Milos Forman). Se nel romanzo di Kesey la voce narrante, intenta all’evocazione ammirata del compagno di manicomio McMurphy, era quella del nativo Capo Bromden, d’altro canto il racconto di King si struttura su un simile rapporto mitopoietico tra il Red narrante e il mito Andy. In entrambi i casi parliamo di universi concentrazionari (manicomio e carcere). Il racconto di King parrebbe dedicare a Kesey/Forman anche un piccolo omaggio diretto – l’unico compagno di cella di Andy, nei lunghi anni passati in carcere, è un nativo di nome Normaden, personaggio del tutto rimosso dalla trasposizione cinematografica. In apparenza sono profondamente divaricati i rispettivi esiti di Kesey/Forman e di King/Darabont, ma nella fuga finale di Capo Bromden, spinto a scappare dal coraggio dell’amico McMurphy, non vi è molto di diverso della speranza imparata da Red tramite l’esperienza di un’amicizia importante con Andy. Di profondamente diverso, semmai, vi è l’impianto ideologico delle due opere. Kesey e Forman accusano un intero sistema politico/economico/esistenziale tramite la metafora del manicomio. King è molto più interessato a una dimensione intima, e ancor più lontano da un impianto scopertamente politico appare il film di Darabont. All’accusa metaforica King e Darabont preferiscono la favola e, anche, una schietta celebrazione dell’amicizia virile. Tema molto amato da King (rimandiamo di nuovo a «Il corpo» e a Stand By Me), che vede la fratellanza fra uomini andare a braccetto con l’iniziazione alla vita. Ragionando per stereotipi abbastanza grossolani, non ci stupiremmo se Le ali della libertà risultasse molto amato dal pubblico maschile. Oltre all’adesione agli schemi del dramma carcerario, sottogenere che fa breccia volentieri tra gli spettatori maschili, nel film di Darabont vi è anche un inno asciutto e sinceramente sentimentalistico alla solidarietà fra uomini. Con il linguaggio odierno diremmo che fra Andy e Red si stabilisce una sorta di bromance. Non vi è la minima traccia di sottotesti omoaffettivi che tanto piacciono a diffuse sovrainterpretazioni dei nostri tempi. Andy e Red si stimano e si vogliono bene, semplicemente e pianamente, costruendo un rapporto lungo una vita fra le mura delle carceri. Da parte di Red vi è un sovrappiù di effusione, in cui si mescola affetto, stima e ammirazione. Ma nessuno dei due, si direbbe, vuol baciare l’altro.

Tanta parte nella riuscita del film è dovuta anche ai due interpreti principali. In questa occasione a Tim Robbins preferiamo di gran lunga Morgan Freeman, la vera anima del racconto. Trepidiamo con lui, ci commoviamo con lui, comprendiamo e condividiamo le radici profonde del suo sentimento d’amicizia. Un’iniziazione alla vita lunga cinquant’anni, tutta vissuta fuori dal mondo tra le molte pareti di un carcere, grazie alla nascita di un’amicizia fondamentale. Dicono che l’amore cambia la vita. Per Darabont e King (e un po’ vogliamo crederci tutti) può farlo anche una vera amicizia.

Info
Le ali della libertà, il trailer.

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