Cento domeniche

Cento domeniche

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Il ritorno alla regia di Antonio Albanese con Cento domeniche aggiunge una nota amara e realistica al personaggio portato in giro per un’intera carriera e su più set, dal suo esordio dietro la macchina da presa Uomo d’acqua dolce passando per L’intrepido di Gianni Amelio. Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2023.

L’inutilità del sacrificio

Antonio, ex operaio di un cantiere nautico, gode di una vita tranquilla tra partite di bocce con gli amici, l’assistenza alla madre anziana, una solida amicizia con la sua ex moglie, e l’amore per Emilia, sua figlia. Quando Emilia annuncia il suo desiderio di sposarsi, Antonio è colmo di gioia e decide di regalarle il ricevimento dei loro sogni, utilizzando i risparmi di una vita. La banca di cui Antonio è sempre stato cliente sembra però nascondere qualcosa: i dipendenti sono improvvisamente evasivi e il direttore cambia in modo sospetto. Finanziare il matrimonio di sua figlia si rivelerà un’impresa ardua, e Antonio non la prenderà bene… [sinossi]

Il cinema italiano, al di là di “rinascite” spesso annunciate e subito tradite, sembra giunto, almeno nelle sue emanazioni più mainstream e di sistema, ad un approdo difficile da prevedere: non è (più) tempo di ridere. Guerre, congiunture economiche avverse, il governo più spostato a destra dell’intera storia repubblicana, tutto sembra concorrere all’elaborazione di un assunto: si può essere ancora “lievi” nello scrivere storie per il grande pubblico, ma i problemi della realtà attuale non possono più essere tenuti fuori dalla porta. All’inaspettato, almeno nelle dimensioni, successo dell’esordio registico di Paola Cortellesi, C’è ancora domani, fa seguito il nuovo film dell’ex sodale Antonio Albanese Cento domeniche: dopo aver diviso per ben tre volte, negli ultimi anni, il set nelle commedie del compagno di Cortellesi Riccardo Milani, ecco che instaurano una staffetta nelle sale italiane, dopo la presentazione in anteprima alla Festa del Cinema di Roma. Alla quinta regia di lungometraggio, Albanese aggiunge al caleidoscopio dei suoi personaggi e delle sue storie una nota amara, disincantata, diremmo quasi rassegnata. La satira mostruosa e grottesca della politica italiana nella trilogia interpretata e scritta insieme al regista Giulio Manfredonia dedicata a Cetto Laqualunque, creato comunque primariamente per la televisione e per le sortite nei programmi della Gialappa’s Band e di Fabio Fazio, viene ora sostituita da un tentativo di cinema d’impegno civile, e da una narrazione che, con il progredire del minutaggio, si fa sempre più cupa e fosca. Siamo dalle parti de Il gioiellino, che nel 2011 contribuì ad affossare l’allora promettente carriera registica di Andrea Molaioli, ma con la focalizzazione opposta, sul popolo, sui piccoli correntisti di una banca di credito cooperativo coinvolti in un crack di cui non hanno colpa, vittime della spregiudicatezza immorale della nuova classe di colletti bianchi.

Albanese ambienta il film nelle sue terre di origine, intorno a Lecco, e mette in scena ancora una volta quel piccolo mondo paesano in cui lui e il suo omonimo protagonista sguazzano con agio, affacciato proprio su “quel ramo del lago di Como”. Gli amici della bocciofila (citiamo per tutti Bebo Storti, ormai aduso a questo tipo di figurazioni secondarie ma importanti), una ex moglie (Sandra Ceccarelli) con cui il rapporto è rimasto buono, l’anziana madre (la sempre bravissima Giulia Lazzarini) con cui abita e di cui si prende cura. Sono due però gli amori veri di Antonio, che sovrastano ogni altra cosa: il suo lavoro di operaio specializzato, che ha dovuto da poco lasciare per prepensionamento, e la figlia adorata. Quando quest’ultima decide di compiere il grande passo del matrimonio, il sogno piccoloborghese della famigliola sembra prendere corpo e l’unico desiderio di Antonio è quello di organizzare (e pagare) una grande festa, nonostante i genitori del futuro sposo siano danarosi e molto più ricchi di lui. Da questo piccolo sunto si può dedurre sia il piccolo mondo antico in cui ci si trova, sia le increspature derivanti dalla modernità: tutto precipiterà, però, per un raggiro vero e proprio che Antonio subisce, proprio in quel piccolo istituto di credito che contiene tutti i suoi risparmi, dove viene chiamato per nome e dove ha il piccolo “privilegio” di entrare da una porta secondaria perché spaventato dalla cabina con il metal detector. Proprio come per il film di Paola Cortellesi il finale non va in alcun modo anticipato, ma si può dire che sortisce l’effetto opposto: mentre il pubblico esce da C’è ancora domani rinfrancato e con l’applauso “in canna”, qui l’unica reazione possibile è quella del gelo e del silenzio.

Se la piccola Italia perbene della prima parte può apparire un filo anacronistica, Albanese ha però più agio nel tratteggiarla e sbozzarne i caratteri. A dramma avvenuto, il precipizio e il buio della depressione sono affidati a piccole sequenze unite da un montaggio ellittico, ripetitive in più di un momento, aventi la funzione di raccordare il posato e pacioso ritmo iniziale con i concitati momenti finali e non riuscendoci appieno. Antonio è un figlio del boom economico, un operaio che rispetta e crede di venire rispettato dal padrone (un Elio De Capitani che indossa per l’ennesima volta la maschera “berlusconiana”), che invece gli permette di lavorare gratis finché l’ispettorato del lavoro non ha da ridire e si fa sistemare il suo orto per passatempo. Verso il sistema di valori di Antonio, mai dileggiato e profondamente rispettato nelle sue scelte, non c’è nessuna volontà di critica da parte di Albanese, semmai un utopistico rimpianto per un mondo che non è più fatto come lui, che lo ritiene uno sprovveduto, che quasi gli addossa la colpa di essersi fatto raggirare. Se si vuole ridurre l’opera ad un concetto, questo è il totale e sdegnato rifiuto della furbizia e della sua italica accezione positiva. Si può dibattere su questa sorta di conservatorismo all’acqua di rose, su questa Arcadia di paese in realtà piccola, chiusa e gretta, ma a noi sembra più interessante concentrarsi su un altro aspetto: lo svagato Antonio dell’esordio registico Uomo d’acqua dolce, che faceva del corpo comico “keatoniano” un’arma di difesa verso il mondo, non ha più diritto di cittadinanza a quasi un trentennio di distanza, non è più il suo tempo ma quello della completa disillusione. La soggettiva finale, che lasciamo scoprire in sala, osserva un campo vuoto, abbandonato dal fattore umano, e l’effetto è raggelante.

Info
Cento domeniche, il trailer.

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