Vacanze di Natale

Vacanze di Natale

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A quarant’anni dalla sua prima uscita, ritorna in sala Vacanze di Natale di Carlo Vanzina. Considerato (a torto) il diretto progenitore dei successivi cinepanettoni, si tratta in realtà di un’intelligente commedia sociale che con pregnante amarezza sa narrare l’apparente benessere dell’Italia agli inizi degli anni Ottanta. Cast corale in grande spolvero per un notevole successo di pubblico trasformatosi negli anni in un vero e proprio classico amatissimo e intramontabile.

Ombre inquiete dagli anni Ottanta

Cortina d’Ampezzo, anni Ottanta. Poco prima di Natale si spostano verso la montagna vari turisti in settimana bianca provenienti da diverse parti d’Italia. S’incontrano senza troppa simpatia reciproca le famiglie romane Covelli e Marchetti, i primi palazzinari arricchiti, i secondi titolari di una macelleria. Da Milano arrivano il cumenda Guido e sua moglie Ivana, triste e trascurata. Intorno alla famiglia Covelli gravitano un gruppo di giovani e il primogenito Roberto, che raggiunge i parenti in montagna di ritorno da New York, dove ha conquistato la bella americana Samantha. Osservatore disimpegnato e disilluso, Billo lavora come musicista al piano-bar di un locale esclusivo frequentato un po’ da tutti, e colleziona conquiste di una notte fra mogli annoiate in vacanza. Proprio mentre si esibisce nel locale, Billo ritrova Ivana, che dodici anni prima è stata il suo primo amore di gioventù… [sinossi]

Quarant’anni è un grande traguardo per un film. Soprattutto se il film si conserva godibile nel tempo, se innesca reazioni sull’onda dell’effetto-nostalgia, se racconta ancora qualcosa dell’Italia, se il suo peso specifico è tale da mantenere il proprio significato e da svelarne di nuovi a visioni successive. Ci si augura che il 30 dicembre prossimo gli spettatori siano numerosi in sala per rivedere Vacanze di Natale (Carlo Vanzina, 1983), e si è facili profeti nel prevedere che buona parte degli spettatori saranno fan e ammiratori della prima ora, che dalle festività del 1983 hanno dissodato e allevato un vero e proprio culto per il film. Sarebbe interessante e auspicabile, a dire il vero, che fra gli avventori delle sale fossero numerosi anche i nuovi spettatori che mai videro prima il film di Vanzina, per vedere un po’ l’effetto che fa. Da un lato, qualcuno magari potrà scoprire da quali sponde ben diverse abbia poi preso la deriva il famigerato marchio natalizio del cinepanettone. Dall’altro, i giovani o giovanissimi magari verranno a conoscenza di un intero mondo a loro ignoto, fatto di una comicità fresca, immediata e non volgare, a metà strada fra la tradizionale commedia all’italiana e rapidi aggiornamenti ai rampanti anni Ottanta. Com’è noto, Vacanze di Natale fu un successo enorme alla sua prima uscita in sala. Nasceva come prodotto concepito a sfruttamento massivo nella scia del grande successo di Sapore di mare, distribuito in Italia pochi mesi prima. Stesso regista, stessi sceneggiatori, buona parte dello stesso cast d’attori con qualche rapida sostituzione in corsa, stessa idea di fondo: un film corale, fatto di varie vicende e micro-vicende più o meno divertenti e sentimentali che s’intersecano (o a malapena si sfiorano) in un luogo di villeggiatura. Là Forte dei Marmi, qui Cortina d’Ampezzo. Là l’estate e il mare, qui l’inverno e la montagna. Là l’effetto-nostalgia degli anni Sessanta, qui l’amarezza cinica e arraffona dei primi anni Ottanta. In entrambi i casi, a commento delle vicende è utilizzato un pressoché incessante tappeto musicale di grandi successi commerciali – grandi classici anni Sessanta da un lato, trionfo di disco e italo disco anni Ottanta dall’altro. Il nucleo degli attori coinvolti rimane invariato, un frullato di volti brillanti di ultima generazione (Jerry Calà, Christian De Sica), smaglianti bellezze femminili con qualche incantamento esterofilo (Isabella Ferrari in Sapore di mare; Antonella Interlenghi in Vacanze di Natale; Karina Huff in entrambi), un attor giovine innamorato (Angelo Cannavacciuolo in Sapore di mare; Claudio Amendola in Vacanze di Natale) e qualche stella proveniente da illustri precedenti cinematografici con appena qualche anno in più – Virna Lisi in Sapore di mare, Marilù Tolo e Stefania Sandrelli in Vacanze di Natale. Decisivo è anche l’apporto di un’ampia schiera di caratteristi italiani, il cui utilizzo in Vacanze di Natale è ancor più intensificato. Pensiamo a che cosa sarebbe stato il film senza la famiglia Marchetti, composta da Mario Brega (in uno dei suoi ruoli più belli e memorabili), Rossana Di Lorenzo e Franca Scagnetti. E pure senza i Covelli senior interpretati da Riccardo Garrone e Rossella Como. Per non parlare del cumenda Guido Nicheli e dell’imprenditorino Roberto Della Casa. La loro presenza costituisce l’ossatura profonda del film. Le battute citate a memoria o entrate nel linguaggio quotidiano vengono perlopiù da loro.

I meriti del film di Vanzina sono sempre stati ascritti al grande fiuto sociologico nello schizzare un rapido ed efficace ritratto dell’Italia coeva proprio nell’esatto istante di uno dei suoi apici di benessere materiale. Grande capacità, insomma, nel registrare nuovi vizi, vezzi e status symbol di un’Italia godereccia e sorridente che pensa in buona parte a divertirsi. A Cortina d’Ampezzo, per il rinnovato rito borghese o alto-borghese della settimana bianca, salgono varie forme di nuova italianità. Lasciato da poco alle spalle il decennio ribollente e conflittuale dei Settanta, tutti quanti, ricchi, arricchiti e bottegai con bei gruzzoli accumulati negli anni di vera fatica e lavoro, accorrono in montagna per starsene senza troppi pensieri. Nessuno, si direbbe, ha più voglia di sentir parlare d’impegno politico e sociale. Con spirito schiettamente popolare si contrappongono innanzitutto due nuclei familiari provenienti da Roma: i Covelli, palazzinari arricchiti dispendiosi e arroganti con tanto di villa personale a Cortina, e i Marchetti, proprietari di una macelleria che magari hanno messo da parte un po’ di denaro ma che vengono dritti dalla Roma più verace e borgatara. In fin dei conti anche i Marchetti non se la passano male, e in qualità di piccoli commercianti aspirano a loro volta a una vita di piacere disimpegnato. È una delle illusioni più diffuse nell’Italia degli anni Ottanta; un benessere che a pioggia giunge a lambire tutti, poveri, ricchi, belli e brutti. È chiaro tuttavia che si tratti soltanto di una pia illusione. Con qualche sacrificio anche i Marchetti possono permettersi la vacanza natalizia a Cortina. Questo non consente loro, però, un vero accesso all’inclusione sociale, guardati con disprezzo dagli ambienti apparentemente eleganti (nei fatti becerissimi) dei Covelli. Saranno pure tutti più o meno nelle condizioni di permettersi gli stessi lussi e sfizi, ma ciò non significa che steccati sociali, Italia alta e Italia bassa, siano miracolosamente spariti grazie alla favorevole convergenza economica. Oltre ai due nuclei romani sale sulle Dolomiti anche una coppia proveniente da Milano, Guido e Ivana. Lui cumenda traboccante di sicumera e poco incline al romanticismo, lei moglie triste e trascurata. C’è poi un’altra coppia bolognese, che si cornifica in continuazione. C’è qualche figura giovane che ruota attorno ai Covelli. E c’è infine il Billo di Jerry Calà, che occupa una posizione narrativa sapiente e singolare. Musicista di piano-bar, lui crea la festa, intrattiene, vede sciamare i festanti davanti alla sua postazione di lavoro. Osserva e non partecipa, o tutt’al più partecipa a modo suo. Il suo è il ruolo di chi assiste a un banchetto e siede a fianco del tavolo, aspettando che cada qualche briciola a terra. Forse non gli interessa nemmeno partecipare. Fugge dalla serietà, sposa una vita frammentaria che non lo costringa mai a scelte troppo definitive. Ritrova un amore di gioventù, e alla resa dei conti vive pure quello come una minaccia al suo individualismo debole. Il suo rifiuto del coinvolgimento, a ben vedere, è forse lo specchio più diretto degli anni Ottanta italiani. Billo non esprime nemmeno giudizi sulla società che gli passa davanti. Gli piace fare sesso, perlopiù con belle donne sposate. È la sua piccola rivalsa. Seduce la moglie a chi trabocca di quattrini, piazza un bel paio di corna ai ricchi e la sua vita è già soddisfatta. In tanto chiasso festaiolo vi è una brevissima sequenza che riassume probabilmente il senso dell’intero film: dopo aver ciccato un incontro con la bella di turno (una giovane Moana Pozzi), Billo è l’unico personaggio del film a passare il Natale da solo.

Vacanze di Natale nasce dunque come prodotto eminentemente commerciale, ricalcando la formula vincente di Sapore di mare. È un film di svelta realizzazione. Pare che le riprese siano durate appena tre settimane, e già questo la dice lunga sul rodato mestiere di Carlo Vanzina, comunque capace in tempi così ristretti di partorire opere più che dignitose. Per buona parte il film sposa un andamento narrativo fatto di brevissime sequenze, pressoché lunghe quanto uno sketch, che specie nella prima mezz’ora si chiudono sovente con una freddura in stacco di montaggio (alcune francamente infelici: Ursus, la signora Fusilli, i riferimenti agli spot pubblicitari dell’epoca…). Nel generale passo episodico vengono anche piazzate qua e là alcune sequenze del tutto estemporanee e aliene a un unitario progetto narrativo – il manichino di Babbo Natale in vetrina che sembra molestare altri due manichini femminili, Christian De Sica alle prese con la moto da neve, una Vamos a la playa intonata da due personaggi secondari giusto per lanciare un ulteriore aggancio all’attualità musicale più immediata… Per radiografare un’epoca e una sociosfera vacue e superficiali, Vanzina sembra allinearsi intimamente alla materia del proprio racconto. Il racconto superficiale di un’epoca superficiale. Nel film sembra regnare, ovunque e sempre, la registrazione di una monocorde dimensione di piacere fra feste, spumanti, musica, balli, canti, cibo, sesso e amore. Stanno tutti bene, come stiamo bene insieme. Certo, qua e là Vanzina lascia spazio a sprazzi d’amarezza, ma a un primo livello di lettura si direbbe che perlopiù si tratta di schermaglie da fotoromanzo giovanilistico – la Serenella di Antonella Interlenghi piazza una carognata epocale a metà del racconto, ma poco male. Tra veri amici poi ci si capisce, e ci si perdona. Eppure, eppure… I Vanzina si dirigono in realtà verso un quadro assai più amaro e pregnante di quanto potrebbe apparire a una prima occhiata. La rottura più evidente dell’idillio natalizio interviene in occasione dello scambio di regali in casa Covelli. Con scelta più che evidente gli autori portano alla sua massima espressione quella frattura sociale fra Italia popolare e Italia opulenta tramite lo sguardo del Mario borgataro di Claudio Amendola. In un tripudio di pacchi-regalo sotto l’albero i Covelli si sono completamente dimenticati delle due colf filippine. È lo sguardo di Mario a introdurre l’imbarazzo e la tristezza delle colf. Tra esclusi ci si intende all’istante. Ancora: nell’ambito della stessa sequenza finiscono calpestati a terra gli occhiali a specchio che Mario regala a Samantha rinunciando a un dono ricevuto dai genitori. In sostanza, il Natale a Cortina (e un po’ ovunque) è bello e luccicante soltanto per chi può permetterselo senza troppi sacrifici, e anzi con fin troppi sprechi e ostentazioni. Di più: Vacanze di Natale mostra una fetta d’Italia che sostanzialmente può permettersi di fare il bello e il cattivo tempo con l’altra metà senza scrupoli e inibizioni. In tal senso assume tutto un altro colore anche la schermaglia alla quale si accennava più sopra. Serenella semina zizzania fra Mario e Luca per un capriccio di donna gelosa, ferita e trascurata. È un capriccio, niente di più, tanto riguarda un borgataro… che si può umiliare, schiacciare ed escludere in qualsiasi momento. E Luca ci mette un secondo a liquidare l’amico del cuore con un pugno in pieno viso. Così, tramite un conflitto tra amore e amicizia in prima istanza convenzionale e fotoromanzesco finisce invece per delinearsi una precisa e significativa stratificazione sociale che in Italia appare dura a morire. C’è chi può, e chi non può. C’è chi dispone, e c’è chi esegue. Siamo amici alla pari, ma il mio denaro e la mia estrazione sociale mi collocano inevitabilmente in posizione di vantaggio.

In questo intarsio di esclusioni sociali occupa un posto di riguardo anche l’innamoramento di Mario per Samantha. Benché la ragazza venga dai vagheggiati Stati Uniti, nuovo mito per i giovani italiani degli Ottanta, lei per prima è in fin dei conti un’outsider. «Qui si passa il tempo a decidere che cosa fare… E poi non si fa mai niente»: in una sceneggiatura che contiene più perle di quanto si pensa, Samantha dà un quadro immediato del vuoto di un’epoca, dell’assenza di veri rapporti umani, del vago sapore di cenere che emana da un eterno far niente. E saranno loro due, Mario e Samantha, a concedersi forse l’unico incontro davvero romantico e malinconico dell’intero film, sia pure soggetto alla medesima frammentarietà e fugacità che riguarda tutto l’orizzonte sociale evocato. Sarà pure un film leggero e spensierato come si è sostenuto per anni, ma a conti fatti Vacanze di Natale non riserva un lieto fine a nessuno dei suoi personaggi. Billo e Ivana non arrivano nemmeno a intravedere un futuro insieme che il senso di colpa richiama immediatamente la donna alla sua prigione coniugale; dal canto suo, Billo è tutto fuorché convinto di rinunciare alla sua vita di scapolone sciupafemmine. La loro vicenda è probabilmente la risposta più diretta al precedente Sapore di mare. Se nel finale di Sapore di mare Jerry Calà e Marina Suma si salutano amaramente in una delle sequenze più riuscite di tutto il cinema di Carlo Vanzina, d’altra parte i Billo e Ivana di Vacanze di Natale rispondono ai due predecessori ritrovandosi a Cortina a distanza di dodici anni, più maturi e amareggiati, dopo aver vissuto un primo amore al mare a Forte dei Marmi quando erano ragazzi a fine anni Sessanta. Billo è più intenzionato a inserire Ivana fra le sue puntuali conquiste vacanziere e nient’altro, mentre Ivana tenta davvero di resuscitare quel lontano amore giovanile per riscoprire emozioni perdute. A un certo punto intonano pure uno all’altro vecchi successi anni Sessanta, che richiamano immediatamente Sapore di mare. Eppure il loro è un tentativo fallimentare. Dell’entusiasmo anni Sessanta non è rimasto niente. È rimasto soltanto un fiume di amarezza adulta neanche lontanamente rischiarata dal benessere economico. Per cui, in mezzo ai bagliori dei goderecci anni Ottanta Vacanze di Natale sembra registrare anche il tradimento dei Sessanta, delle tante promesse che già quel primo periodo di benessere sembrava aver proiettato in un radioso futuro italiano. Intorno, costante e onnipresente, vige un rinnovato maschilismo all’italiana che il benessere sembra aver soltanto inacidito ulteriormente. Seguendo le linee del padre, che in famiglia non parla mai e che non ha mai una parola d’attenzione per la moglie, i due giovani Covelli trattano male le rispettive fidanzate, l’uno travolto da anomala passione calcistica per la Roma (a fine 1983 la squadra capitolina aveva vinto da pochi mesi il suo secondo scudetto, e in commento musicale impera l’inno giallorosso Grazie Roma di Antonello Venditti), l’altro in tutt’altre faccende affaccendato. In prefinale il Roberto Covelli di Christian De Sica si avvia forse verso un futuro di serenità con se stesso, ma ci arriva suo malgrado, soltanto perché i genitori lo pizzicano a letto con un uomo, e non certo per sua scelta convinta e coraggiosa – una nota a parte merita il frammento del congedo fra Roberto e Samantha, dove in campo/controcampo De Sica sfodera uno sguardo di rara intensità drammatica. Samantha stessa, in fin dei conti, giunge a una scelta facile e assai poco fantasiosa. Finita la storia con Roberto, se ne va con l’ennesimo riccone in Rolls Royce conosciuto in giro, che può permetterle la vita di lusso e priva di personalità alla quale si sta abituando stancamente. Nessuno insomma sguazza nello spirito d’iniziativa. La galleria umana presentata dai Vanzina si caratterizza per un generale indebolimento della volontà, una sorta di mesta e inquieta rassegnazione a un’esistenza non felicissima dove le condizioni materiali sono senz’altro buone, ma dove altresì nessuno è disposto a uscire con coraggio e vitalità dalla propria comfort zone.

Il quadro generale è dunque ben lontano dall’esaltazione di un’epoca, come spesso è capitato di leggere. Semmai, pare molto lungimirante la capacità dei Vanzina di intravedere un ulteriore fallimento italiano all’orizzonte. Soprattutto è lungimirante la registrazione di una disperante immobilità socio-antropologica. Cambia il mondo intorno. Cambia la musica – non più Mina e Piero Focaccia, ma Mike Oldfield e Gazebo. Cambiano le mode, le pettinature, l’abbigliamento. Il presente sembra moderno e adeguato al suo tempo. Non cambiano però i modelli comportamentali, e le dinamiche fra i personaggi sono come sempre, più di sempre, mortificanti e deludenti. L’Italia nuova è in realtà quella vecchia travestita da nuova, dove si è persa pure l’ottimistica ingenuità dei Sessanta. La società italiana di Vacanze di Natale è tutto fuorché attraente. Con la sobrietà espressiva che ha caratterizzato tutta la prima metà della sua produzione cinematografica, Carlo Vanzina dà conto infatti di un’Italia vanesia e classista, della quale c’è davvero poco da rimpiangere. C’è da rimpiangere invece un buon cinema come questo. Lontano anni luce (è bene ribadirlo) da quel che significherà anni dopo il concetto di cinepanettone. Vanzina non si limitava a raccontare il suo tempo, ma rifletteva su di esso. Il cinepanettone (nel migliore dei casi) raccontava solo se stesso tramite astratti meccanismi comici del tutto autoreferenziali.

Info
Vacanze di Natale, il trailer.

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