Anni felici

Anni felici

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I turbolenti amori dei genitori di Daniele Luchetti in una pellicola dai toni autobiografici: Anni felici, con Kim Rossi Stuart e Michaela Ramazzotti.

Amarti è una fatica

Nell’estate del 1974 Guido, artista d’avanguardia col cruccio di essere troppo convenzionale, e la moglie Serena si amano e si tradiscono, sotto lo sguardo stralunato dei figli… [sinossi]

A tutti è capitato, almeno una volta nella vita, di doversi sottoporre alla visione di un filmino delle vacanze altrui. È più o meno questa la sensazione che si prova di fronte a Anni felici di Daniele Luchetti, resoconto, come ci annuncia la voice over dell’autore stesso nei primi minuti del film, della turbolenta estate attraversata dalla sua famiglia nel lontano 1974. Turbolenze che sono per lo più amorose ed esperite in prima persona, forse con troppo poca leggerezza (in fondo erano gli anni ’70 e i tempi erano maturi per coppie aperte e liberazione sessuale), dai genitori del piccolo Daniele (qui rinominato però Dario), allora decenne ma già aspirante filmaker. Inizialmente la nuova pellicola di Luchetti, presentata di recente al Toronto Film Festival, doveva intitolarsi Storia mitologica della mia famiglia, ma il ripiego sul più sobrio e contenuto Anni felici appare assai conveniente, dal momento che di “mitologico” questa storia non ha poi molto. Certo, ognuno è libero di pensare che la propria infanzia sia, proprio come i filmini delle vacanze, eccezionale e irripetibile, ma riuscire a farne materia di un’epopea familiare per il grande schermo è tutt’altra cosa. Luchetti ha d’altronde più volte dimostrato di possedere una certa grazia nel dirigere e i toni “mitologici” certo non gli si addicono, né però la sua poetica personale riesce qui a sviluppare, a partire dalle relazioni adulterine dei suoi genitori, un discorso più ampio, vuoi sull’epoca di ambientazione e sui coevi movimenti artistici, vuoi sulle problematiche di crescita esperite da adulti e bambini.

Anni felici si compone infatti di una serie di microeventi quotidiani, ravvivati da qualche irruzione non troppo approfondita nell’ambiente artistico degli anni ‘70 e dall’effetto nostalgia prodotto da oggettistica e musica d’epoca. Ma tra pantaloni a zampa, cabine telefoniche e cineprese super8, la narrazione latita e anche gli interpreti non sembrano troppo a loro agio. Se infatti l’autore di Mio fratello è figlio unico conferma di avere un buon tocco nel dirigere gli attori più piccoli (Samuel Garofalo nei panni del suo alter ego bambino e Niccolò Calvagna in quelli del fratellino), lo stesso non si può dire per gli adulti: Kim Rossi Stuart, nei panni del padre artistoide, appare infatti piuttosto rigido e insicuro (a tratti balbetta attonito), mentre il grazioso broncio di Micaela Ramazzotti finisce presto per stancare. Dal canto suo, la teutonica e giunonica Martina Gedeck, nei panni della gallerista e amante della proletaria madre di famiglia incarnata dalla Ramazzotti, pare lottare strenuamente per uscire da un ruolo bidimensionale, ma si ritrova a capitolare di fronte a una storia che la relega a mero strumento di una liason “proibita” che non avvince né tantomeno scandalizza. Né questo era evidentemente nelle intenzioni di Luchetti, la cui scelta di privilegiare toni realistici e piani, finisce per relegare il film in una medietà dei toni controproducente, che posiziona virtualmente lo spettatore dritto sul divano di casa del regista a visionare un home movie dal quale si sente per lo più estraneo. Lo stesso discorso sull’arte d’avanguardia, che pervade in qualche modo le vite dei personaggi, ma non riesce mai a farsi vero oggetto di discussione o teorizzazione, anche a causa di dialoghi poco credibili che vedono ad esempio la madre, finalmente oggetto di un’opera del marito, finire ritratta in una scultura oversize che ne incarna, a detta dell’artista, “l’essenza”, mentre il personaggio del critico severo è infine convinto del talento dello scultore perché stavolta la sua creazione l’ha “guardato” e “giudicato severamente”.

Se è vero che un autore come Philippe Garrel è in grado di strutturare un suo film sulla base di un plot elementare squadernando i mille moti dell’anima dei suoi personaggi (come d’altronde ben dimostra il suo ultimo lavoro, La Jalousie, visto in concorso a Venezia 70) lo stesso non si può dire dunque in questo caso del nostro Luchetti. Ad Anni felici, mancano proprio quei piccoli momenti di verità, quella ricercata naturalezza che purtroppo il film non riesce mai a centrare. Niente di scandaloso certo, né da un punto della qualità del film né tantomeno dei temi trattati (adulterio e amori saffici), eppure qualcosa di “perverso” c’è in Anni felici: si tratta della già citata voice over dell’autore, che sottolinea e ricollega gli eventi in maniera esornativa e didascalica quasi a voler chiarire a se stesso il proprio passato senza mai riuscire a restituirlo in forma di racconto. Queste intrusioni del regista finiscono solo per riportare alla luce il nostro ruolo di voyeur, sorpresi alle spalle nell’atto proibito dello sfogliare un album di famiglia altrui. È proprio questo e non la bisessualità, così poco erotica della madre di famiglia, l’unico elemento realmente “pornografico”.

Info
Il trailer di Anni felici.
Il backstage di Anni felici.
Anni felici su YouTubeMovies.
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