Franny

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Con Franny, l’esordiente Andrew Renzi disegna una diseguale geografia di luoghi e sentimenti, in una storia di sensi di colpa e redenzione che si regge (quasi) tutta sulla debordante prova di Richard Gere.

L’abbraccio della colpa

Franny è un filantropo milionario, che cinque anni fa causò involontariamente la morte della coppia formata dai suoi migliori amici. Quando viene contattato da Olivia, figlia dei due, che sta per sposarsi, l’uomo fa di tutto per aiutarla, arrivando a invadere pesantemente la sua vita. I sensi di colpa e l’instabilità mentale di Franny, uniti alla sua dipendenza da morfina, rischieranno di trascinarlo nel baratro insieme a Olivia e al suo compagno… [sinossi]

Se l’indie americano, negli ultimi anni, sembra sempre più avvitarsi in un “canone” che si nutre di buone professionalità, abili narratori, ma anche di una certa tendenza alla standardizzazione (con visioni per molti versi sovrapponibili), prodotti come Franny seguono in parte un percorso diverso. Principalmente perché l’esordio nel lungometraggio di Andrew Renzi (un background da documentarista e autore di corti) non fa nessuna concessione all’estetica à la Gondry e alla levità un po’ furba di tante opere provenienti dalla stessa scuola: a partire dalla scelta di utilizzare, per la narrazione di una storia di affetti, senso di colpa e redenzione, una star stagionata, già sex symbol hollywoodiano per antonomasia, come Richard Gere. Viene da fare, semmai, un parallelo col recente Ruth & Alex, commedia “autunnale” diretta da un regista britannico prestato a Hollywood: analogo, esibito patetismo nella gestione della componente emotiva, analoga tendenza ad affidarsi all’esperienza di star provenienti da altre e diverse stagioni cinematografiche, analogo sentore e messa in evidenza del tempo che passa. Fuori e dentro lo schermo.

Franny, va detto, è un film non esente da pietismo, maldestri scivoloni nei passaggi emotivamente più forti, mancanza di misura e indebiti ricatti emotivi nei confronti dello spettatore. La sceneggiatura dello stesso Renzi fatica sovente a trovare il giusto registro, affidandosi in buona misura (se non del tutto) ad un Gere che sembra voler inaugurare una nuova fase della sua carriera. Ed è proprio nel volto del protagonista, emblematicamente trasformatosi, a più riprese, nel corso della storia, che si giocano i motivi d’interesse (e i limiti) del film: si coglie in modo palese lo sforzo (forse studiato, ma non per questo meno efficace) di trasformare un’icona che ha segnato una precisa stagione cinematografica, così come il suo immaginario, in un emblema di caducità. In questo senso, la prova del protagonista è una sorta di tour de force fisico ed emotivo che da solo tiene in vita (e giustifica) l’intera costruzione del film: quella espressa da Gere è una forma di cupo istrionismo, giocato tra humour e calcolata sgradevolezza, teso a evidenziare un rimosso che tale non è per lo spettatore. Fin dalla prima, significativa sequenza, siamo infatti a conoscenza della radice dei disturbi del protagonista: in questo senso, il film gioca fin dall’inizio a carte scoperte. Con tutto ciò che, in termini di registro narrativo e atmosfere, ne consegue.

Palese vetrina per un Gere che si cala con convinzione, e con generosa assenza di misura, nei panni di un personaggio capace di generare sentimenti contrastanti, Franny vive anche di isolate intuizioni visive: l’insistenza sugli esterni che circondano la casa della protagonista, col loro perdurante mood autunnale; le geometrie dei corridoi e delle enormi stanze in cui si aggira un Gere sempre più preda della sua dipendenza (chimica e affettiva). La fotografia degli interni, che mescola tonalità calde e avvolgenti a una studiata cupezza, è tra le migliori intuizioni del film; a sottolineare la natura soffocante, e ricattatoria, dell’abbraccio emotivo al centro della storia (quello del protagonista nei confronti della controparte, col volto di Dakota Fanning).
Proprio la scarsa presenza in scena, e la limitata rilevanza narrativa, del personaggio della Fanning, involuto e dalle potenzialità in gran parte non esplicitate, è invero tra i limiti più evidenti del film: dazio da pagare, forse inevitabile, alla debordante prova attoriale di Gere. Per il resto, la narrazione di Franny vive di impennate e passaggi a vuoto, di improvvisi “strappi” emotivi, di momenti di lacerante intensità (la crisi di astinenza, il confronto finale tra i due protagonisti) alternati ad altri di imperdonabile pacchianeria (l’escursione notturna di Gere e Theo James).

Disunito, sghembo, a tratti ridondante, ma non privo di un suo singolare magnetismo, l’esordio di Andrew Renzi si muove così in equilibrio (precario) tra commedia e melodramma; trovando il suo centro in un protagonista che aderisce al personaggio cucitogli addosso con un impeto difficile da ignorare. Lo sguardo del regista, che della storia tenta di restituire la geografia di luoghi e sentimenti, le contrastanti pulsioni e l’affetto contaminato dall’ossessione, finisce per restare soffocato da una prova attoriale che non è riuscito a contenere. Resta l’eleganza formale, e l’intravista personalità di un cineasta che, in un diverso e più adeguato contesto, potrebbe ancora dire la sua.

Info
Il trailer di Franny su Youtube.
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