Perfetti sconosciuti

Perfetti sconosciuti

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Avvalendosi di un cast di star nostrane, Paolo Genovese in Perfetti sconosciuti prova finalmente a mandare all’aria la melassa della neo-commedia italiana e ci riesce anche. Solo che poi decide di aver osato troppo e si ritrae.

Poi all’improvviso mi ricordo di me, delle mie abitudini…

Un gruppo di amici si ritrova a cena. Un po’ annoiati dall’andamento della serata, decidono di fare un esperimento: mettere i rispettivi cellulari a disposizione di tutti per condividerne comunicazioni, chiamate, sms, messenger, ecc. Quali segreti verranno a galla? [sinossi]

L’andamento della neo-commedia italiana resta appiattito su vizi e cliché da poco costruiti – a partire quantomeno da Benvenuti al Sud – e già apparentemente immutabili. Serve un cast di attori noti (dove, ovviamente, non può mancare Giallini), qualche luogo deputato (meglio se l’interno di una casa borghese in cui si ‘sente’ il set), uno spunto labilissimo per permettere di far interagire gli attori, e a quel punto il meccanismo va da sé. Non serve una storia, non serve un racconto articolato – vade retro flashback o ellissi! -, non serve meno che mai la contestualizzazione storico-politica (al limite può tornare utile l’eterna e a-temporale contrapposizione Nord-Sud come insegna tutto il cinema di Luca Miniero). Gli attori devono apparire in scena principalmente come se stessi, perché il pubblico li deve riconoscere immediatamente come incarnazioni del genere. Tutto insomma deve andare come ci si aspetta, per una sorta di macro-testo che arriva a racchiudere ciascuno di questi film.

In un contesto siffatto Paolo Genovese cova sicuramente ambizioni superiori agli altri (rispetto a un Brizzi, ad esempio, ma anche rispetto all’ex sodale Luca Miniero), vale a dire che a volte – in maniera, in certo modo, molto efficace – prova a stratificare tutto ciò attraverso il teatro. Una famiglia perfetta, con il suo gioco di finzioni e di messe in scena, sta lì a testimoniarlo. Ma quel che mancava al suo film del 2012 era un elemento fondamentale del teatro: la carne degli attori, il loro corpo, e dunque la crudeltà. In Una famiglia perfetta tutto finiva per chiudersi su se stesso in un ciclico e anti-improvvissatorio gioco di specchi, fino a palesare l’horror vacui dell’esercizio di stile, dove tra l’altro in quel cosiddetto esercizio non poteva essere inclusa la regia, piatta e anzi fastidiosamente pubblicitaria.

Ci siamo soffermati su Una famiglia perfetta, perché il nuovo film di Genovese, Perfetti sconosciuti, vi si richiama in maniera quasi letterale. Anche qui l’idea del teatro è centrale: diamo a un gruppo di attori (Giallini per l’appunto, Mastandrea, Edoardo Leo, Battiston, la Smutniak, Anna Foglietta e un’insolita – e un po’ a disagio – Alba Rohrwacher) un palcoscenico (il solito appartamento alto-borghese) e, trovato uno spunto (mettere in condivisione i rispettivi cellulari, cercando di scovare i reciproci segreti), lasciamoli interagire.
È questo Perfetti sconosciuti. Non vi è null’altro. E allora può essere sorprendente che qualcosa di buono venga fuori. Ma è proprio quel che accade: i segreti vengono davvero a galla, emerge la cattiveria e l’ipocrisia dei vari personaggi, la sceneggiatura infila una serie di situazioni e di battute molto divertenti (eccellono, in tal senso, Mastandrea e Battiston), ma – proprio come in Una famiglia perfetta – tutto finisce per annullarsi. Infatti, ad un certo punto, in modo anche maldestro, Genovese pare voglia dirci: guardate cosa potrebbe venir fuori, solo volendo, però – perdonatemi – ho solo scherzato.

E allora Perfetti sconosciuti sembra diventare il paradigma, l’incarnazione impeccabile, di questa commedia italica contemporanea: il classico potrei ma non voglio, che non si riesce mai bene a distinguere dal vorrei ma non posso. In tal senso sembra addirittura che Perfetti sconosciuti sia vittima dello stesso limite di cui soffrivano in passato certi film della Hollywood classica che, vista l’imposizione dell’happy end, ribaltavano negli ultimi minuti tutto il coraggio mostrato nel corso del film. È possibile che sia così? È possibile che a Genovese sia stato imposto un finale posticcio? In realtà crediamo di no, crediamo anzi che tra Genovese e i suoi produttori – al contrario di quanto per l’appunto succedeva ai registi americani degli anni Quaranta – vi sia una totale condivisione d’intenti. L’idea cioè di un’auto-censura che debba tenere a bada gli istinti più bassi, con l’obbligo ontologico di salvaguardare un velo d’ipocrisia e facendo sì che lo spettatore esca sempre dalla sala con il sorriso. È il cinema italiano, bellezza!

Info
Il trailer di Perfetti sconosciuti.
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