Poveri ma ricchi

Poveri ma ricchi

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Dopo Forever Young, Fausto Brizzi torna con Poveri ma ricchi al cinepanettone e lo fa descrivendo un mondo fiabesco ma verace, privo di sentimentalismo e dotato di una buona dose di cattiveria.

Gruppo di famiglia in un paesello

I Tucci sono una famiglia povera di un piccolo paese del Lazio. Padre, madre, una figlia vanitosa e un figlio genio. A completare il nucleo vi sono anche il cognato, botanico ma nullafacente, e la nonna, patita di serie TV. Un giorno accade qualcosa di completamente inaspettato: i Tucci vincono cento milioni di euro… [sinossi]

Che Fausto Brizzi non voglia seguire la strada maestra della commedia all’italiana, quella esplosa negli anni Sessanta e finita allo scadere del decennio successivo (e che continuiamo a rimpiangere), la cui caratteristica principale era di innestare nell’ordito un elemento tragico (si pensi a Il sorpasso), lo dimostra anche con il suo nuovo film, Poveri ma ricchi. E dunque, finalmente, bisogna mettersi l’anima in pace. Brizzi segue un altro percorso, ha altri modelli e altre ambizioni, ma questo non significa che sia necessariamente da deprecare, soprattutto alla luce della discreta riuscita di Forever Young prima e di Poveri ma ricchi ora.
Sin dal titolo è chiaro che, se c’è un riferimento a Dino Risi, va fatto risalire al Risi ‘buono’ e spensierato di Poveri ma belli del ’57. Più che al film in sé però è forse a un iperuranio cinematografico che ci si vuole richiamare, quello secondo cui la commedia deve essere contigua al codice del fiabesco, chiave di lettura insita sia nel neorealismo rosa che nella comicità italica (e non solo) degli anni Ottanta (e dunque post-conflittuale, in qualche modo edonistica). D’altronde lo stesso meccanismo della vincita milionaria, che innesca il motore dell’azione, è uno spunto tipicamente illusorio e favolistico, che richiama addirittura il côté anni Trenta dei ‘se potessi avere mille lire al mese’ e dell’interscambio sognante e mai effettivo tra poveri e ricchi della commedia di quel decennio, come ad esempio nel Camerini di Il signor Max (con protagonista De Sica padre).

E il percorso di Brizzi è ormai chiarissimo, soprattutto grazie a Forever Young e alla nostalgica cattiveria con cui guarda al decennio craxian-reaganiano, ma viene palesato ancor meglio in questo Poveri ma ricchi, la cui stessa cornice narrativa è favolistica: l’ultimogenito della famiglia Tucci (il cui pater familias è interpretato da De Sica figlio) ci introduce al racconto aprendo un libro delle favole da dove prende corpo l’immaginario paesino di Torresecca.
Il povero di Brizzi è dunque un povero a-temporale, eterno, incarnazione dell’atavica arte di arrangiarsi italica. I Tucci sono ‘poracci’ con dignità, e non nuovi poveri figli della crisi – e quindi del contesto storico che stiamo attraversando – come al contrario ha provato a raccontare Massimiliano Bruno in Gli ultimi saranno gli ultimi, che invece prova a guardare direttamente all’amarezza esistenziale della commedia all’italiana mostrandoci che forse oggi quel mondo narrativo non può che declinarsi in forma di tragedia.

Allo stesso tempo però Brizzi, che firma per la prima volta la sceneggiatura di un suo film da solo insieme al sodale Marco Martani (mentre fino a Forever Young vi era sempre stato almeno un terzo autore, a partire dallo stesso Massimiliano Bruno), non disdegna (e, anzi, brama) brandelli di realismo per dare corpo al suo mondo da favola: e dunque per arrivare a Torresecca bisogna prendere la Prenestina, e dunque il dialetto romanesco – e non l’italiano degli anni Trenta – diventa lo strumento indispensabile per far ridere. Tutto questo si amalgama abbastanza bene in Poveri ma ricchi, tanto da farne indubbiamente l’unico cinepanettone del 2016 in grado di convincere. E ciò accade perché probabilmente Brizzi, pur nel suo rifarsi a modelli di commedia edulcorata, ha deciso finalmente di eliminare il sentimentalismo, sempre presente nel passato, fino a Indovina chi viene a Natale?.  A partire da Forever Young, il suo cinema allora appare più sincero, meno forzato e più scopertamente cinico. Ma anche il cinismo, che sorregge per quasi tutto il tempo Poveri ma ricchi, gli arriva dal cinepanettone di De Laurentiis, che Brizzi e Martani a partire dagli anni Duemila hanno sceneggiato senza mai venire meno ai dettami del genere nato con Vacanze di Natale (1983). E, se vogliamo, la stessa idea del cinepanettone, di cui ormai Brizzi si può considerare l’unico vero erede a suo modo filologico (aiutato in questo dalla maschera desichiana), nasceva come definitivo coagulo della commedia di Risi, Monicelli, ecc., non più legata a un fenomeno sociale e/o di costume quanto a una temporalità astratta, segnata dall’eterno ritorno dell’evasione da diritti e doveri (lavoro, politica, ecc.) e dunque sostanzialmente innocua: il Natale.

Sia pur in questi limiti e all’interno di questi paletti, Poveri ma ricchi svolge adeguatamente la sua funzione, anche se paradossalmente i legami con il Natale sono labili in sede di sceneggiatura, enucleandosi soprattutto nell’ultima sezione del film, in particolare nella sera della vigilia in cui ha luogo la mascherata da straccioni, sequenza per certi versi teorica di una povertà finta e di messa in scena.
Trovata dunque finalmente la sua strada Brizzi può sbizzarrirsi con l’armamentario che gli è più congeniale, quello di ricostruire un immaginario e un satireggiare più o meno ‘ottantesco’ (Anna Mazzamauro nel ruolo della nonna, che non può che tornare almeno per un momento al gesto delle labbra ammiccanti della signorina Silvani; la spassosa apparizione di Al Bano che si esibisce nel pezzo forte del suo repertorio, Felicità), che viene però aggiornato tecnologicamente (e dunque via di gag su televisori fantascientifici, ragazzine che camminano schiave del messaggiare su telefonino tanto da dover essere guidate dal maggiordomo). E la risata allora ci accompagna per quasi tutta la visione del film, con l’unico difetto di una vicenda che a tratti si ingolfa narrativamente (la famiglia Tucci, una volta diventata ricca, lascia in maniera troppo tardiva il piccolo mondo antico di Torresecca, così come, una volta diventata consapevole dell’infelicità della ricchezza, tarda a prendere le dovute contromisure). E allo stesso tempo Brizzi si appropria finalmente della libertà di sentirsi a casa sua: via dunque il crossover dialettale (di derivazione troppo scopertamente mercantile, si pensi a Maschi contro femmine, Femmine contro maschi, Ex) e largo alla romanità più spinta; una scelta che, se può limitare la presa su un pubblico più ampio, quantomeno garantisce una veracità nelle corde del regista, coadiuvato da un cast azzeccatissimo: oltre a De Sica e alla Mazzamauro, insuperabili, funzionano perfettamente anche Lucia Ocone e persino Enrico Brignano, di solito poco convincente.
Certo, si potrebbe anche dire, come chiosa drastica, che in fin dei conti Poveri ma ricchi è un cinepanettone rivisitato: niente di più, niente di meno. Ma per questa volta va bene così.

Info
Il trailer di Poveri ma ricchi su Youtube.
La pagina Facebook di Poveri ma ricchi.
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