Poltergeist – Demoniache presenze

Poltergeist – Demoniache presenze

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In occasione dell’uscita nelle sale italiane del remake, torniamo con la mente al Poltergeist del 1982 di Tobe Hooper, scritto e prodotto da Steven Spielberg. Uno spaccato orrorifico dell’America reaganiana.

Cattiva maestra televisione

Nella tranquilla cittadina californiana di Cuesta Verde vivono i Freelings, una famiglia composta da Steve e Diane, con i loro tre figli, Dana, Robbie e la piccola Carol Anne. La loro quieta esistenza viene turbata una notte, quando Carol Anne viene sorpresa a parlare, da sola, rivolta allo schermo del televisore, e poco dopo annuncia ai genitori: “Sono arrivati!”. Da quel momento strani fenomeni di natura soprannaturale iniziano a manifestarsi nella loro casa. La famiglia non sembra particolarmente spaventata, almeno finché, durante un violento temporale, Robbie non viene catturato da un albero del giardino i cui rami lo strappano a forza dal proprio letto, quasi animati di vita propria. Mentre la famiglia cerca di trarre in salvo il ragazzino, Carol Anne, rimasta sola nella sua cameretta, viene risucchiata da un vortice luminoso apparso dal nulla e scompare senza lasciare traccia. Quando ormai i familiari disperano di trovarla, la sua voce si fa sentire appena percettibile attraverso l’audio del televisore, soffoccata dai rumori di fondo… [sinossi]
Mr. Teague: “Senti Steve, lo so benissimo che avremmo
dovuto nominarti nostro socio tre anni fa,
ma non voglio perderti adesso”
Steve (ridendo e osservando il cimitero): “Però per la piscina non c’è molto spazio”
Mr. Teague: “Il terreno è tutto nostro.
Abbiamo già preso accordi per spostare il cimitero”
Steve: “Vorrà scherzare! Sì, insomma…
Questo è un sacrilegio, no?”
Mr. Teague: “Oh, andiamo. Non esagerare.
In fondo non è mica un luogo sacro a qualche antica divinità.
Era… Era gente come noi.”
Dal film

È abbastanza sorprendente, a quasi quaranta anni di distanza, dover ribadire come e quanto sia stata distorta nell’immaginario collettivo l’immagine di Steven Spielberg, oggetto di una mistificazione critica che non ha molti eguali nella storia del cinema. A partire dagli anni Ottanta, quando il suo ruolo all’interno del sistema produttivo hollywoodiano si fa sempre più centrale, Spielberg viene letto da una parte della critica (anche italiana) come una sorta di novello tycoon, aggrappato alla sola idea dell’incasso e lontano da qualsiasi deriva artistica. Anche fughe visionarie e colme di coraggio come I predatori dell’arca perduta ed E.T. – L’extra-terrestre finiscono nel gran calderone dell’opera di consumo, adatta alla nuova tendenza dell’usa e getta. Un approccio strutturale che si stratifica ulteriormente quando ci si deve accostare ai film solo prodotti da Spielberg, e che spesso si rivelano successi clamorosi al box office.
Nel 1982, mentre la storia dell’amicizia tra il piccolo e tozzo alieno E.T. e il bambino Elliot spopola sugli schermi di mezzo mondo, certificando una volta per tutte l’avvenuta presa del potere della Mecca del Cinema da parte di Spielberg, un altro film prodotto e scritto dal golden boy del cinema statunitense mina molte delle certezze dello spettatore. Se ci si ferma alla mera apparenza, pochi registi cresciuti nel fertile terreno degli anni Settanta statunitensi, nell’epicentro o alla periferia della New Hollywood, appaiono più distanti dall’ideale di Spielberg di Tobe Hooper. Indipendente per vocazione e per indomito spirito “off”, Hooper ha schiaffato in faccia al pubblico il volto oscuro di un’America desolata, laterale, violenta, crudele e malata. Sono gli Stati Uniti di Non aprite quella porta e Quel motel vicino alla palude, costola deforme dello Psycho hitchcockiano e delle efferatezze di Herschell Gordon Lewis; Hooper li mette in scena con un occhio distaccato, asettico, quasi documentaristico nella sua asciuttezza espressiva. Anche Spielberg viaggia attraverso la wilderness di una nazione tutt’altro che pacificata, ancora scossa da venti di una guerra dissennata e abbandonata da un’istituzione sempre più marcia: il collettivo, massacrato come vacche al macello per Hooper, cerca riparo nell’oasi familiare per Spielberg, senza però riuscirci. È così per la Amity assediata da un predatore famelico ne Lo squalo (che proprio in questi gioni festeggia il suo quarantesimo compleanno, omaggiato anche dalla Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro), o per la fuga anarchica e senza speranza raccontata in Sugarland Express, ed è così anche per coloro che sognano contatti con altri mondi, tanto in Incontri ravvicinati del terzo tipo quanto in E.T..

Il contatto con un altro mondo è alla base anche di Poltergeist, il film che segnò l’incontro tra Spielberg e Hooper e che sembrò lanciare in orbita la carriera del regista di Austin, prima che gli anni seguenti lo vedessero muoversi tra film per la televisione e operazioni di medio cabotaggio per il grande schermo. E, come in E.T., è un bambino il tramite tra il “reale” e ciò che si muove al di fuori dell’umana comprensione: se Elliot instaurava un contatto affettivo con l’alieno costruito da Carlo Rambaldi, lo stesso non si può certo affermare per la piccola Carol Anne, che a cinque anni viene attratta dall’effetto neve della televisione e parla con qualcuno o qualcosa che vi abita all’interno.
Da questo punto di vista l’incipit del film appare inequivocabile per quel che concerne la base su cui verrà edificata l’intera narrazione: il programma televisivo quotidiano è terminato, e la fine delle trasmissioni è accompagnata dalle note dell’inno nazionale. Le immagini si trasformano nel classico effetto neve. Un uomo si è addormentato sulla poltrona davanti alla televisione. Un cane corre sulle scale raggiungendo il secondo piano: seguendolo la macchina da presa svela l’intera composizione familiare, tipica della middle class descritta da Spielberg (oltre al padre addormentatosi al piano terra, la moglie e i tre figli). Sembra la Drew Barrymore di E.T. anche Carol Anne, la figlia più piccola, ma le timbriche della colonna sonora e quegli occhi spalancati nella notte avvertono lo spettatore, mettendolo in guardia. I visitatori di altri mondi potranno anche venire in pace, ma sulle presenze demoniache è consigliabile non farsi troppe illusioni.

Poltergeist è, a ben vedere, il negativo fotografico di E.T.; tutto ciò che lì virava verso la commedia e il melò romantico (il rapporto di amicizia tra il bambino e l’alieno è trattato da Spielberg alla stregua della relazione amorosa) qui si muove in direzione dell’oscurità e dell’orrore. Si è spesso fatto cenno all’abitudine dello Spielberg produttore di affidare ad altri registi film che si muovessero in territori da lui maneggiati solo di rado come l’horror e il thriller, discorso che può valere anche per Gremlins di Joe Dante, Piramide di paura di Barry Levinson o Aracnofobia di Frank Marshall, ma ciò vale solo in minima parte per quel che concerne Poltergeist, che Spielberg non solo produce, ma idea e sceneggia, rarità quest’ultima assoluta che il film condivide con Incontri ravvicinati del terzo tipo e A.I. – Intelligenza artificiale. È per questo, forse, che la regia di Hooper appare completamente al servizio dell’ideale spielbergiano: i movimenti di macchina, i tagli dell’inquadratura, le luci, tutto concorre a sottolineare la lunga mano del regista di Duel e War Horse, sguardo che sovrintende e sorveglia l’intero progetto.
Così l’America rurale e oscura di Hooper lascia posto alla middle class, da sempre il ceto sociale di riferimento di Spielberg: l’America semplice ma onesta, che si guadagna ciò che ha attraverso il lavoro e si fida (forse) dei propri governanti. Ma Poltergeist dissemina la scena di contrappunti anche politici di rara efficacia e potenza: Steve e Diane sono dei conservatori, forse, arricchiti e placidamente adagiatisi nel ventre caldo e confortevole della loro bella casa su due piani, perfettamente identica a quelle presenti nell’intero quartiere (“Qui l’erba più verde cresce da te e dal tuo vicino”, afferma Steve alla ricerca di nuovi compratori) ma non è sempre stato così. Quando le presenze in casa iniziano a manifestarsi, in una forma ancora gentile e innocua, Diane presenta i fatti al marito di ritorno dal lavoro con queste parole: “Cerca di tornare al nostro passato, quando eravamo un po’ più aperti”. Dopotutto per rilassarsi la sera i due non si fanno scrupoli a fumare dell’erba, anche se Steve si immerge nella lettura di un volume dal titolo Reagan. The Man, the President.
Ha vinto Reagan le presidenziali, il paese è tornato a virare con decisione a destra, alla ricerca del vecchio. Vecchio sì, ma forse non decrepito come gli spiriti senza pace dei defunti, privati della dimora dalla speculazione edilizia, punto fermo di qualsiasi presidenza destrorsa – e non solo, a quanto pare. In un mondo iper-tecnologico, in cui i bambini si divertono con le auto comandate a distanza e due vicini ingaggiano un vero e proprio duello western usando come armi i telecomandi (“il mio vicino ha il telecomando sulla traiettoria del mio televisore”, aggiornamento della difesa della proprietà in tempi di massmediologia imperante), la natura non può che morire o farsi da parte, come lo stramazzato uccellino Tweety, a cui viene riservato un funerale in pompa magna.
In qualche modo, prima che la situazione sfugga di mano, l’apparizione dei poltergeist concede una valvola di sfogo nei campi dell’immaginario e del magico a una famiglia che stava progressivamente sprofondando nell’omologazione capitalista. Bisogna tornare a ragionare come nel passato, quando si era di mente più aperta e non si accettavano i ricatti – illusori, per quanto forse danarosi – di una società grigia, standardizzata, ovvia. L’accettazione dell’immateriale (e quindi anche del cinema) diventa agli occhi di Spielberg/Hooper un miracolo impensabile e destinato al fallimento, anche tragico, contro il vacuo materialismo plastificato del consumismo capitalista e dell’edonismo reaganiano. L’arma per distruggere la classe media è la disgregazione familiare: Carol Anne svanisce in un luogo recondito insieme ai poltergeist, Dana cerca riparo a casa degli amici, Robbie insieme al cane Tobias viene ospitato dalla nonna.

Nessun regista statunitense è riuscito (e riesce) a descrivere la famiglia statunitense media, con tutte le sue paure, i suoi pregi e le sue idiosincrasie, con la dolcezza e al contempo la durezza di Steven Spielberg. La sua tempesta demoniaca (che anticipa di pochi anni quelle che, virando verso il demenziale, saranno pane quotidiano per i Ghostbusters) colpisce al cuore l’America perché ne svela una volta di più le debolezze, i punti fragili, le zone d’ombra.
Per farlo architetta, insieme a Tobe Hooper, un potente spettacolo cinematografico, che sul piccolo schermo perde inevitabilmente forza. Combatte anche lui, come la famiglia Freeling, una battaglia contro forze demoniache, che vorrebbero annacquare il potenziale visionario di un’intera generazione. Lo schermo è dunque inondato di effetti speciali, in cui l’utilizzo del digitale (ma anche dell’artigianato) sfonda nuove barriere concettuali: anche per accettare loro, in fin dei conti, è necessario dimostrare una notevole apertura mentale, di quella che in tempi di conservatorismo al potere non è facile trovare in giro. Mai.

Info
Il trailer di Poltergeist.
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