Intervista a Francesco Di Pace

Intervista a Francesco Di Pace

L’ultimo giorno della Mostra, in attesa dell’annuncio dei premi, abbiamo incontrato Francesco Di Pace, il Delegato Generale della Settimana Internazionale della Critica che con il 2015 conclude il suo mandato. Un modo per fare il punto sulla selezione, sul sistema-cinema italiano, sui festival e sulle polemiche, piccole e grandi, che innescano…

Cominciamo, come da prassi, con il bilancio, che quest’anno diventa anche il bilancio di un mandato.

Francesco Di Pace: Il bilancio di quest’anno è senza dubbio positivo. Con i festeggiamenti per la trentesima edizione abbiamo cercato di arricchire il programma. Sono personalmente molto contento delle due scelte che abbiamo fatto; purtroppo con Peter Mullan non siamo stati baciati dalla fortuna, perché non è potuto venire nonostante l’evento fosse stato programmato con molto anticipo, e lui ci avesse assicurato la presenza. C’è stato purtroppo un equivoco tra la sua agente e il produttore del film che sta girando, e quest’ultimo ci ha detto che non ne sapeva niente e non poteva in nessun modo liberare Mullan perché raggiungesse il Lido per qualche giorno. Ne abbiamo preso atto, l’evento oramai era già organizzato. Questo ci ha sicuramente un po’ danneggiato, anche se Orphans è andato benissimo, con persone che non lo avevano mai visto che l’hanno recuperato e amato. Peccato, perché con Mullan presente sarebbe stato davvero un bell’inizio. Come è stata, dopotutto, una bella fine, perché sono particolarmente contento di aver preso Bagnoli Jungle di Antonio Capuano; quando ci siamo imbattuti nel film di Antonio, era in giro da un po’ e ancora non aveva avuto un passaggio in un festival. Il film era rimasto un po’ bloccato, con Antonio che non sapeva bene cosa farne, un documentario, un film di finzione; e quindi ho chiesto al produttore di farmelo vedere, perché rientrava perfettamente nell’idea di festeggiare le trenta edizioni con registi che avessero significato qualcosa nella storia della sezione. L’ho visto e l’ho trovato così libero, teneramente anarchico ma allo stesso tempo con una forza espressiva incredibile, e l’ho subito girato al resto della commissione, che è stata d’accordo nel selezionarlo. I due eventi si sono rivelati dunque delle belle idee. Poi, come sono andati i film quest’anno? Io credo che in assoluto, in tutta la Mostra, si sia riscontrato un abbassamento del livello generale delle opere che ci venivano sottoposte. Vale per le opere prime come per quelle di autori più affermati o maturi. Il film che mi ha convinto immediatamente l’ho trovato in realtà presto, ed era Montanha di João Salaviza, però non riuscivo a innamorarmi di altri film; questo perché il livello era mediamente buono, ma senza colpi di fulmine. Voi poi sapete, conoscendo la composizione del comitato di selezione, quali film possono essere piaciuti più a uno o più all’altro, e dopotutto non facciamo un granché per nasconderlo, perché di solito la persona che conduce il botta e risposta con il pubblico dopo la proiezione è anche quella che si è battuta di più per avere il film in concorso. Io non presento nessun film, e quindi è più difficile capire quali titoli abbia amato di più: uno è Montanha, ma anche The Return di Green Zeng, che peraltro ha messo d’accordo tutti fin da subito, coprendo anche la casella dedicata al cinema orientale che avrebbe rischiato di metterci in difficoltà. The Family di Liu Shumin, il film cinese della pre-apertura, è stato un amore al primo sguardo, ma l’abbiamo visto tardi perché abbiamo fatto l’errore di rimandare una visione così ponderosa agli ultimi giorni e quando poi l’abbiamo recuperato i giochi erano più o meno fatti. Era inoltre difficile ipotizzare una collocazione in concorso, anche per un motivo logistico: noi, come Settimana Internazionale della Critica, non abbiamo sale nostre in cui organizzare in libertà il palinsesto, siamo ospiti della Mostra e gestiamo degli orari insieme alle Giornate degli Autori. Questo non ci consente di mettere in concorso un film di quattro ore e quaranta e far saltare così tutta la composizione del palinsesto dell’altra sezione… Quindi, visto che al film tenevamo particolarmente, abbiamo ipotizzato una pre-apertura, e abbiamo proposto a Barbera e a Gosetti di utilizzare uno slot per farlo vedere il primo giorno di festival e uno slot per farlo vedere l’ultimo giorno.
Tornando al bilancio di quest’anno, credo ci siano stati film mediamente belli, con un paio che possedevano anche le qualità per piacere al pubblico, e non è forse un caso che siano proprio i titoli su cui si è aperto un dibattito (pur sempre di nicchia) un po’ polemico sui social network. Tanna per esempio è stato accusato di portare uno sguardo occidentale sulla messa in scena degli aborigeni, di fatto sfruttandoli; un discorso che mi trova completamente in disaccordo. Non si tratta di offendere me o il comitato di selezione, ma di non aver capito il progetto che sta dietro al film in questione, che è diretto da due etnologi e antropologi, documentaristi che hanno dato l’opportunità a questo popolo di fare un film di finzione, donando uno strumento di espressione che questi non avrebbero a disposizione. I registi hanno chiesto a queste persone di raccontare una loro storia, che riguarda un aspetto di conflitto all’interno della loro cultura, quello relativo ai matrimoni combinati, e l’hanno scritta insieme grazie a un mediatore culturale. Non riesco a percepirlo come sfruttamento. Poi si può discutere anche del discorso della promozione del film. Queste persone sono venute qui, uscendo per la prima volta dalla loro isola, ma non sono state portate in catene o esibite come se fossero attrazioni di un bioparco. Sono venute di loro volontà, sono rimaste stupite da quello che vedevano fuori, e si sono vestite come loro si vestono semplicemente perché spesso, quando si va all’esterno a presentare e a promuovere la propria cultura ci si sente più a proprio agio se si indossano gli abiti tradizionali. Se vale per il film nepalese, con la delegazione che si è agghindata nell’abito tradizionale, e se vale per un qualsiasi film ucraino, deve essere accettato anche per la delegazione di un film di Vanuatu. Ovvio che un vestiario così diverso da quello a cui siamo abituati in occidente abbia destato maggiore curiosità, attraendo i curiosi, ma in questo non ci vedo nulla di “sbagliato”. Non credo che i registi li abbiano sfruttati, gli hanno permesso di passare quattro o cinque giorni in Europa, vedere una città molto bella come Venezia, e quindi sono veramente stupito da questo tipo di critica.
L’altro film che ha aizzato delle polemiche è stato The Black Hen di Bahadur Bahm Min, che è stato letto da qualcuno sotto il profilo puramente ideologico, sottolineandone la poca giustezza nella messa in scena della Storia. Un punto di vista di un regista e di un intellettuale che noi non avremmo dovuto selezionare perché anti-maoista. Questo all’interno di una selezione in cui ospitavamo un film, The Return, in cui il protagonista è un comunista perseguitato e vessato dallo Stato per il proprio credo politico. La SIC dà due punti di vista diversi su due momenti simili nella storia di due paesi diversi. Io non lo vedo come uno scivolone da parte della Settimana della Critica e del Sindacato, anche se capisco che nel film nepalese possano dare fastidio le scritte finali, perché in realtà per il resto non viene mostrata chissà quale coercizione da parte dei maoisti. Io credo che il regista abbia un punto di vista abbastanza libero e obiettivo. Le scritte finali, effettivamente, mi fanno pensare che fossero lì a spiegare la storia del proprio paese all’occidente da parte di un regista nepalese, che si è lasciato sfuggire un’affermazione magari un po’ troppo forte per il tipo di film che ha fatto.
Si è trattato comunque di due film dal notevole potenziale popolare, e lo dimostra anche l’ottima percentuale di voti che hanno preso entrambi, al punto che Tanna ha anche vinto il concorso. C’erano comunque dei film su cui puntavamo molto anche per il linguaggio con cui affrontano le storie che raccontano: a parte Montanha, che trovo sì nella scia di un certo cinema portoghese ma anche molto contemporaneo, penso che Light Years metta in mostra un talento non indifferente, anche se si tratta di un film molto personale. Se Esther Campbell riuscirà a liberarsi di qualche fronzolo di troppo, diventerà secondo me una grande regista. Se devo pensare ai film che possono sperare nel Leone del Futuro credo che alcuni dei nostri titoli meriterebbero di lottare per il riconoscimento, così come film quali l’israeliano di Orizzonti o il cinese delle Giornate degli Autori, gli unici due titoli che ci siamo lasciati un po’ sfuggire. Pengfei ha preferito andare alle Giornate, perché il suo distributore ha dei contatti con Venice Days, e l’israeliano è stato letteralmente blindato dalla Mostra, e non c’è stato alcun modo di prenderlo. A parte questo le nostre sono sempre state prime scelte, e anzi abbiamo lasciato fuori anche due o tre film che ci convincevano, e che non sono finiti in nessuna altra sezione della Mostra.

Volevamo parlare con te del film italiano, Banat (Il viaggio) di Adriano Valerio, un’opera senza dubbio interessante, ma anche un po’ acerba. Qual è lo stato di salute delle opere prime italiane?

Francesco Di Pace: Lo stato è che quella è l’opera prima migliore che abbiamo visto, anche se condivido l’idea che sia un film un po’ acerbo. Quest’anno dovevamo per forza di cose andare in cerca di qualcosa “in nuce”, di qualcosa che stava lì e ti dimostrava che un autore ha uno sguardo e una capacità di racconto diversa dagli altri, anche se questa si esprime in un film un po’ piccolo, un po’ fragile. Ci si doveva accontentare di quello, quest’anno.
In alcuni casi la SIC ha fatto scelte diverse, c’è stato l’anno di Zoran, il mio nipote scemo, e poi l’anno in cui abbiamo puntato sul documentario. Anche l’anno in cui c’è stato Là-bas, che ha vinto il Leone del Futuro, la selezione del film ha avuto in realtà un percorso complesso: la prima versione che ci hanno mandato non ci convinceva e allora gli abbiamo proposto di rimontarlo, siamo intervenuti con dei consigli per farlo diventare più bello di quello che fosse.
Devo dire che quest’anno il livello degli italiani è stato un po’ deludente. Purtroppo delusioni sono arrivate anche da persone e nomi che avevano già lavorato, chi nel documentario, chi nel corto, ma che ci hanno presentato delle opere che non ci convincevano. Alcuni avevano l’alibi della storia, del tema, ma trascuravano la forma, in altri le storie non reggevano minimamente e c’erano delle pretenziosità stilistiche esagerate.
Oppure c’erano anche film che avremmo potuto furbescamente scegliere perché magari avevano un cast o appartenevano a un genere di richiamo, tipo commedia-thriller-pulpfictionesca, ma eravamo tutti d’accordo sul fatto che questo tipo di operazioni non ci interessavano. E quindi io sono contento di Banat: credo che questo film, così come Arianna di Carlo Lavagna che stava alle Giornate e per certi versi anche L’attesa di Piero Messina siano, pur nei loro limiti, tra gli esordi migliori che si sono visti a Venezia 2015. Questa è la situazione del cinema italiano. Non so perché. Sono anni che ce lo chiediamo. Il cinema italiano è malato, malato di qualcosa che non lascia sviluppare quei talenti – che a questo punto non so nemmeno più se ci siano – che vogliono rischiare con dei film più coraggiosi. A questo punto penso che chi ha le idee e il talento si diriga verso altre forme, verso le web series ad esempio, e il cinema d’autore soffra un po’ dei soliti dilemmi: faccio il film impegnato, pensoso con un linguaggio astruso oppure no, perché magari RAI Cinema mi dà i soldi se faccio una commedia e ho un cast.

È interessante quello che dicevi riguardo a Là-bas, dove avete svolto un lavoro quasi da produttori. Non è che magari è proprio questo che manca al cinema italiano, una figura di produttore in grado di impartire i giusti consigli?

Francesco Di Pace: Sì, forse c’è anche questo, sono sempre più rari quei produttori in grado di seguire un giovane talento e di indirizzarlo verso le scelte migliori, forse anche perché frenati da ristrettezze economiche che li portano ad accontentare un certo gusto dominante. Allora si prendono attori più noti perché hanno più appeal, cose così. Certo è un discorso complesso, e devo dire – per tornare al discorso di prima – che quella della selezione del film italiano è una difficoltà che abbiamo trovato tutti gli anni, e vale anche per le altre sezioni, dalle Giornate al Concorso.

L’anno scorso avevamo parlato dello spostamento della SIC e delle Giornate dalla Sala Darsena alla Perla, che è più piccola, con le conseguenti lamentale da parte delle due sezioni. Ma con l’evidente diminuizione di presenze al Lido probabilmente questo è stato un vantaggio. Perché la sala Perla si riempe sempre.

Francesco Di Pace: Sì, tutto sommato ci è andata bene. Già l’anno scorso c’era stata meno gente, ma quest’anno probabilmente anche meno. Quindi la misura della sala Perla va più che bene per la SIC e per le Giornate degli Autori, tranne quelle punte di tutto esaurito che ti danno il film italiano o altri; quest’anno ad esempio si è riempita la sala anche per il film turco. Poi tante cose dipendono anche dal programma e da come è pensato. A volte per poter accontentare vari registi e produttori fai degli errori di programmazione, ad esempio non ho capito perché il film in concorso di Gaudino, Per amor vostro, sia finito nella stessa giornata di Vasco Rossi e anche del film di Capuano. Il produttore di Gaudino e Capuano poi era lo stesso, ieri così c’è stata una specie di giornata dei napoletani, con Dario Formisano (il produttore, ndr) che correva da una parte all’altra, e poi c’era il caos creato da Vasco Rossi, con il richiamo di pubblico e fan che abbiamo visto. Ma questa del palinsesto mi rendo conto che è un po’ una mia deformazione professionale.

A cosa attribuisci questa diaspora e quale dovrebbe essere la strategia per riportare le persone al Festival di Venezia?

Francesco Di Pace: Bisognerebbe iniziare a pensare seriamente a come portare la gente qua. I veneziani grossomodo continuano a venire, gli italiani iniziano a venirci meno, mentre sono gli stranieri che non vengono più. I costi sono elevati e il festival non ti offre tanto da giustificare il prezzo che si paga per venire, tra il viaggio e l’affitto di una camera d’albergo. Gli stranieri non vengono perché non c’è il mercato e poi c’è Toronto subito dopo. Alcuni scelgono di venire solo pochi giorni, di solito i primi, e poi vanno via. È un problema di strutture ricettive. Credo che il festival potrà rimanere quello che è facendo dei piccoli aggiustamenti, ma si oscillerà sempre su questa dimensione, non intravedo segnali differenti.

In particolare sembra che non ci siano più i giovani qui al Lido, gli studenti in particolare.

Francesco Di Pace: Sì, ho notato che la nostra sala ha una media d’età molto alta. E non credo sia la sola. Non vorrei decretare il canto del cigno dell’esperienza festivaliera, voglio pensare che ci sia gente che non viene perché incontra delle difficoltà. Se poi vogliamo intonare il de profundis dell’esperienza festivaliera, bisogna dire che questa ha perso la sua “esclusiva” perchè molta gente – soprattutto i giovani – utilizza varie piattaforme on line come Festivalscope o MyMovies, dove trovi i film poco dopo i festival. Andavi al festival perché dicevi “quel film se non lo vedo lì non lo vedo più”. Era un vero e proprio rito. Oggi non è più così.

In questi 11 anni del tuo mandato, c’è stato qualche film che avete scartato e del quale vi siete pentiti?

Francesco Di Pace: Ricordo quel film di Jasmila Zbanic, Grbavica – Il segreto di Esma, che noi avevamo scartato e che poi ha vinto l’Orso d’Oro a Berlino. Ma non è che dopo ci siamo pentiti, a noi non piaceva e la nostra è stata una scelta collettiva. Anche il film che ha vinto Orizzonti l’anno scorso, Court di Chaitanya Tamhane, l’avevamo visto, ma noi in realtà sapevamo che doveva andare a Locarno, quindi non ci avrebbe fatto concorrenza da qualche altra sezione della Mostra. Poi invece è finito in Orizzonti, e ha vinto.
Poi di questi anni ricordo tante baruffe con Marco Muller per strapparci qualche titolo. Erano delle baruffe simpatiche in realtà e vertevano soprattutto sui film italiani, che sono sempre la merce più rara e contesa. Il nostro era un rapporto molto amichevole e conflittuale allo stesso stesso tempo. A volte vincevamo noi, a volte vinceva lui.

Quali sono stati invece i film che ti hanno dato più soddisfazioni in questi anni?

Francesco Di Pace: Penso a Angéle e Tony, a Beyond di Pernilla August, al film svedese Mangia Dormi Muori di Gabriela Pichler (Svezia) che vinse nel 2013. Questi sono film che ci hanno dato grandi soddisfazioni, al di là dei premi. È chiaro che poi il Leone del Futuro fa piacere, e quando ha vinto Küf (Muffa) di Ali Aydın sono stato contentissimo, quando ha vinto White Shadow anche, perché erano film che erano stati sottovalutati da altri e che noi invece avevamo fortemente voluto. Devo dire che questi anni a giudicare dei responsi che abbiamo avuto, sono stati dei buoni anni. C’è ancora gente che ti ferma e ti dice “la vostra è la sezione più bella della Mostra” e questo insomma conta, fa piacere. Io credo che la SIC abbia sempre dimostrato una sua coerenza, selezionando film in base al coraggio e alla individuazione di nuovi linguaggi. E poi il programma è stato sempre frutto di decisioni molto collettive. Certo, io in quanto Delegato Generale potevo riservarmi l’ultima parola, quella decisiva, ma devo dire che l’aspetto collettivo c’è sempre stato, con il dibattito critico fatto a cena, ecco cose che magari non avvengono per le altre sezioni, forse la selezione ufficiale le fa queste cose ma lì penso che il Direttore abbia davvero l’ultima parola.

Visto che questo è il tuo ultimo anno, quale pensi che sia l’eredità che Francesco Di Pace lascia alla SIC?

Francesco Di Pace: La sigla di Alessandro Rak per esempio. Quella è una bella eredità. Ci siamo fatti regalare questa cosa che penso reggerà per parecchi anni. A parte questo, lascio una sezione in buona salute anche se la lascio con i soliti problemi, quelli economici e di sponsorizzazione. Il sindacato fa quello che può per tenere in piedi la baracca, io credo che l’unico modo per far fare alla SIC un salto qualitativo sia aumentare la sua visibilità e visibilità significa inevitabilmente “luogo” per gli incontri dove essere visibili con un marchio che è presente. Le Giornate lo hanno fatto in questi anni e si sono guadagnati questa cosa, la visibilità che a volte pesa anche sulle scelta di un autore se andare o meno in quella sezione. Quindi ecco, l’eredità che lascio è la ricchezza e la povertà, da un altro punto di vista.

Info
Il sito della SIC.

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