Conversazione sul restauro
Restauro analogico o digitale? Ne va del futuro stesso del cinema, dell’evoluzione (o involuzione) percettiva dei film. Per approfondire l’argomento abbiamo incontrato Stella Dagna del Museo Cinema di Torino e autrice del volume Perché restaurare i film?, e Claudio Santancini, specializzato in restauro digitale presso il Filmmuseum di Vienna. La conversazione, che si è sviluppata nell’arco di più mesi – partendo dal Torino Film Festival dello scorso anno per arrivare al Cinema Ritrovato di qualche settimana fa -, si è tenuta su iniziativa di Alice Rispoli della Cineteca del Friuli.
Alice Rispoli: Il sistema analogico e quello digitale trovano punti di divergenza tangibili. Chi come Stella Dagna si dedica da anni alla conservazione della pellicola deve confrontarsi con le nuove tecnologie non solo per quanto riguarda il concetto del restauro in genere, ma anche di fruizione e proiezione dei film. Il dibattito quindi si estende come mai prima a tutti i campi del cinema, creando un acceso confronto che trova il suo apice nelle preoccupazioni rivolte soprattutto all’ipotesi sempre più probabile della scomparsa della pellicola. Il supporto, che ci scorre tra le mani e su cui lasciamo evidenti segni del nostro intervento, con l’avvento delle tecnologie digitali si rende immateriale e per questo forse ancora più fragile nella sua inconsistenza. Come cambia dunque il lavoro degli archivisti? Come cambia l’approccio con la materia? Ma, soprattutto, il digitale ha creato un dibattito per tanti versi rivoluzionario perché ci impone di processare nuovi modelli e nuovi sistemi in tempi rapidissimi. Questo ha provocato un disorientamento e uno scetticismo in particolare in chi era abituato a concepire il lavoro archivistico in senso analogico. Quindi ci sembra che sia necessario che queste differenti modalità di affrontare la materia abbiamo bisogno di incontrarsi e di dialogare, per capire limiti e convergenze di due modelli che dovranno sempre più convivere e, per questo, conoscersi.
Claudio Santancini: Riconosco e posso capire lo scetticismo nei confronti del mondo digitale. Soprattutto per quel che riguarda, negli archivi, il problema della conservazione. Io in primis sono convinto che la pellicola sia il medium più sicuro per la conservazione, e in ogni caso quello che conosciamo meglio. Non indagare però le possibilità che ci offre il digitale – o le sue necessità – rischia di diventare un handicap: ovvero, stiamo producendo tonnellate di dati, dovremmo salvarli, e quindi è necessario trovare delle soluzioni. Così il lavoro dell’archivista sta cambiando e richiede un notevole sforzo di adattamento. Alla fin fine, se ci pensiamo, nei suoi primi trent’anni di storia il cinema era prodotto su un supporto che non era pensato per durare nel tempo. La pellicola era potenzialmente molto longeva, sì, ma si tiravano le copie dai negativi finché questi non erano esausti, e poi si buttavano via. Siamo più o meno ritornati a quel punto?
Stella Dagna: Davvero ci vuole un grande sforzo di adattamento! Le trasformazioni che la “rivoluzione digitale” ha imposto al lavoro degli archivi sono state un vero terremoto e oggi è difficile capire veramente quali saranno le reali conseguenze nel tempo. Come diceva Alice, questo è un discorso enorme che coinvolge tante questioni e si può affrontare da tanti punti di vista. Il tema più urgente è probabilmente la sopravvivenza a lungo termine dei supporti e quindi dei film: al momento non esiste un formato digitale che la garantisca. Una pellicola in poliestere può mantenersi tranquillamente in buone condizioni per più di 150 anni – la Kodak dichiara addirittura 500 anni – senza particolari interventi che non siano il contenimento dell’umidità e della temperatura nell’ambiente di stoccaggio. Per la conservazione dei DCP – Digital Cinema Package, il formato digitale standard per la proiezione digitale nei cinema – viene invece raccomandata la “migrazione” (cioè il trasferimento dei dati da un supporto all’altro) ogni 3-5 anni: davvero un tempo breve… Senza contare la velocissima obsolescenza della strumentazione tecnologica. Anche ammesso che tra 10 anni il mio DCP sia ancora leggibile è possibile che non avrò più a disposizione la strumentazione per vederlo. Questa situazione può minare le fondamenta della vita d’archivio almeno così come la conosciamo oggi. Non c’è da stupirsi che la reazione del mondo archivistico sia stata quella riservata a un vero e proprio trauma, che richiede anche una fase di adattamento “psicologico”. Io, come molti altri colleghi che oggi lavorano nelle cineteche, ho iniziato questo lavoro soprattutto per amore della pellicola, della sua materialità, dei suoi colori. Ora, nel giro di pochi anni, tutti dobbiamo fare i conti con materiali e procedimenti completamente diversi e sconosciuti. Nel restauro, in particolare, il digitale ha portato a una divaricazione di competenze tra archivisti e tecnici di laboratorio. Le trasformazioni sono state così veloci che non c’è stato tempo per un reciproco aggiornamento: chi era abituato a lavorare con l’analogico può aver reagito con rifiuto o, al contrario, con un eccesso di disinvoltura teso a mascherare la propria scarsa dimestichezza con le nuove tecnologie. D’altra parte può capitare che i tecnici cui vengono affidate le lavorazioni digitali provengano dalla produzione o dalla pubblicità e conoscano poco la pellicola – che rimane comunque il materiale di partenza del lavoro di restauro – e il lavoro filologico e storico che il restauro impone. È chiaro che queste due competenze devono incontrarsi. Sicuramente finora non vi sono stati sufficienti spazi di confronto. Siamo ancora in tempo: la rivoluzione digitale è stata molto veloce ed è ancora in atto.
Claudio Santancini: È successo e non ce ne siamo accorti…
Stella Dagna: Sì, è andata davvero così. La mia sensazione è che il mondo delle cineteche in generale sia stato preso alla sprovvista. Spesso si chiudono gli occhi di fronte a quello che sta accadendo quando non si sa che pesci pigliare. In più il digitale si è imposto in un momento di generale crisi economica, il che non ha facilitato le cose. Detto questo, la necessità di affrontare l’argomento si farà sempre più impellente se vogliamo che fra trent’anni i nuovi amanti del cinema possano ancora vedere non solo i film muti e quelli della Hollywood classica “nativi analogici”, ma anche Star Wars e i nuovi film “nativi digitali”.
Claudio Santancini: Sì, io credo che un film nato in digitale debba rimanere tale, rispettando la sua forma nativa.
Stella Dagna: Rispetto alle altre arti, il restauro del film è l’unico in cui la “copia restaurata” è un oggetto nuovo rispetto ai materiali di partenza. Un oggetto che, a mio avviso – non tutti la pensano così – dovrebbe mantenere una forma materiale più vicina possibile a quella in cui è nato. Anch’io dunque penso che un film nato in digitale dovrebbe essere preservato in digitale. Questo rende ancora più inquietante il breve margine di sopravvivenza dei nuovi supporti. Per ora la soluzione proposta dal mercato è la migrazione programmata periodica [per approfondire il discorso sulla migrazione programmata, vedere l’intervista a Paolo Cherchi Usai, n.d.r.]; una soluzione costosissima e ad oggi impraticabile per la stragrande maggioranza delle cineteche. Solo le grosse case di produzione possono permettersi di applicarla in modo sistematico, in vista di un ritorno economico sul mercato dell’home video e delle riedizioni. Allo stesso modo, secondo questo principio, un film girato in 35mm andrebbe preservato in pellicola. Il digitale sarà il futuro della programmazione del normale circuito cinematografico commerciale anche se probabilmente non nella forma in cui lo conosciamo adesso. Al tempo stesso dobbiamo chiederci: la proiezione in 35mm è in sé un valore storico e culturale da preservare oppure no? Io sono convinta di sì, sia per il suo valore storico – la pellicola e le sue caratteristiche hanno contribuito grandemente a scrivere la storia estetica, sociale e fruitiva del mezzo – sia per le sue peculiari caratteristiche estetiche, perché una proiezione in pellicola produce un’immagine molto diversa da quella digitale e fino a pochi anni fa i film erano girati tenendo conto di quel tipo di look visivo. Ciò che è certo è che con il digitale bisogna fare i conti: demonizzarlo non è di nessuna utilità; altrettanto deleteria però è una sua celebrazione acritica. Il rischio c’è, soprattutto perché l’avvento del digitale è stato supportato da una massiccia campagna ideologica, tesa a incentivare il consumo di nuove tecnologie per ragioni commerciali. Ecco dunque che l’immagine digitale viene presentata come nitida, perfetta, migliore di ogni altra immagine mai prodotta nella storia. Una visione completamente antistorica. Il pubblico non specialista si convince così, per esempio, che le proiezioni digitali siano sempre migliori di quelle in pellicola, quando è piuttosto vero il contrario se teniamo conto che una proiezione in 2K contiene meno della metà delle informazioni di un 35mm. Convinzione ancora più pericolosa, eppure assai diffusa anche tra i cinefili, è che il digitale sia “immateriale”: se non c’è materia, non c’è invecchiamento, obsolescenza e morte. Questa idea dunque può spingere a credere che, una volta digitalizzato, un film sia salvo per sempre. E questo non è un errore in cui incorrono solo gli addetti ai lavori. Ad esempio la comunità europea ha stanziato dei soldi per digitalizzare dei film, con l’intento di “salvarli” rendendoli fruibili in rete. Questo tipo di semplificazione è un grosso problema. Rischiamo di accorgerci troppo tardi, quando molti film saranno scomparsi, che con la materia si deve sempre fare i conti.
Alessandro Aniballi: A proposito di immaterialità, mi è capitato recentemente di discutere con qualcuno che mi diceva che i film devono essere conservati sui grandi server o su degli storage cloud, perché sono affidabili e sicuri. Vi sembra praticabile una cosa del genere? Una cineteca può affidare il suo archivio, mettiamo anche solo quello digitale, a un server online?
Claudio Santancini: Qui bisogna fare qualche precisazione. Innanzitutto l’informazione digitale non è altro che una serie di numeri (1 e 0). Questi numeri devono essere scritti da qualche parte, memorizzati. Immaginate un Fahrenheit 101 in cui degli uomini-film camminano nei boschi ripetendo lunghe sequenze di “uno, zero, zero, uno, uno…”? Scherzi a parte: il DCP non è una cosa, un oggetto, ma un file – una cartella con diversi file in realtà – e non può rompersi. Il rischio è che le informazioni vengano corrotte – alterare un solo bit, perlomeno in un file compresso, può compromettere l’intero file -, perdute parzialmente o del tutto. Ancora, un altro grande problema è l’obsolescenza. Se pure dovessimo ricordare a memoria la sequenza numerica, sarebbe indispensabile comunque aver conservato anche le tecnologie che ci permettono di interpretarla. Pensate a quanto sarebbe potente, nei boschi di prima, l’uomo-codec! È per fare fronte a tutti questi problemi che bisogna trovare delle strategie. Sicuramente creare gli standard va oltre le competenze e gli scopi delle cineteche, ma alcuni accorgimenti potrebbero permetterci di salvare qualcosa sul lungo termine. Circolano dei supporti relativamente longevi – scordiamoci comunque le aspettative di vita della pellicola – come i nastri LTO. E per incrementarne la durata andrebbero pianificate delle migrazioni periodiche. Anche la ridondanza dei dati aiuta, magari puntando sulla differenziazione geografica: due copie nello stesso edificio offrono meno speranza di sopravvivere a un cataclisma di due copie in due diverse regioni. Insomma, non voglio né fasciarmi la testa né essere troppo ottimista, voglio solamente assumermi le mie responsabilità: se in futuro perderemo dei dati a cui tenevamo sarà stata colpa nostra. Quello dei cloud poi è un discorso a parte. Non la vedo come una soluzione praticabile, almeno per quella che è la mia esperienza. Quelli che vengono chiamati comunemente “archivi del film” non sono in realtà affatto degli archivi, bensì delle collezioni. Ce lo vedete un collezionista, che magari ha acquisito alcuni dei suoi pezzi migliori per vie “truffaldine”, che affida i suoi tesori a qualcuno che non conosce e di cui non ha completa fiducia? Almeno per ora noi teniamo tutto in casa…
Stella Dagna: No, una cineteca non può affidare il suo archivio a un server online a fini di preservazione. Oggi è impensabile ma a mio avviso neanche nel prossimo futuro sarà una soluzione possibile se si manterranno certi standard di qualità. I costi sarebbero assolutamente non sostenibili (i data center dei colossi web hanno costi di gestione altissimi e sono mantenuti in attività non per motivi umanitari ma perché sono funzionali agli interessi commerciali delle grandi imprese cui appartengono: interessi che, al di là di altre considerazioni, a lungo termine possono cambiare), a fronte di una sicurezza e di un tempo di preservazione nemmeno lontanamente paragonabili a quelli della pellicola. Un piccola specifica: se Claudio ha certamente ragione quando dice che il film in un DCP è costituito da una serie di file, ciò non toglie che si presenti a noi sempre come un oggetto che si può rompere (e in effetti, sulla base della mia esperienza, si rompe con una certa frequenza). Il contenuto del DCP può migrare su un altro supporto ma ha sempre bisogno di una base materiale, sia questo un hard disk in una valigetta imbottita o un server chiuso in un bunker in Lapponia.
Alice Rispoli: I sistemi di riproduzione e conversione digitale sono nati per creare dei nuovi modelli commerciali. Niente nasce mai con lo spirito di conservazione. Anzi, chi restaura è costretto sempre ad adeguarsi.
Stella Dagna: È vero. Questo è il motivo per cui il digitale è stato supportato dalla prepotente campagna ideologica di cui parlavamo prima. Ed è anche il motivo per cui la possibilità per le cineteche di influire sugli standard che si stanno imponendo è veramente scarsa. Il fatto che il mondo del restauro debba adattarsi a standard e macchinari pensati per la produzione commerciale non è una assoluta novità: accadeva anche per l’analogico. Come ricordava Claudio il cinema stesso non era nato per restare, ma era un’invenzione – come dicevano i Lumière – “senza futuro”. Lavorare al restauro, però, significa scegliere consapevolmente di adottare la prospettiva storico-conservativa e filologica. Non è un obbligo: l’edizione del Metropolis di Fritz Lang editata da Moroder, per esempio, a me piace, la ritengo un’opera figlia del suo tempo. Ma non è un restauro. Certo, si dice spesso, “il passato non ritorna” ed è vero. Il restauratore vive di utopie, nel tentativo di fermare qualcosa che è un flusso. Però ne è consapevole: si pone in una prospettiva storica. Il lavoro di restauro serve a ricordarsi che è fondamentale capire che il nostro modo di guardare non è né unico, né perfetto ma è frutto di un processo, del nostro essere qui in questo momento, nonché di precise strategie commerciali. Questo è uno dei motivi principali per cui le cineteche dovrebbero darsi come priorità quella di preservare l’esperienza della visione in pellicola: quando si parla di “museificare” le proiezioni in 35mm, la parola ad alcuni suona male. Eppure a mio avviso è proprio quello che va fatto: creare degli spazi “di nicchia” nei festival, nelle rassegne, nei musei, in cui chi lo desidera possa ancora fare l’esperienza delle proiezioni in pellicola. Farlo è un’urgenza: se non si agisce in fretta tra pochi anni non ci saranno più proiezionisti e stampatori in grado di trattare il 35mm, né pezzi di ricambio per le macchine e la pellicola vergine, se verrà ancora prodotta, avrà un costo proibitivo. Allora questa esperienza sarà estinta per sempre. Dire che analogico e digitale devono convivere, senza prevedere una strategia di difesa dell’analogico, è una dichiarazione che non ha senso.
Alessandro Aniballi: A proposito di approccio storico, vorrei capire bene quando è avvenuta la rivoluzione digitale. Si può dire che è avvenuta, è “esplosa”, nel momento dell’avvento del 3D in digitale?
Stella Dagna: È iniziata negli anni ’80. Il punto di non ritorno però, a mio avviso, è stato nel 2014, quando nelle sale il formato standard di proiezione è passato dal 35mm al DCP.
Claudio Santancini: Per come la vedo io è stato un processo molto lungo, per certi versi estremamente interessante. È iniziato, sì, negli anni Ottanta, con l’industria degli effetti speciali; è andato avanti con la CGI, con l’introduzione di nuovi sistemi di non-linear editing, con la nascita della color correction – che è tutta digitale, prima di allora le possibilità erano molto limitate – e, soprattutto con la grande era del Digital Intermediate, ovvero quel periodo in cui i film venivano digitalizzati, la postproduzione era svolta con tecnologie digitali ed alla fine del processo si ristampava su pellicola per la proiezione in sala. Questo ci riguarda tutti perché il restauro digitale è figlio proprio del Digital Intermediate. Insomma, la “rivoluzione digitale” è partita dalla postproduzione, poi ha colpito anche la produzione ed infine ha cambiato il mondo della distribuzione e dell’esercizio. Il ruolo del 3D è stato quello di forzare il passaggio, costringendo gli esercenti a dotarsi di un proiettore digitale.
Alessandro Aniballi: L’impressione che mi sono fatto in tal senso è che le grandi major americane abbiano usato il 3D come cavallo di Troia per riaffermare il discorso capitalista di consumo usa e getta. Vale a dire che nel giro di poco tempo tutte le sale del mondo sono state costrette ad adeguarsi al digitale e chi non ce l’ha fatta è stato costretto a chiudere i battenti. E c’è anche un altro discorso, se vogliamo, di trionfo del capitalismo: quello di nascondere l’invecchiamento. Il digitale viene usato sui film del passato anche con questo scopo: si cancella la patina del tempo, “presentificando” l’immagine. E non è un caso, allora, in base a quel che ha detto Claudio che il processo di digitalizzazione nasca proprio dalla post-produzione…
Stella Dagna: Sì, è una sorta di lifting…
Alessandro Aniballi: Ecco, mi sembra la definizione giusta: un lifting che si applica sull’archivio filmico del passato. E questo processo di presentificazione lo vediamo anche nel tipo di programmazione che propongono ora gli esercenti e, ancor prima, i distributori: oggi si può vedere nella stessa sala indifferentemente un film di ieri, come Salò di Pasolini, o di oggi, come Star Trek Beyond. Sia chiaro, non si tratta necessariamente di un fatto negativo. Lo stesso Salò per anni è stato impossibile vederlo per tutta una serie di motivi, oggi invece lo possiamo – al limite – recuperare in streaming sul nostro telefonino. Ma c’è questo forse, che in sala ora possiamo trovare una applicazione – che è in una fase ancora acerba – della teoria del flusso, prima di origine televisiva e ora appannaggio soprattutto di internet o in particolare di social network come Facebook. Tutto scorre e si finisce per perdere la dimensione storico-temporale delle cose. La multiprogrammazione delle sale, che pure ha molti aspetti positivi, forse rientra in questo discorso di riposizionamento capitalistico dell’usa e getta portato alla massima espansione. E la storia del cinema, e con essa il restauro, rischiano di diventare residuali e di essere travolti da questo flusso. Da un certo punto di vista allora diventa tutto più chiaro: da un lato c’è il trionfo del denaro e del suo correlato audiovisivo – l’immagine-spazzatura – dall’altro i tentativi di frenare questo processo.
Stella Dagna: Il rapporto con i soldi è fondamentale per comprendere davvero le logiche e lo stato dell’arte del restauro cinematografico e al contempo è la cosa di cui si parla in assoluto troppo poco. Il restauro non è estraneo alle regole di mercato. Sono regole con cui i restauratori devono costantemente mediare. Restaurare un film costa. Quantità e provenienza del denaro sono elementi determinanti nel decidere cosa restaurare e come, anche se nei discorsi pubblici non lo si ammette volentieri perché questo cozza con l’immagine brandizzata dell’attività, presentata come tutta volta all’arte per l’arte. Fare delle dinamiche economiche un tabù, non è un segno di libertà intellettuale ma piuttosto il contrario. Non può che tradursi in un condizionamento ancora più forte e più ambiguo. Anche la transizione al digitale si è realizzata per motivi economici. La mutazione dello standard di proiezione nelle sale dal 35mm al DCP, in particolare, è avvenuta nel momento in cui le Major hanno deciso che il cambiamento era per loro conveniente dal punto di vista commerciale. I nuovi formati, tra l’altro, permettono ormai un controllo molto più stretto delle copie di distribuzione eliminando quelle zone neutre che spesso sono state fondamentali nella formazione delle collezioni delle cineteche. In questo senso il mercato impone dei prodotti e impone anche delle strategie pubblicitarie. Ribadisco che in un’ottica capitalista è necessario che lo spettatore-consumatore si convinca che l’esperienza visiva di cui fruisce – e che paga – sia la migliore mai esistita, che gli standard che gli vengono proposti siano assoluti e universali e che ciò che è accaduto prima sia solo un antefatto allo stato presente delle cose. Un’idea che è la negazione stessa dell’attività di restauro (se oggi vivo nel migliore dei mondi visuali possibili perché insistere nel tentare di ricostruire uno sguardo del passato?). Il passo fondamentale per operare concretamente una forma di resistenza a questa tendenza è parlare, ragionare sul senso delle attività culturali che si compiono, in modo speciale se finanziate con denaro pubblico.
Claudio Santancini: È triste ma è così, tranne per qualche piccola sala che “resiste” e qualche festival. E dall’altra parte anche ottenere una copia analogica è diventato complicato. Non è la regola ma spesso, se le cineteche hanno una copia del film in DCP, si rifiutano di prestare la copia in pellicola, che è diventata ormai un oggetto da tenere in cassaforte.
Stella Dagna: Capita e io sono contraria. Questo del resto è un dibattito storico. Già ai tempi di Henri Langlois, fondatore della Cinémathèque Française, e di Ernest Lindgren del British Film Institute vi erano posizioni contrapposte. L’approccio di Langlois era quello di mostrare sempre e comunque, anche a costo di consumare le copie allo spasimo. Quello di Lindgren invece era di dare la precedenza alla conservazione, concedendo i film in prestito con grande parsimonia. Da un lato capisco che l’innalzarsi del prezzo della pellicola vergine e la progressiva marginalizzazione dei laboratori che lavorano con il 35mm possa portare oggi a considerare con sempre maggior preoccupazione i danni che una pellicola può subire in proiezione. Ricordiamoci che in molti casi sono le nostre copie di conservazione a lungo termine! Dall’altra parte negare sistematicamente il prestito è una politica davvero miope: certo, le condizioni di proiezione devono essere accettabili, ma a parte questo la visione del 35mm va incentivata in ogni contesto e in ogni modo possibile, altrimenti tra dieci anni non ci saranno più proiettori, pubblico e proiezionisti per dare vita alle copie che abbiamo tenuto in cassaforte. Tenere in vita professionalità e filiera dell’analogico è uno degli obiettivi; ancora più importante è dare la possibilità al pubblico di allenarsi a vedere la proiezione in pellicola per apprezzarne la bellezza. In generale io non amo affatto la logica dell’”evento” che oggi imperversa nelle politiche dei beni culturali. Faccio eccezione in questo caso: la proiezione in pellicola può allora diventare una specie di performance, un evento “live” speciale: come accade già, per esempio, nelle proiezioni con la lanterna a carbone al Cinema Ritrovato di Bologna. I festival hanno un ruolo fondamentale nell’innescare un circolo virtuoso e in questo senso è davvero una buona notizia che le Giornate del cinema muto abbiano cominciato a raccomandare agli archivi di fornire il 35mm per le loro proiezioni [vedere in proposito l’intervista al nuovo direttore Jay Weissberg, n.d.r]. A parte che la visione dei film muti è a mio avviso particolarmente penalizzata dalla visione in DCP – per l’interpolazione elettronica necessaria a ottenere la corretta velocità dopo la scansione, per la difficoltà nella resa delle colorazioni meccaniche, per la maggior evidenza di righe e colliquazioni -, una politica del genere previene anche una pratica grave ma sempre più diffusa: quella di non stampare la copia in pellicola dei nuovi “restauri” per questioni di budget. Se non c’è una copia di preservazione a lungo termine a mio avviso non possiamo parlare di restauro.
Claudio Santancini: Se posso, vorrei fare una piccola digressione sul restauro. Intendo sul restauro tout-court, non necessariamente quello del film. Ed è abbastanza curioso ma volevo riportare, dopo l’esempio di Langlois e Lindgren, quello di un’altra coppia franco-britannica: Eugène Viollet-le-Duc e John Ruskin. Mentre per il primo il restauro è il ritorno “ad uno stato di compiutezza che potrebbe non essere mai esistito in un dato tempo”, per il secondo non è altro che “la peggiore delle distruzioni”. Uno concedeva all’architetto la licenza di ritoccare la fabbrica, di interpretare e modificare le preesistenze; l’altro negava qualsiasi possibile intervento se non quello volto ad impedire che le rovine si sgretolassero, sparendo. I due estremi però in qualche modo si toccano e guardando da vicino si può trovare un elemento in comune: il restauro, per essere chiamato tale, non può fare a meno di introdurre dei cambiamenti, nel bene o nel male. Il restauro rimane però comunque distinto dalla conservazione, che pure – lungi da me negarlo – deve rimanere al centro dei nostri scopi. Quelle regole servono piuttosto a distinguere un buon restauro da uno cattivo che non a dividere il restauro dal “non-restauro”. Detto questo torniamo nel mondo reale, nel nostro; quello dei film. Nei film noi possiamo individuare diversi elementi degni di tutela, diciamo dei valori: estetici, storici, d’uso… il rimando ad Alois Riegl, lo storico dell’arte austriaco, è scontato. Ora, salvarli tutti non si può. Una delle cose più sagge che ho sentito dire – l’ha detta Nicola Mazzanti – a riguardo è: “Non posso resuscitare mia nonna morta che ha visto il film cinquant’anni fa!” È chiaro che se considero quale elemento fondamentale del mio film il fatto che ad ogni proiezione invecchi un pochino, senza il quale non voglio neanche riconoscergli lo status di film, beh, allora un restauro digitale è da escludere. Se invece quello che mi interessa è vedere delle immagini in movimento su uno schermo, non vedo perché esitare. Una soluzione che faccia dialogare i due estremi è auspicabile. Nella mia esperienza ho imparato che il restauro è l’arte di fare dei compromessi, per prima cosa tra il presente, il passato e il futuro. Tornando poi al nostro discorso sulla proiezione digitale, sicuramente le due visioni sono diverse. La visione di un DCP in sala non potrà mai riprodurre la stessa resa della proiezione sul suo supporto originale, ma può essere anche colpa di una qualità mediocre del DCP, che può essere stato fatto male. Non il DCP in sé come standard, ma le tecnologie digitali, in generale, ci offrono delle possibilità di emulazione abbastanza sofisticate. Se non tutto, riusciamo a riprodurre molto. Si vedrà poi se potremo, vorremo o dovremo accontentarci. In ogni caso non demonizzerei l’uso nel restauro di questa o quella tecnologia. Del resto Michele Canosa ci insegna: “Il restauro è un metodo e una prassi, non una tecnica. Si serve di tecniche ma in esse non si esaurisce”.
Alessandro Aniballi: Però, per esempio, questa cosa della nitidezza maggiore è vera?
Claudio Santancini: Nei casi di restauro digitale spesso e volentieri viene spinta.
Alessandro Aniballi: Quindi viene fatta una scelta consapevole, una scelta – diciamo – editoriale?
Claudio Santancini: Spesso vengono applicati dei filtri, degli algoritmi. Nel software che uso io questo filtro si chiama ‘enhance’, che sta per ‘migliora’. Migliora il fuoco sull’immagine. Alza il contrasto a livello dei pixel, tra un pixel e l’altro, e quindi dà l’effetto del fuoco.
Alessandro Aniballi: Vi cito esattamente cosa ci disse Ciro Giorgini in proposito quando l’abbiamo intervistato: “Qualche tempo fa ho avuto modo di vedere Stromboli di Rossellini in DCP, tutto il film aveva questo appiattimento dei grigi, tutto lo schermo baluginava di pixel in modo incontrollato, con una regia quasi onirica, non prevista da nessuno, meno che mai dall’autore. Poi, verso il finale, quando Ingrid Bergman sale sul vulcano e inizia questo percorso di redenzione personale e comincia a invocare Dio e a guardare in basso da dove salgono le nubi, c’è questa fantastica inquadratura in cui lei sale e fende le nubi con un abitino probabilmente blu a pois bianchi. In digitale si vede perfettamente la piega della stiratura del colletto dell’abito. Lì sono stato l’unico a esplodere in una risata crassa chiedendomi chi fosse stata la costumista del film. Ecco, questo è il digitale, Rossellini aveva strutturato così la piramide visiva: il centro del fotogramma erano gli occhi della Bergman, poi venivano i nembi, la sua voce rivolta a Dio, la terra sotto di lei tutta scura. Il film lo abbiamo amato perché questo era l’ordine nell’inquadratura. Ora, con il digitale, purtroppo il colletto stirato rientra, nella gerarchia visiva, allo stesso livello degli occhi di Ingrid Bergman. Questo regala il digitale, regala delle cose che l’autore non voleva”. Mi sembra perfettamente in tema con l’idea del cosiddetto ‘enhance’. Detto questo, mi piacerebbe sapere altre cose a proposito del restauro digitale. Mi è stato detto, ad esempio, che esistono dei plug-in per togliere i graffi e che, una volta azionato il plug-in, si può agire anche in automatico. È così?
Claudio Santancini: Esistono dei software completi dedicati interamente al restauro digitale. Si tratta di tutte quelle operazioni successive alla digitalizzazione per mezzo delle quali si lavora l’immagine – discorso a parte, anche se con solide basi comuni, è quello del suono – per cercare di riportarla a uno stato precedente alle alterazioni introdotte nel corso del tempo. La gamma di strumenti è vasta e differenziata per agire meglio su quelli che sono i problemi più comuni del film (e del video). Possiamo “correggere” la stabilità dell’immagine, lo sfarfallio, eliminare la presenza di graffi e polvere, ecc. Inoltre sì, in base alle esigenze, si possono applicare strumenti automatici, semi-automatici e manuali. Il graffio è un esempio un po’ dispettoso perché è di solito la cosa più difficile da rimuovere. Se si parte da una sorgente, da una pellicola, con dei graffi particolarmente profondi o visibili, si preferisce la scansione sotto liquido. Quindi un processo che rimuove almeno in parte i graffi durante la digitalizzazione.
Alice Rispoli: L’automatismo non si dovrebbe fare mai. L’intervento dovrebbe essere sempre manuale.
Alessandro Aniballi: E invece si fanno questi automatismi?
Alice Rispoli: Mi è capitato una volta di provare la funzione automatica di un programma di restauro digitale e veder sparire, da alcuni fotogrammi di un film, dei gabbiani in lontananza. Il dettaglio era talmente piccolo che il software li aveva letti come sporco.
Claudio Santancini: Il fatto è questo: i software, seppure molto sofisticati, sono incapaci di interpretare le immagini e non fanno assolutamente nessuna distinzione tra un pixel che faccia parte di un granello di polvere ed uno che rappresenti invece l’ala di un gabbiano. Se l’algoritmo riconosce l’ala come sporco la rimuove: questo si chiama artefatto. Per questo, se si vuole ottenere un risultato pulito, un lavoro eticamente accettabile e senza artefatti, tutta la lavorazione deve essere seguita dall’operatore fotogramma per fotogramma, anche quando si utilizzano gli strumenti automatici. Ci vuole molta pazienza, però avere un buon controllo sull’intervento è possibilissimo, quindi non vedo niente di male negli strumenti automatici se usati adeguatamente. Alice, dicevi di aver visto sparire dei dettagli dall’immagine. Per come la vedo io non è del tutto esatto: in realtà non era stato tolto ma aggiunto qualcosa. Modificare anche solo un pixel significa aggiungere qualcosa del presente sull’immagine del passato. Farlo dove non dovrebbe essere fatto, come nel caso dei nostri gabbiani, non solo non è eticamente giusto nei confronti delle generazioni future, ma è anche una gran perdita di tempo! Non tutte le alterazioni tra l’altro devono essere emendate. Ha avuto una certa fortuna – anche a livello internazionale – la teoria di Michele Canosa che distingue le alterazioni in guasti, errori e difetti. Vengono indicati come guasti quei “problemi” di natura chimico-fisica che testimoniano del passaggio del film nel tempo come ad esempio lo sporco, i graffi, le rotture. Gli errori sono i cambiamenti apportati al testo originale nel corso della sua storia, della sua tradizione, introdotti ad esempio nel processo di stampa di una nuova copia. Infine i difetti sono alterazioni del suono o dell’immagine introdotti durante la produzione del film, spesso legati ai limiti tecnici dell’epoca o alle stesse condizioni originali di produzione o fruizione. Certo, queste categorie non risolvono una volta e per sempre tutti i possibili crucci in cui incorre quotidianamente un restauratore, ma sono un aiuto preziosissimo e ci suggeriscono, per esempio, che un difetto, essendo sempre stato parte del film ed anche se fastidioso ai nostri occhi, deve essere preservato.
Stella Dagna: Ancora una parola sulla nitidezza di cui parlava Ciro Giorgini. L’immagine digitale, anche al di là della sua manipolazione specifica con i software di restauro, ha una natura diversa da quella analogica: una natura geometrica vs una natura chimica. Non è facile parlare di queste cose perché spesso manca proprio un terminologia condivisa. La ”maggiore nitidezza” è un modo di indicare questa sorta di “durezza” visiva. Una caratteristica che in sé non è né un bene né un male: alcuni film girati oggi, anzi, esaltano le possibilità di questo tipo di visione. Se si restaura, però, l’obiettivo è quello di riprodurre una immagine più simile possibile a quella che il film aveva alla sua uscita. In questo senso, finché si restaurano film nativi analogici l’immagine 35mm sarà sempre più fedele all’“originale” che si è scelto come riferimento. Per quanto riguarda le manipolazioni dell’immagine in fase di restauro digitale, sicuramente possono essere operate con criteri molto diversi di professionalità e buon senso. Ci sono però alcuni problemi strutturali. Un esempio: il quadro 1:1,33 nei restauri digitali dei film muti viene quasi sempre tagliato, lasciando fuori una porzione più o meno significativa dell’immagine. Questa pratica può essere naturalmente applicata con più o meno attenzione, ma anche in casi di restauri filologicamente accurati, spesso si rende necessaria per nascondere gli effetti sull’interlinea inferiore dei programmi di stabilizzazione. L’applicazione di questi ultimi è a sua volta spesso una scelta obbligata se si prevede l’uscita in digitale. L’immagine morbida della pellicola rende infatti molto più accettabili in fase di proiezione i danni del tempo come righe, colliquazioni e leggera instabilità che in digitale diventano decisamente più evidenti e fastidiosi. In particolare la stabilità del frame diventa fondamentale. Ancora, la riproduzione di alcuni colori di cui al momento non si trova un efficace corrispettivo digitale. Personalmente ho avuto molti problemi con la riproduzione digitale del viraggio blu, sebbene il tecnico che in quell’occasione lavorava con me fosse di altissimo livello. Il problema principale a proposito dell’invasività del restauro digitale è anche un altro: chi davvero tiene il coltello dalla parte del manico se ci sono scelte importanti da prendere. Cosa succede infatti se il committente chiede ai tecnici un intervento più pesante?
Claudio Santancini: Il nostro è un caso diverso perché, come Filmmuseum di Vienna, siamo i committenti di noi stessi, il più delle volte.
Alessandro Aniballi: E invece cosa potrebbe succedere in altri casi, quelli dove i committenti richiedono un intervento più spinto? Sai qualcosa su questo?
Claudio Santancini: Beh, dipende. Dipende dalla richieste e dai laboratori. Le cineteche sanno spesso come difendersi, ma i laboratori commerciali difficilmente si fanno scrupoli di carattere etico.
Stella Dagna: Anche le cineteche possono essere fortemente condizionate, per esempio dai grossi sponsor o dalle esigenze tecniche delle uscite in home video dei propri restauri. I laboratori commerciali sono la maggioranza e spesso hanno a disposizione ottimi professionisti che però sono legati alle necessità dei clienti: a mio avviso il codice etico del restauro non deve essere delegato al singolo individuo o ente. Bisogna lavorare per creare un codice condiviso pubblico e ufficiale.
Alessandro Aniballi: Un film restaurato che ho visto recentemente al festival di Torino è L’infernale Quinlan. Il film di Welles è stato restaurato nel 1998 con la consulenza di Jonathan Rosenbaum e il contributo di Walter Murch. E devo dire che, pur trattandosi di un DCP, mi è sembrato di ottima qualità.
Claudio Santancini: Per ottima qualità intendi paradossalmente che era sporco, non perfetto?
Alessandro Aniballi: Ecco, non era sporco ma, come dire, l’immagine era ‘vissuta’. Sembrava provenire effettivamente da un passato. Mentre ad esempio a Cannes ho visto, sempre per restare in ambito wellesiano, il restauro di La signora di Shanghai e l’ho trovato tremendo: l’immagine era piatta, senza profondità, e senza contrasto. Paradossale per quel che abbiamo detto degli interventi digitali. Ma forse in quel caso avevano giocato sull’effetto contrario, quasi dando un effetto flou, che però era l’esatto contrario del lavoro che faceva Welles sul bianco e nero, visto che ha sempre lavorato sui contrasti.
Stella Dagna: I restauri fatti bene e quelli fatti male sono sempre esistiti. Il restauro digitale però aumenta di molto la possibilità di manipolazione e dunque di tradimento. Ma cosa è alla fine il restauro digitale? Sul tema c’è un duraturo fraintendimento lessicale. Il “restauro digitale” è una fase prevista – ormai sempre più spesso – del processo del restauro del film. Viene invece fatto passare per un processo che ha una sua autonomia, come fosse un’alternativa di rottura a tutte le pratiche precedenti. È un problema di terminologia dovuto probabilmente alla traduzione del termine inglese, “digital restoration”.
Claudio Santancini: Infatti in inglese indica un intervento di tipo tecnico.
Stella Dagna: Sì e questa confusione lessicale ha delle conseguenze. Permette per esempio che si possa definire “restauro digitale” la versione home video di un film su cui è stata semplicemente effettuata pulizia e stabilizzazione. Chi comprerà il dvd “restaurato” di un film si convincerà che quel film è preservato per le generazioni future e che vedendolo nel televisore di casa fruirà davvero dell’esperienza del restauro. Niente di questo è vero. Anche per questo sarebbe così importante che la FIAF – la federazione internazionale degli archivi filmici – elaborasse degli standard e magari coordinasse la creazione di un catalogo dei pubblici restauri. Finché non si mettono dei punti fermi, sarà sempre una giungla, in cui è possibile fare una digitalizzazione, dare una pulita e affermare che si è fatto un restauro!
Alessandro Aniballi: Un film restaurato in digitale, soprattutto – mi pare – un film in bianco e nero, non ha mai la stessa resa e l’immagine non ha mai un livello sufficiente di accettabilità.
Claudio Santancini: Per non accettabile intendi sempre l’esasperazione di quella che abbiamo definito l’estetica del lifting?
Alessandro Aniballi: Sì. Si vede il tentativo di lifting. È troppo brillante, in genere.
Stella Dagna: Questo effetto è esasperato dal fatto che molti restauri digitali sono pensati per l’home video, quindi tutto il lavoro di grading, di pulizia dell’immagine non è ottimizzato per essere presentato in sala sul grande schermo.
Alice Rispoli: A proposito dei contemporanei, anche se forse è il concetto può risultare un po’ azzardato, è giusto dichiarare l’autore – o l’avente diritto – come soggetto autorizzato a modificare l’opera o persino distruggerla? Il film che giunge a noi non è anche patrimonio collettivo? Il caso Star Wars, che Stella ha riportato nel suo libro, Perché restaurare i film? [Nel 1997, la trilogia fu rimasterizzata e ridistribuita nei cinema. In quell’occasione, Lucas aggiunse e modificò delle scene, dichiarando che era quella la versione che doveva rimanere nella memoria degli spettatori, n.d.r.], non è emblematico di quanto il cinema sia sempre legato all’aspetto commerciale più che al concetto di bene culturale da vincolare?
Stella Dagna: Il caso di Lucas e della sua revisione della prima trilogia di Guerre stellari – prima in ordine di uscita nei cinema – è più che emblematico! Sembra fatto apposta per riassumere gli interrogativi principali legati al nostro discorso: cos’è l’“originale al cinema”? Cos’è la copia di conservazione? Chi è l’autore di un film? E soprattutto: chi decide della vita, della morte e del futuro dei film? La contrapposizione tra ragioni del denaro e ragioni della tutela però non è mai troppo semplice: rimanendo su Guerre Stellari, i fan accusano Lucas di aver rieditato la prima trilogia esclusivamente per denaro, ma lui risponde appellandosi invece proprio alla sua “visione autoriale”, di solito concetto portabandiera del cinema come arte. Io comunque, per rispondere alla domanda, credo che il film, una volta raggiunto il pubblico, diventi anche un patrimonio collettivo. “Han shot first”, insomma, e i fan hanno ragione a pretendere la sopravvivenza della versione su cui hanno costruito un potente riferimento per il loro immaginario. La soluzione ce la offre la riproducibilità tecnica: nel cinema possono sopravvivere versioni diverse dello stesso film. Lucas avrebbe potuto divertirsi a modificare la trilogia con tutte le novità CGI garantendo comunque la preservazione e la distribuzione dell’originale. Ovviamente tutto questo costa. E di solito chi ha l’ultima parola sul destino del film non è nemmeno tanto il regista – il cui status di “autore” assoluto nel cinema è comunque tutto da dimostrare – quanto la produzione.
Alessandro Aniballi: In un’altra intervista che abbiamo realizzato, questa volta con Naum Kleiman, ex direttore del Museo del Cinema di Mosca, lui ha commentato così il restauro digitale di Aleksandr Nevskij: “Quando il film è stato realizzato, le tecnologie sonore erano molto più arretrate rispetto ad oggi e senz’altro ora il film restaurato ha un sonoro eccezionale. Ma il fatto è che Prokof’ev aveva fatto un lavoro molto particolare, ad esempio usando dieci microfoni contemporaneamente perché Ejzenstejn gli aveva spiegato il metodo di registrazione utilizzato da Disney, con il direttore d’orchestra Leopold Stokowski che aveva inventato una sorta di stereo raddoppiato. Prokof’ev inoltre aveva fatto delle sperimentazioni per il suono dell’orchestra di Aleksandr Nevskij mettendo il microfono all’interno delle trombe per distruggerne la purezza del suono. Ora, con il restauro, il suono è quello di una tromba normale e non quello di una tromba spezzata, con questo tremolo così particolare che aveva ottenuto Prokof’ev. Perciò, nel caso specifico, il perfezionismo va contro il film”.
Stella Dagna: Sono assolutamente d’accordo con la perplessità espressa da Kleiman. Lui generosamente parla di “perfezionismo”, un termine che non userei: suggerisce infatti che l’appiattimento agli standard sonori – e in altri contesti visivi – odierni sia traducibile in una ricerca della perfezione. Ma chi decide i criteri per giudicare la perfezione? Ribadisco: le nostre abitudini percettive sono un prodotto storico, migliore sotto alcuni aspetti e più debole sotto altri rispetto a quello delle generazioni passate. Preservare la consapevolezza di queste differenze è uno dei fini principali del restauro.
Alessandro Aniballi: Sì, in tal senso dovremmo ritornare anche alla definizione di lifting, perché nel caso di Aleksandr Nevskij si è tentato di eliminare il processo di invecchiamento, non solo dell’immagine, ma anche del suono, con l’idea che all’epoca non fossero riusciti a realizzare tecnicamente un sonoro ‘pulito’.
Stella Dagna: Come accennavamo, nel restauro cinematografico non c’è un “originale” evidente per se stesso. Si sceglie un momento della vita del film cui fare riferimento per identificare la copia che si cercherà di riprodurre più fedelmente possibile. Questo non significa che si possa fare tutto e il contrario di tutto a piacimento: l’originale di riferimento di restauro deve sempre essere esistito storicamente in forma compiuta. È estremamente probabile che Aleksandr Nevskij alla sua prima proiezione pubblica non avesse sull’immagine graffi e sporco: quelli sono elementi su cui si può lavorare. In nessun momento storico precedente, invece, il film ha avuto il suono “pulito” che descrive Kleiman. Si tratta, in un certo senso, di una riedizione, non di un restauro. Stesso discorso per la cancellazione delle giunte originali, dei segni rivelatori dei trucchi sull’immagine: vanno lasciati dove sono. Per non parlare del restyling dei colori. È un pericolo che si può correre anche quando si chiama il regista o il direttore della fotografia come consulente per il restauro. Un’occasione preziosa ma anche un grosso rischio: per chi ha lavorato a un’opera la tentazione di dare una sistematina qua e una là o di adattare alcune scelte stilistiche ai propri mutamenti di gusto è molto forte… Poi, non è che con il digitale si possa fare tutto..
Alice Rispoli: Però adesso l’intervento può essere molto più invasivo.
Stella Dagna: Sì, è vero, può essere molto più invasivo e si ha un potere di manipolazione molto maggiore. Tuttavia va sfatata la leggenda che lo vuole capace di ovviare a qualunque problema. Qualche anno fa, nel corso dei primi restauri digitali che abbiamo seguito a Torino, mi ricordo che spesso andavamo dai tecnici e chiedevamo: “Ah, toglici questo, oppure aggiusta quest’altro”, come se DaVinci Revival [un software di restauro, n.d.r.] fosse una bacchetta magica. E, spesso, ci veniva risposto: “No, questo non si può fare. Quest’altra cosa neppure”.
Claudio Santancini: Torno un attimo al discorso sulla perfezione dell’immagine. Tempo fa lavoravo al restauro di un film fianco a fianco con il suo autore. In fase di color correction mi ha raccontato che all’epoca della realizzazione del film – qualche decennio fa, quindi al tempo della pellicola – era in contatto con due laboratori: uno faceva le copie più rosse e l’altro più verdi. Uno costava di più, l’altro un po’ meno, quindi sceglieva a seconda del budget a disposizione. È sempre stato così. Al di là delle tecniche e degli accorgimenti del restauro, come la stampa sotto liquido, creare una copia analogica non è mai stato un processo del tutto indolore. Anche se la pellicola permette di conservare un carattere come la “pastosità” dell’immagine – che, sono d’accordo, non si ottiene mai del tutto con una proiezione digitale – introduce comunque dei cambiamenti, non è mai invisibile.
Alessandro Aniballi: Come dire che una “neutralità” dell’immagine è impossibile ed è sempre stato così?
Stella Dagna: Sì, l’immagine non può mai essere neutrale. È un po’ quello che si diceva prima: il restauro fa parte della storia del film e della storia delle sue copie. E il restauro non è che l’ennesima trasformazione che il film subisce, quindi ovviamente non è un annullamento del tempo trascorso, ma, in un certo senso, una proiezione in avanti. Certo, il digitale muta l’idea di “unicità della copia”: Ogni copia analogica dello stesso film è diversa, ha delle caratteristiche tutte sue. Anche i DCP di uno stesso film possono essere diversi tra loro se il processo di produzione è stato diverso (per esempio se sono state fatte digitalizzazioni differenti in momenti diversi), ma in caso contrario sono praticamente identici. Tutt’altro rispetto all’unicità della copia 35 mm.
Alice Rispoli: Con il digitale, scomparirà del tutto il concetto di collazione o confronto di testimoni? Che cosa avverrà quando non avremo più copie da confrontare? Non si restaureranno più i film, perché non “invecchieranno” più?
Claudio Santancini: Difficile a dirsi, ma non mi sbilancerei troppo in quella direzione. Come dice Stella, due copie dello stesso file sono identiche ma due digitalizzazioni possono essere anche molto diverse tra loro. Inoltre sappiamo bene che non è solo la copia ad invecchiare, o comunque a cambiare nel corso del tempo. Le modalità di fruizione cambiano, gli spettatori cambiano; i film non smetteranno mai di invecchiare. Semmai ci si spingesse tanto in là avremmo altri tipi di problemi che ci costringerebbero a trovare altre soluzioni. Incluso un ripensamento dell’uso da farsi degli strumenti della filologia. Pensiamo a quanto è accaduto col video: era, diciamo, scritto che i supporti magnetici morissero nel giro di qualche anno. Con loro sono state abbandonate le tecnologie analogiche che li avevano creati, sono stati in qualche modo “superati” da quelle digitali. Nel caso del restauro del video nessuno si oppone alla digitalizzazione. Ammesso, però, che si riuscissero a conservare per un periodo accettabile i dati delle scansioni, inalterati nel tempo dal giorno dell’acquisizione, avremo comunque il problema di come presentarli: su uno schermo d’epoca o su uno che ne possa riprodurre le caratteristiche? Il lavoro del restauratore non finisce col congelamento dell’oggetto in uno stato di eterna perfezione.
Stella Dagna: I film invecchieranno sempre, ma in modo diverso. Comunque ancora per molti anni la collazione – cioè il confronto di copie diverse di uno stesso film e la conseguente selezione delle fonti da cui attingere per la ricostruzione delle diverse sequenze in fase di restauro – così come la conosciamo sarà parte del lavoro di restauro: almeno finché si restaureranno film nativi analogici. Non dimentichiamo che fino a pochi anni fa per essere proiettato al cinema un film doveva essere stampato in 35mm e che ancora oggi alcuni film vengono girati in pellicola. La collazione è un tema chiave: quello cinematografico è l’unico tipo di restauro in cui il risultato del lavoro è un oggetto completamente diverso rispetto ai materiali di partenza. In alcuni casi un oggetto composto con elementi tratti da copie diverse. Avremo a che fare con questa pratica ancora per un bel po’. A meno che, naturalmente, non si prospetti una veloce e completa sparizione del 35mm che implichi, per dire, anche l’obsolescenza degli scanner. Il che, per fortuna, per ora non sembra un panorama probabile. Provare invece a immaginare cosa sarà il restauro di film di cui esistono solo copie digitali è oggi molto difficile: può darsi che diventerà un lavoro che richiederà soprattutto competenze informatiche che permettano di gestire la transizione da un formato digitale all’altro. Siamo nel campo delle ipotesi. Sicuramente sarà un cambiamento radicale ed è probabile che la componente “filologica” del lavoro verrà fortemente ridimensionata. Il digitale cambia davvero molte cose, compreso il nostro rapporto di spettatori con le immagini. La ripresa analogica era ben rappresentata dalla metafora dell’impronta: il pubblico guardava qualcosa sullo schermo dando inconsciamente per scontato che quella stessa cosa (un corpo, un viso, un oggetto) fosse esistita davvero nel mondo reale, pur se in un altro tempo e luogo. Oggi la ripresa digitale e la diffusione delle pratiche di manipolazione in postproduzione ci ha abituati a guardare i film diversamente, allentando la relazione profonda che esisteva tra immagine e realtà: quasi come una volta si guardava ai cartoni animati. Ormai l’effetto speciale non provoca più meraviglia perché “sembra vero” quanto perché tecnicamente riuscito, originale, mai visto prima.
Claudio Santancini: L’educazione visiva è cambiata tantissimo. Ad esempio a noi, per un restauro commissionato da un’emittente televisiva, hanno chiesto di togliere il flicker, di stabilizzare, di ‘pompare’ i contrasti; tutti difetti che in qualche modo potevano far parte del gioco nel mondo analogico, che di quelle immagini erano un carattere da preservare. Invece gli artefatti digitali della compressione di oggi non vengono notati, perché siamo abituati a vedere immagini su youtube piene di “blocchettoni” e nessuno si lamenta. Mentre il flicker non va bene e va tolto…
Stella Dagna: Questa cosa è verissima. Facciamo molto meno caso a ciò a cui siamo abituati. Ma, come ho già detto, il nostro non è il migliore dei mondi visibili possibili. Bisognerebbe lavorare a livello divulgativo sull’eccezionalità della proiezione in pellicola. Proporla come visione che restituisce un’esperienza unica, qualcosa di speciale, che non si vede tutti i giorni ma solo in occasioni particolari. La proiezione potrebbe diventare quasi un’arte performativa, come le proiezioni con la lanterna magica.
Alessandro Aniballi: Che è esattamente l’idea geniale proposta qualche mese fa da Tarantino con il suo The Hateful Eight. Nemmeno più proiezioni in 35, ma proiezioni in 70, e addirittura in Super Panavision, un formato che non si usava più dagli anni Sessanta. Un modo questo per estremizzare la natura spettacolare del cinema [per approfondire, vedere qui e qui, n.d.r.].
Stella Dagna: Chi ama la pellicola e pensa che debba continuare ad esistere non sarà mai abbastanza grato a Quentin Tarantino. Il suo status di regista cult, nonché di persona molto simpatica, animata da un feticismo autentico e popolare, ne fa un ambasciatore preziosissimo per avvicinare il mondo cinefilo ai temi legati alla sopravvivenza del 35mm. La sua strategia per The Hateful Eight, in perfetta coerenza con le sue dichiarazioni e la sua storia di regista – ha sempre dichiarato che non ama le proiezioni in DCP, ha preteso che a Cannes fosse proiettata per il ventennale di Pulp Fiction la copia 35mm – va proprio in questa direzione: presentare la proiezione in pellicola come un grande spettacolo, un evento unico, in cui l’importante per lo spettatore diventa l’essere lì ed ora. Oggi girare in pellicola, tanto più in 70mm, e pretendere che il proprio film sia mostrato in quel formato è una pretesa che implica un potere di negoziazione che ben pochi registi possono avere: Tarantino, Paul Thomas Anderson, Christopher Nolan. Il loro impegno in questa battaglia culturale è fondamentale.
Alice Rispoli: Comunque, l’idea di dover educare il pubblico alla visione su pellicola è un fatto assolutamente nuovo.
Stella Dagna: Infatti, anche perché se sei un operatore culturale, i bisogni li crei e non li insegui. La domanda è: “È meglio avere una prospettiva storica sulle cose o abbandonarsi passivamente alle trasformazioni e alle mode culturali?”. Il nostro compito è fare in modo che costruirsi questa consapevolezza sia percepita non come una pratica difficile e mortificante, ma come una cosa interessante, che apre la porta a esperienze seducenti.
Alice Rispoli: Questa è una delle nuove missioni, più importanti delle cineteche, perché al di là di questi luoghi, sarà difficile fare una politica di consapevolezza e tramandare la proiezione in pellicola come esperienza da mantenere viva. Ma se anche le cineteche, dotandosi di strumenti tecnologici avanzati che permettono la digitalizzazione anche ad alti livelli di qualità, poi non proiettano più le pellicole – cosa che già succede – vuol dire che non si fanno carico di questa missione.
Stella Dagna: Sono d’accordo. Dedicarsi alla valorizzazione della propria collezione in 35mm, tra l’altro, può essere un interessante obiettivo strategico per le cineteche medio-piccole che non hanno le risorse per inseguire le trasformazioni delle tecnologie digitali in questa fase di transizione. Noi stiamo cercando di muoverci in tal senso. Bisogna superare l’idea dell’aut-aut analogico/digitale. Al tempo stesso vanno individuate delle priorità, per poter dare risposte coerenti a domande tipo: meglio investire in una cella di climatizzazione per la pellicola o in uno scanner 2K?
Claudio Santancini: Vorrei fare anche un accenno alla situazione del film tra i beni culturali con particolare riguardo al caso italiano, al fatto che la legge italiana ne prevede la tutela ma non specifica meglio chi e come debba occuparsene, limitandosi a sovvenzionare – con cifre risicate – le cineteche e le altre istituzioni che si prendono la briga di restaurare e conservare, senza però chiedere garanzie, standard qualitativi, documentazione, ecc. Chi può essere definito restauratore? Occorre fare parte dell’albo? E chi formerà i restauratori, dal momento che i corsi previsti dalla legge all’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro non sono mai partiti? Chi si occupa di controllare che tutto venga fatto ad opera d’arte? Le sovrintendenze? Il MiBACT?
Alice Rispoli: Il nostro patrimonio artistico è vincolato da leggi che ne tutelano la salvaguardia. Questo non è previsto per il nostro patrimonio cinematografico. Ma è così impossibile ottenere delle norme che regolino le sorti dei nostri film?
Stella Dagna: Beh, non impossibile ma certamente difficile. A parte la difficoltà di mettere in campo strategie di lobbing efficaci, mi sembra che come comunità scientifica oggi siamo ancora impreparati a elaborare suggerimenti concreti e condivisi per proposte legislative di ampio respiro. Dobbiamo prima trovare una terminologia, degli standard e dei principi condivisi. In assenza di una solida base di questo tipo è anche difficile stabilire chi e dove dovrebbe formare i restauratori cinematografici “riconosciuti” senza rischiare di incorrere in scelte troppo discrezionali. Ci sono però alcuni segnali positivi: un gruppo di lavoro intercinetecario, per esempio, sta lavorando all’elaborazione di una proposta di legge per il riconoscimento dello status legale dei “film orfani”, cioè dei film di cui non è possibile rintracciare gli aventi diritto. Sarebbe un passo importante. I tempi però non sembrano brevi. L’idea che il cinema sia un “bene culturale”, non è tuttavia del tutto aliena alla legislazione italiana: prova ne è l’obbligo in voga dal 1949 di deposito legale di una copia di tutti i film prodotti o co-prodotti in Italia presso la Cineteca Nazionale di Roma. Un obbligo non sempre rispettato, ma comunque esistente per legge e che certo andrebbe applicato con più zelo. Darei inoltre molto peso al fatto che praticamente tutte le grosse cineteche italiane attingono in maniera significativa, seppur con gradi diversi, a finanziamenti diretti e indiretti dagli enti pubblici. Certo in questo periodo di crisi abbiamo subito tutti pesanti tagli e ridimensionamenti. Tuttavia credo che in un momento come questo, in cui sono falciati i finanziamenti anche ad altri settori strategici come la scuola, la sanità, lo stato sociale, dobbiamo sentire ancor più fortemente il peso di questa responsabilità nei confronti della comunità. In breve i soldi vanno spesi bene, in progetti solidi e con ritorni a lungo termine. Sul concetto di “bene culturale”, tuttavia, bisognerebbe riflettere più a fondo. Cosa è un “bene culturale”? Secondo alcuni storici dell’arte, il termine indica tutto e niente e utilizzandolo si rinuncia a prendersi la responsabilità di indicare, almeno per sommi capi, dei criteri di selezione delle opere su cui concentrare gli sforzi. È una critica molto interessante. Anche perché una selezione, sia ben chiaro, avviene sempre. Questo è uno dei punti più caldi delle politiche di restauro. I film muoiono ogni giorno. Scegliere di restaurare un dato titolo – e dunque di destinare ad esso le risorse a disposizione – può spesso significare destinarne altri alla scomparsa. È inevitabile che sia così e probabilmente è anche necessario: ogni generazione, consapevolmente o meno, sceglie cosa destinare alle successive.