Il caricatore

A distanza di venti anni Il caricatore di Eugenio Cappuccio, Massimo Gaudioso e Fabio Nunziata conferma sia la propria forza espressiva sia la capacità di dare un senso e un peso al cinema italiano degli anni Novanta, che cercava di uscire dalla crisi (economica ed estetica) tentando vie alternative. Un cinema che nasceva dai cortometraggi e che, grazie a produttori come Gianluca Arcopinto, non seguiva la “via maestra”. Un’utopia destinata a infrangersi contro il muro della realtà.

Il sogno del cinema

La casa di produzione Boccia Film è in grave crisi: ha un solo caricatore di pellicola e Fabio, il titolare, vuole a tutti i costi realizzare un film. Nell’impresa coinvolge gli amici Massimo – patito di realismo – ed Eugenio, che invece adora il cinema americano. Dopo alterne vicende il terzetto finisce in una piccola stazione dei Carabinieri dove, senza volerlo, l’appuntato fornisce loro lo spunto decisivo per il film… [sinossi]
Per vedere Il caricatore sul sito del Postmodernissimo clicca a questo link.
– E quanta pellicola c’avete?
– Un caricatore.
– Un caricatore? E che ce fate co’ ‘n caricatore?
– Oh, se non ce la facciamo lo finiamo di girare in video…
– In video? Ma il video fa schifo! Col video si fanno i porno!
M’avete chiamato pe’ fa’ ‘na cosa in video? Il cinema è un’altra cosa.
Dialogo tra Eugenio Cappuccio e Fabio Nunziata, Il caricatore

Il caricatore, con cui Eugenio Cappuccio, Massimo Gaudioso e Fabio Nunziata esordiscono nel lungometraggio, facendosi notare sulla ribalta nazionale e ricevendo applausi unanimi nel novembre del 1996 all’ultima edizione del Torino Film Festival con la denominazione Festival Cinema Giovani (dove viene però collocato fuori concorso: su questa scelta Massimo Gaudioso ha una sua teoria, che potete leggere nell’intervista fattagli nel maggio del 2015 da Alessandro Aniballi), ha festeggiato nel 2016 venti anni. Eppure la distanza percepita sembra assai maggiore, e non certo per responsabilità del film; durante la visione de Il caricatore si respira una libertà creativa, una logica destrutturata che oggi il cinema italiano sembra aver dimenticato quasi completamente. I condotti d’aria si sono fatti asfittici, il sistema ha omogeneizzato gli istinti anarcoidi per poterli digerire senza eccessiva difficoltà. La mancanza di appigli di parte consistente della produzione degli anni Novanta era troppo scomoda, riottosa. Andava dunque addomesticata, e così è stato.
Non è un caso che Il caricatore prenda l’abbrivio da un cortometraggio con lo stesso titolo, che nel 1995 se ne tornò da Locarno con il premio della critica e del pubblico e le congratulazioni di Marco Müller (all’epoca direttore del festival) e Daniele Segre, che presiedeva la giuria. Nel tentativo di ripartenza della cinematografia nazionale, il cortometraggio svolse un ruolo fondamentale, andato poi purtroppo perduto nel corso degli anni. Dal corto (e dalla televisione) vennero alla luce i vari Rezza/Mastrella, Pappi Corsicato – anche Libera si sviluppa a partire da un lavoro breve –, Ciprì e Maresco, Gianni Zanasi, Francesco Ranieri Martinotti, Fulvio Ottaviano, Eros Puglielli. Il corto Il caricatore ha la durata, com’è ovvio che sia, di un caricatore di pellicola, e apre il lungometraggio; il trio accreditato alla regia non ha scelto, come il già citato Corsicato, di segmentare la storia in più racconti per raggiungere la durata necessaria a un lungo, ma ha preferito dare nuova spinta alla narrazione. Da un’assolvenza dal bianco Il caricatore riparte, lasciando il corto come incipit di qualcosa eternamente in divenire.

“Allora, la storia comincia a via Bartolomeo Centogatti”: Massimo Gaudioso informa con queste parole Cappuccio e Nunziata della storia che sta scrivendo (lui è sceneggiatore, per lo più, Cappuccio regista con la passione per Hollywood, e Nunziata montatore – ha lavorato in effetti all’editing proprio di Libera), e che loro dovranno cercare di mettere in scena in modo quasi improvvisato, con le maestranze che non accettano volentieri di gettarsi nella mischia per un progetto che appare quasi certamente votato al fallimento. “Ed è proprio qui, in questa strada, che abita il nostro protagonista, al numero 1”, continua Gaudioso, “Lui chi è? È un uomo. Solo. Una mattina all’improvviso si sveglia, scende dal letto, va in bagno…”; qui il racconto viene interrotto da Cappuccio, che rimprovera gli amici. “Che gliene frega alla gente, Massimo? La gente al cinema va a vedere Terminator!”.
È semplice leggere ne Il caricatore la voglia del cinema italiano giovane di smarcarsi dai modelli culturali che lo hanno segnato in modo indelebile anche negli anni della crisi (ma il cinema italiano è sempre stato in crisi, così come il Paese, come ricorda con brillantezza un passaggio di La vera vita di Antonio H., esordio alla regia di Enzo Monteleone nel 1994): via Centogatti è a due passi dal Mandrione, location pasoliniana per antonomasia e che all’epoca delle riprese de Il caricatore ancora non aveva subito la progressiva gentrificazione che sta trasformando – sulla qualità di tale sconvolgimento ci sarebbe da riflettere a fondo – l’intera area tra Casilina e Tuscolana [1], e Eugenio, Massimo e Fabio sono in perenne discussione tra un afflato ‘realista’ e una maggiore propensione al racconto popolare, che guardi alle istanze produttive d’oltreoceano. L’unico riferimento diretto, per quanto evidente, resta il Nanni Moretti di Io sono un autarchico: come lui, anche i tre registi vorrebbero trovare le coordinate per un cinema che sia di rottura e continuità allo stesso tempo.

Quel che rende a suo modo unico un film come Il caricatore è la sua essenza in fieri: è come se il film si snodasse di fronte agli occhi degli spettatori in tempo diretto, nel suo farsi. Il primo tentativo di cortometraggio abortito dalla fine della pellicola – unico limite possibile, in un tempo in cui il video era ancora guardato con sospetto da chi “faceva” cinema –, la ricerca dei soldi per lo sviluppo, la vittoria di un festival per quanto piccolo e praticamente sconosciuto, la nuova ricerca, stavolta di un produttore. Da questo punto di vista l’apparizione anche in scena di Gianluca Arcopinto (in una surreale location in mezzo ai monti, all’interno di un camper), rappresenta non solo l’ennesima deflagrazione meta-filmica, ma anche la dichiarazione di intenti di un cinema che sognava di riscrivere la propria storia travalicando le strutture stantie di un sistema atrofizzato. Per quanto la Axelotil di Arcopinto fosse attiva già da alcuni anni [2], Il caricatore rappresentò la svolta decisiva, il punto di non ritorno di una nuova generazione di “cinematografari” che rivendicava una propria esperienza, non succube del peso della storia e non accomunabile (se non in modo laterale) alle derive di una certa produzione anni Ottanta.
La sequenza della partita di calcio con la Arco Team (quella che diventerà Pablo Team di lì a poco) è emblematica e spassosa: Alessandro Piva, che gioca in squadra con Domenico Procacci – da sei mesi, ammette il futuro regista de La capagira –, elenca a Nunziata tutti gli aspiranti cineasti in campo, da Paolo Parisotto a Fabio Segatori, da Nils Hartmann a Carolos Zonars, fino all’ottimo attore (ma scarso portiere) Massimo De Lorenzo. Tutti aggrappati a un sogno, quello di lavorare nel cinema, con le unghie e con i denti.

L’utopia de Il caricatore non è la possibilità di costruire un film quasi dal niente – o meglio, dal tutto del quotidiano – ma di essere in grado di trasformare una prassi nella riflessione continua su se stessi, sulle dinamiche produttive, perfino su una Roma già all’epoca morente, decaduta, e al contempo nostalgica. L’utopia de Il caricatore, che fu la stessa di un’intera generazione, è credere che i condotti ostruiti del sistema potessero essere ripuliti o addirittura ricostruiti da zero. Quella libertà totale, la mancanza di freni inibitori rispetto alla materia, verrà ricondotta nel giro di pochi anni nell’alveo della normalità: gli stessi Cappuccio, Gaudioso e Nunziata, prima di separarsi per seguire ognuno la propria strada, torneranno a raccontare il desiderio di girare un film ne La vita è una sola, prodotto nel 1999 da Vittorio Cecchi Gori e destinato a un’effimera vita in sala, e all’oblio critico. Un progetto che cercava di muoversi liberamente in un contesto, quello del “sistema”, che non glielo avrebbe mai concesso, e con le porte aperte quindi solo sul fallimento.
Quel fallimento, quella catastrofe che è in scena ne Il caricatore, ma non ha sfiorato mai un film che, schiacciato all’epoca dell’uscita tra la coda lunga di Cresceranno i carciofi a Mimongo di Fulvio Ottaviano e l’esordio al botteghino di Tutti giù per terra di Davide Ferrario [3], ha poi ottenuto la giusta rivalutazione critica, assurgendo a oggetto di culto, o poco meno. Un po’ come quel Tanio Boccia, regista di peplum e western oramai dimenticato, che riverbera dal nome della casa di produzione di Nunziata e aleggia come un fantasma sul film.

Note
1. Il Mandrione è passato dall’ospitare la vita di Mamma Roma a fungere da sfondo per le riflessioni del protagonista de La grande bellezza. Là dove un tempo abitava la famiglia Vivaldi di Un borghese piccolo piccolo ora si “conta il tempo con gli aperitivi”, come canterebbe Francesco De Gregori.
2. Tra i titoli prodotti da Arcopinto prima de Il caricatore: Dall’altra parte del mondo di Arnaldo Catinari, Portami via di Gianluca Maria Tavarelli e Nella mischia di Gianni Zanasi.
3. Il film di Ottaviano, che ebbe una certa eco venendo riconosciuto (con un po’ troppo entusiasmo) come la versione italiana di Clerks di Kevin Smith, uscì nelle sale il 21 novembre del 1996, proprio mentre Il caricatore faceva la sua sortita al festival di Torino. Il film di Cappuccio, Gaudioso e Nunziata uscì poi nelle sale il 18 aprile, esattamente una settimana prima di Tutti giù per terra, incassando appena 232.000 £ contro gli oltre 400 milioni del film di Ferrario.
Info
Il caricatore, il trailer.
 
  • il-caricatore-1996-eugenio-cappuccio-massimo-gaudioso-fabio-nunziata-01.jpg

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