Dogman

Dogman potrebbe essere considerato il capitolo finale di un’ideale trilogia composta anche da L’imbalsamatore e Primo amore; un film sul desiderio di un rapporto umano impossibile, sullo squilibrio tra lettura della realtà e realtà stessa, sul conflitto interiore con le proprie pulsioni naturali. In concorso a Cannes e in uscita nelle sale.

Cani sciolti

In una periferia sospesa tra metropoli e natura selvaggia, dove l’unica legge sembra essere quella del più forte, Marcello è un uomo piccolo e mite che divide le sue giornate tra il lavoro nel suo modesto salone di toelettatura per cani, l’amore per la figlia Sofia, e un ambiguo rapporto di sudditanza con Simoncino, un ex pugile che terrorizza l’intero quartiere. Dopo l’ennesima sopraffazione, deciso a riaffermare la propria dignità, Marcello immaginerà una vendetta dall’esito inaspettato… [sinossi]

Ruota attorno alla dimensione del desiderio, Dogman, tema da sempre centrale nelle dinamiche autoriali di Matteo Garrone. Desidera Marcello, il tolettatore di cani, e desidera anche Simoncino, il pugile fallito che infesta il quartiere in cui vive con la sua sola presenza fisica, fatta di scatti d’ira, di tentativi di estorsione, di pestaggi. Desiderano e quindi sono vivi. Vivi in una landa gelida, nella quale sono dispersi anche nel mezzo di una comunità. Non è difficile inserire Dogman come tassello conclusivo di un’ideale trilogia composta anche da L’imbalsamatore e Primo amore: come i due film precedenti, rispettivamente del 2002 e del 2004, anche questo si articola attorno a un’ossessione portata talmente al punto di rottura da diventare in maniera inevitabile, e quasi naturale, criminale. Con L’imbalsamatore per di più Dogman condivide l’origine cronachistica del racconto (il “nano di Termini” nel primo caso, il “delitto del Canaro” nel secondo). Tre film desolati e che raccontano un’umanità periferica, l’emorragia di un tessuto sottoproletario dal corpo insano e malato di un sistema di cui non è neanche possibile vedere la testa. La Castel Volturno in cui è girato il film è un non-luogo totale, e potrebbe appartenere alle periferie di qualsiasi metropoli italiana, anche se il linguaggio usato dalla maggior parte degli abitanti fa immaginare che si tratti di Roma. Qui vive Marcello, gracile ometto che ha avuto problemi con la legge – e non ha difficoltà a racimolare cocaina, per di più – ma si dedica anima e corpo agli unici due affetti della sua vita, la figlioletta Sofia e i cani che cura e prepara per i concorsi di bellezza. “Amore”, questo termine così abusato e così fuori luogo tra quei palazzoni luridi e in cui si abbrutisce anche il senso del bello, Marcello lo utilizza solo quando vede la sua bambina o incontra per strada dei cagnolini che vanno a spasso con i padroni. Sono loro, la progenie e il miglior amico dell’uomo, a mantenerlo umano.

Perché ciò che desidera Marcello è venire considerato parte della comunità pur disagiata in cui vive e lavora. Va a pranzo con gli altri che hanno un esercizio commerciale in zona, gioca con loro a calcetto. Fa il bravo cittadino. Ma c’è Simoncino che si agita nell’ombra. Il suo opposto, fisicamente ed emotivamente. Marcello non desidera lui – come poteva essere per Mahieux ne L’imbalsamatore, per esempio – e non desidera neanche essere come lui. No. Desidera essere considerato suo pari. Per questo chiede il giusto quando gli fa da palo mentre lui e un altro svaligiano una casa in un quartiere bene della città (mettendo nel freezer il cane per non farlo abbaiare; sarà ovviamente Marcello a salvarlo), e per questo la sua ira esploderà nel finale, prima accanendosi contro la motocicletta comprata dal pugile e infine mettendo in atto la vendetta totale.
L’ossessione per Garrone porta una volta di più alla disperazione e alla tortura, di sé e degli altri, ma è anche la dimostrazione di una vita che nel resto del panorama si è completamente prosciugata, come i colori della livida fotografia lavorata da Nicolaj Brüel. Nel metterla in scena sceglie, fin a partire dalla sceneggiatura, una forma piana, un percorso lineare che renda ancor più evidenti i processi mentali del protagonista. Nella dimensione della causa-effetto non si deve però andare a ricercare una semplificazione del discorso: è semmai la glaciale rappresentazione di un mondo talmente asettico – in questo distante dal caos anarcoide della Napoli di Gomorra – da costringere l’azione a muoversi sempre di casella in casella, senza scarti reali laterali. Fino alla decisione di Marcello di mettere la parola definitiva sul suo rapporto con Simoncino, trattandolo come la bestia che in qualche modo non è – perché i cani sono educabili, con loro si può creare un rapporto di interscambio dialettico che nel raffronto tra umani è oramai impossibile pretendere – non esiste una possibile via di fuga. Non la si trova neanche in carcere. Non la si trova neanche nel sogno di andare alle Maldive con la figlia, o nelle immersioni che i due, Marcello e Alida, fanno al largo. C’è un luogo, c’è una vita, c’è la causa e c’è l’effetto. È il destino del sottoproletariato, è il destino di un mondo abbandonato a se stesso.

Là dove in passato Garrone glorificava il cinema attraverso una resa immaginifica del reale, qui opera in modo completamente difforme: Dogman è un film desaturato, rimesso nella sua condizione primaria, dove la sottrazione non è solo quella nei confronti dell’epos virulento, ma anche e soprattutto nei confronti di una società dello spettacolo che pretende il proprio debito di sangue. La liberissima rilettura della storia di Pietro de Negri, detto il Canaro, e del delitto di Giancarlo Ricci, parte da una scelta netta: quel delitto, quell’epicentro criminale all’interno di una storia di desolazione umana, è l’aspetto spettacolare di un processo sistemico che è in realtà ben più violento prima, nella quotidianità vissuta in un microcosmo privo di speranza, o di elevazione dal proprio stato. Si può cercare di rubare un po’ di coca, o di comperarsi una moto, ma le corse le si farà sempre in un perimetro stretto, in quella landa disperata, senza poterne uscire. La scelta dunque di non spostare Dogman sul campo del grand guignol non è dettata da paure o pruriti censori – il film è comunque vietato ai minori di 14 anni – ma serve a ribadire la necessità di smarcarsi dal facile accesso allo spettacolo per provare a scavare in profondità. La negazione della soddisfazione morbosa dello sguardo per retrocedere al livello emotivo e desiderante di Marcello, all’inanità dei suoi sforzi. C’è un atto criminale che è basico, in qualche modo semplice. Ma c’è un archetipo umano, l’ancestrale necessità di essere branco e di fare parte di qualcosa che si considera a torto o a ragione più grande di se stessi, che agisce realmente, e sposta gli equilibri. Marcello agisce per il suo desiderio, ma quando lo mette in atto capisce che è irrealizzabile. Il sole risveglia la contrada inconsapevole del sangue che si è versato nella notte, e Marcello è ancora lì solo come e con un cane, con un cadavere accanto. Qualcuno forse si accorgerà di lui. Ma l’atto di (in)giustizia potrà essere capito davvero?
Il dolorosissimo sorriso di Marcello Fonte – eccellenti sia lui che Edoardo Pesce – è l’immagine più adeguata a comprendere il senso del film, in eterno conflitto irrisolvibile tra desiderio e delusione dell’appagamento, tra lettura della realtà e realtà stessa, tra struttura e pulsione devastatrice.

Info
Il trailer di Dogman.
La scheda di Dogman sul sito del Festival di Cannes.
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