Le invisibili

Le invisibili

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Occhieggiando al cinema sociale britannico, ma cercando nel contempo una sua via al filone, Le invisibili fonde efficacemente commedia e passione civile, intrattenendo con mestiere pur al netto di qualche incertezza.

Passi visibili

Quando l’Envol, centro di accoglienza diurno sito nel nord della Francia, viene chiuso per volere della municipalità, le donne senzatetto che lo usano vedono il concreto rischio di tornare sulla strada. Ma le due intraprendenti assistenti sociali che gestiscono il centro hanno un’idea per tener vivo il loro lavoro, e contemporaneamente sfruttare il potenziale delle donne ospitate… [sinossi]

A conclusione di un’ideale trilogia, iniziata con i suoi precedenti Discount (2014) e Carole Matthieu (2016), Louis-Julien Petit torna con Le invisibili al cinema a sfondo sociale. Lo fa, il regista francese, scegliendo come nel suo esordio la chiave della commedia, moltiplicandone stavolta i punti di vista e raccontando una storia collettiva che vuole farsi riflessione su una precisa fetta del tessuto sociale. Il titolo è già, di per sé, indicativo del contesto in cui ci si muove: il film di Petit è un resoconto, tutto al femminile, di un’umanità normalmente fuori dalle luci dei riflettori, che rientra sotto questi ultimi solo quando un suicidio, una morte per overdose, o un’azione collettiva, la spingono inevitabilmente verso l’attenzione mediatica. Ed è proprio su un’azione collettiva che si concentra il film, reazione alla chiusura del centro di accoglienza diurno per senzatetto da parte delle autorità municipali, concretizzata in un’autorganizzazione delle attività con la diretta partecipazione delle ospiti. Un’esperienza in cui il concetto di solidarietà di classe verrà una volta di più rinverdito e valorizzato.

Sembra di essere, in questo senso, di fronte all’ennesimo epigono del cinema sociale britannico, magari attraversato dallo sguardo sornione e popolare di certe sue espressioni passate e presenti (Full Monty, Pride), seppur depurato dai toni più barricaderi; in realtà, Louis-Julien Petit si sforza di trovare una sua via al genere, ricercando un difficile equilibrio tra la cronaca spiccia e quotidiana della vita del centro di accoglienza, quella in cui la commedia emerge spesso (e a volte amaramente) dall’incrocio delle vicende personali, e un’impostazione scopertamente ironica, capace di sorridere anche delle storie di vita più dure. Lo fa, il regista francese, frammentando fin dall’inizio la narrazione, cercando di tenere in equilibrio i tanti background personali di ospiti e responsabili della struttura, componendo un affresco collettivo che, nelle sue intenzioni, vuole risultare qualcosa di più della mera somma delle vicende narrate. Vicende, queste ultime, in parte ispirate a quelle delle attrici non professioniste che compongono buona parte del cast del film: donne che la strada l’hanno direttamente vissuta, e la cui recitazione priva di filtri si adegua perfettamente al taglio scarno e minimale che il regista ha voluto dare alla storia.

Ci si mette un po’, a entrare in sintonia col mondo di Le invisibili, restando inizialmente un po’ frastornati dalla molteplicità delle storie narrate, dal montaggio serrato, dall’iniziale difficoltà della sceneggiatura nel comporre un racconto che sia coeso e coerente. Quando la storia giunge alla sua svolta principale, tuttavia, coincidente con la chiusura del centro e con l’azione della polizia contro l’accampamento delle ospiti, l’anima più apertamente sociale del film emerge in modo netto; mentre lo spettatore ha potuto (da par suo) familiarizzare in modo più continuativo con i volti e le storie mostrate, con al centro le due volontarie coi volti di Audrey Lamy e Corinne Masiero. La regia di Petit mantiene di suo un taglio minimale e poco appariscente, limitando il commento musicale all’essenziale, e aprendosi solo di rado – e non in modo sgradevole – ad alcune soluzioni visive più accattivanti (la lunga sequenza dell’apertura al pubblico del laboratorio gestito dalle donne). L’humour aleggiante sulla vicenda resta quasi sempre nel segno dell’understatement e improntato al realismo: più “registrato”, verrebbe da dire, che ricercato, fatto emergere in modo naturale dalle tante storie messe in scena dal film. La componente sociale non ha bisogno di urlare le sue tesi, restando ben al di qua del pamphlet di denuncia: come le sue protagoniste in una significativa scena, il regista cammina silenziosamente su un terreno cedevole, ma la pesantezza (in positivo) del suo passo è innegabile.

Ispirato a un libro frutto di ricerca sul campo (Sur la route des invisibles: Femmes dans la rue) scritto dalla documentarista Claire Lajeunie, a sua volta ispiratasi a un suo servizio televisivo, Le invisibili mostra una buona padronanza della materia da parte del regista, unita a un approccio da “socialismo di strada” che certo non disturba. Il film si rivela inevitabilmente più debole quando cerca, un po’ timidamente, di entrare nel privato delle due responsabili del centro, con risultati poco incisivi; ma è un limite in parte fisiologico, visto il particolare taglio che si è voluto dare alla storia. E anche quel po’ di (sano) simbolismo barricadero presente nel finale, sempre nel segno di un sardonico sberleffo più che di uno slogan, viene accolto come una nota nient’affatto stonata.

Info
Il trailer de Le invisibili.
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