Ossessione

Ossessione

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Esordio alla regia per Luchino Visconti, opera spartiacque assurta nel tempo al ruolo di iniziatrice del neorealismo italiano, Ossessione si propone come una sfida politica e culturale, un tentativo di resistenza estetica contro le regole scritte e non scritte del cinema di regime. Complesso, stratificato, al crocevia di una pluralità di suggestioni filtrate da una potente personalità autoriale.

L’amour fou ai tempi delle canottiere

Bassa Ferrarese. In uno spaccio con stazione di servizio abbandonato su una strada provinciale approda il fascinoso Gino, un vagabondo senza lavoro che vive di espedienti. Lo spaccio è di proprietà del Bragana, uomo corpulento e volgare, che è sposato alla bella e inquieta Giovanna. Il Bragana offre un lavoro a Gino, e tra il nuovo arrivato e Giovanna divampa subito una brutale passione. Gino propone alla donna di fuggire con lui, ma Giovanna non trova il coraggio di farlo, incapace di rinunciare al benessere economico garantito dal marito. Gino dunque si allontana da solo, e su un treno fa la conoscenza dello Spagnolo, uno strano tipo anarcoide che gli offre di lavorare con lui nelle feste di piazza. È proprio durante una fiera ad Ancona che per caso Gino incontra di nuovo Giovanna e suo marito. Ancora avvinti dalla passione, i due amanti finiscono per progettare di uccidere lo scomodo marito… [sinossi]

«Questa non è l’Italia». Pare che all’anteprima di Ossessione (Luchino Visconti, 1943) Vittorio Mussolini prendesse in tal modo le distanze dal film. Quella non era l’Italia, non quella che il fascismo si aspettava di veder rappresentata al cinema. Il cinema edulcorato e autocelebrativo che il regime caldeggiava e imponeva non abitava certo dalle parti della Bassa Ferrarese, con i suoi paesaggi spogli e le sue miserie umane. Nato intorno all’esperienza della rivista «Cinema», animata da un gruppo di intellettuali progressisti e diretta dalla figura decisamente interessante dello stesso Vittorio Mussolini, Ossessione si delinea come un tentativo di resistenza estetica, un rinnovamento espressivo che per la sua carica provocatoria assume di per sé i tratti di una sfida culturale e politica. Com’è noto, il film fu girato con molte difficoltà, senza particolari problemi di censura ma poi rifiutato dal nuovo potere fascista di Salò che dopo la presentazione a Milano ne ordinò la distruzione. Visconti conservò una copia del negativo, grazie alla quale il film ha potuto continuare a circolare negli anni successivi.

Visconti si fece anche la vera Resistenza, finì imprigionato, ebbe a che fare con la banda di Pietro Koch e fu liberato pare grazie all’intervento dell’attrice Maria Denis. Nobile e marxista, aristocratico e animato da una spiccata sensibilità sociale, la sua figura è indubbiamente una delle più affascinanti del nostro cinema del secolo scorso, incardinata com’è su una serie appassionante di configurazioni dicotomiche di cui Ossessione si delinea come la primaria manifestazione. La provocazione innescata dal film nei confronti della retorica fascista deriva infatti da un’azione estetica complessa e coordinata, ben lontana da un letterale attacco frontale. Se l’orizzonte sociale inquadrato è assolutamente inedito per le coeve pratiche cinematografiche, d’altra parte non è certo la denuncia diretta e dichiarata di una condizione sociale a motivare l’opera prima di Visconti. Sotto questa luce Ossessione assume semmai un valore a posteriori, attribuito al film da severi sguardi fascisti, e magari anche da un pubblico borghese e benpensante.

Tuttavia, è evidente che Ossessione operi contro l’immagine convenzionale, contro la cristallizzazione espressiva di un cinema fascista che detta modi, tempi e figure del rappresentabile. Si apre l’occhio, lo si sfregia come nell’incipit di Un chien andalou (Luis Bunuel, 1929) – disprezzo per l’occhio borghese e dormiente del pubblico fascista per spalancarlo a nuove visioni. L’osceno viscontiano è qui cercato innanzitutto in un’esasperata e cupa sensualità. Sensualità trasversale, di corpi maschili e femminili, che trabocca da uno dei tanti carrelli, avanti o indietro, di cui Ossessione è punteggiato. È un primo carrello avanti in soggettiva sul volto di Gino, che in un breve frammento traduce il desiderio della malmostosa Giovanna, ad aprire il teatro delle passioni nel film. In questo cenno a uno sguardo volitivo è già contenuta una prima rivoluzione estetica. Da un lato risaltano le canottiere lacere di Massimo Girotti, dall’altro una figura femminile, splendidamente incarnata da Clara Calamai, è tributata di uno spudorato e irrefrenabile desiderio erotico. Del resto, la figura della donna resta centrale, manovratrice di destini intorno a una figura maschile più passiva e resiliente, travolta da una passione cupa e nevrotica.

L’esposizione del corpo di Giovanna non è mai banalmente provocatoria (mai un vero nudo), bensì è condotta da Visconti con la sensuale prorompenza della realtà – la donna che siede sul letto a gambe aperte, la vestaglia scomposta, i capelli spettinati, e la sua prima apparizione in scena è affidata alla sineddoche visiva delle gambe che ciondolano giocherellando con i sandali. Se la rivoluzione estetica di Visconti è dunque «realismo», esso è innanzitutto un innovativo realismo fisico, dove il corpo, rimosso ed edulcorato nel cinema fascista, è tributato di un’assoluta centralità espressiva. Un’inedita franchezza riguarda pure i trascorsi di Giovanna come prostituta o mantenuta, e d’altra parte anche Anita, ultima speranza di riscatto per Gino, fa il mestiere più antico del mondo. C’è spazio pure per qualche timido cenno all’attrazione omosessuale tramite la figura dello Spagnolo, nel quale si sono volute rintracciare allusioni a un suo interesse per Gino, specie in virtù della breve «inquadratura del fiammifero» – il dibattito resta aperto. È dunque il corpo di Gino, un inedito corpo maschile, il principale detonatore di desideri trasversali, irrappresentabili e osceni per la retorica fascista. Una franchezza per l’esposizione fisica, non priva di una certa decadente estetizzazione, che probabilmente deve qualcosa alla collaborazione e amicizia di Visconti con Jean Renoir.

È d’altra parte fonte di provocazione il racconto di una passione eccessiva, che ha assai poco di romantico. Frivolezze e facili romanticismi sono di casa nel cinema d’epoca fascista, ma non era di certo accettabile la rappresentazione di una passione in cui l’eros restasse del tutto prevalente sui sentimenti, e soprattutto senza che ciò fosse oggetto di chiara e totale condanna. Visconti non aderisce mai ai suoi personaggi, non li condanna né li assolve. Li guarda e li racconta, nient’altro, mantenendo un discreto distacco emotivo nei confronti della vicenda narrata. La storia di Gino e Giovanna non è frutto di un sentimento, bensì di una fatale attrazione di corpi, che cercano uno nell’altro una compensazione ai propri fallimenti – in questo, forse, risiede l’unico chiaro riflesso sociale, riletto però in chiave di analisi di una nevrosi, dimensione che del resto rimane dominante come ben sottolineato dalla scelta del titolo. E d’altronde resta assolutamente centrale la brama di denaro, la cupidigia accecante che muove soprattutto Giovanna, affamata di vita (e dalla vita). La cupezza, il nero di una passione patologica, l’omicidio, l’amour fou, l’avidità: la rivoluzione estetica di Visconti passa di qui. Se «questa non è l’Italia», è perché in Ossessione l’Italia diventa luogo di squallori morali e turpitudini, e ai preconcetti e alle sovrastrutture del cinema fascista si sostituisce l’approccio analitico garantito dal dubbio.

È altrettanto significativa l’operazione condotta sull’originario materiale narrativo. Com’è noto Ossessione è ispirato a «Il postino suona sempre due volte» di James M. Cain, benché tale filiazione non sia dichiarata e la produzione non si sia premurata di acquisire i diritti del romanzo – ciò impedirà al film di essere mostrato negli Stati Uniti fino al 1976. Il corpo narrativo resta dunque sostanzialmente noir, ma Visconti conduce su di esso un’evidente e significativa rarefazione. La suspense e l’intrigo sono infatti adagiati nell’ambientazione padana, di cui Ossessione adotta anche i ritmi di vita. È una versione allentata di noir, affidata agli stati d’animo della noia di provincia. Allentata, psicologizzata e nevrotica. Pure le convenzioni letterarie da Fato ineluttabile (il fatale incontro casuale dei tre protagonisti alla fiera di Ancona) sono riassorbite in un quieto andamento distratto, dove tutto è possibile e credibile, versione allentata di un nodo tragico e destinale. Conseguentemente la rivoluzione estetica discende anche dall’allungarsi delle sequenze, da una ricercata poetica dei tempi morti e della contemplazione, che ricorre a lunghi silenzi e dialoghi spesso ritardati nei loro turni di parola.

Il racconto si compiace spesso di dare espressione all’inessenziale, e l’andamento narrativo è episodico, dispersivo, quasi mai serrato intorno alle stringenti necessità di una concitata narrazione da noir americano. La rivoluzione risiede anche nel globale allungamento dei tempi di racconto (la versione da noi visionata raggiunge i 135 minuti) per una vicenda che non ha niente di epico o magniloquente. Spesso il racconto pare perdersi dietro ai propri personaggi, che si concedono svolte impreviste ma colte in un distratto fluire della vita – vedi l’incontro di Gino con Anita, ultima speranza di uscita dalla passione distruttiva per Giovanna. Il genere si sfalda insomma sull’immagine della provincia, componendo con essa un tutt’uno inscindibile. Solo nella desolazione di quei luoghi, e solo in quella determinata antropologia comportamentale, può alimentarsi e svolgersi la passione degradante e omicida di Gino e Giovanna. Se la costruzione del film risponde a qualche suggestione filosofica, essa è probabilmente da rintracciarsi nella poetica di Emile Zola, mutuata per via di Jean Renoir – l’ambiente e la società fanno l’individuo, con precise conseguenze nell’ambito dell’etica. Prima viene lo stomaco, poi viene la morale, come direbbe Bertolt Brecht. A ciò forse è dovuto anche il distacco analitico con il quale Visconti affronta la vicenda dei due amanti, un distacco che cede alle necessità di una riflessione deterministica e razionale.

Vi è infine il trattamento riservato ai luoghi reali. Ossessione è in buona parte girato all’aperto con ampia attenzione ai paesaggi naturali. Contro la prevalente prassi del cinema fascista girato in studio, Visconti lascia emergere la realtà dei luoghi ivi compresi i relativi inestetismi, scegliendo location piuttosto inedite (Ferrara e Ancona). Visconti racconta pure feste di piazza e allusive contestazioni anarchiche tramite la figura dello Spagnolo, ma più in generale pare di intravedere anche tracce di quello che sarà il suo cinema in futuro. Se l’inedito del corpo, di cupe passioni e di nevrosi provinciali costituisce la primaria ragione di una rivoluzione espressiva, d’altra parte pare altrettanto evidente che per brevi tratti emerga anche il Visconti minuzioso ed estetizzante della sua successiva filmografia. Basti pensare agli interni dello spaccio, alla cura dei suoi dettagli scenografici, al trattamento visivo prezioso e plastico riservato alla rappresentazione del corpo maschile, che dà luogo a una sorta di decadente estetizzazione dell’inestetico (succederà lo stesso, ad esempio, in Rocco e i suoi fratelli, 1960).

Visconti dichiara poi il proprio amore per l’opera attribuendo all’aria «Di Provenza il mar, il suol» da «La Traviata» di Giuseppe Verdi il ruolo di leit-motiv musicale intradiegetico. È sulle note di Verdi che infatti si apre il racconto, e sarà poi l’esibizione pubblica del Bragana a fare da tappeto sonoro alla lunga sequenza del ritorno di fiamma tra Gino e Giovanna ad Ancona. Non è nemmeno da trascurare il gusto pittorico di alcune inquadrature che richiamano modelli impressionisti e post-impressionisti francesi, con particolare riguardo per i frammenti audiovisivi che raffigurano masse di persone – pensiamo in particolare alla festa organizzata allo spaccio durante la quale ha luogo la drammatica resa dei conti tra Gino e lo Spagnolo.

Più in generale, Ossessione sembra articolarsi in quattro atti ben distinti (più un epilogo), i quali al proprio interno conservano anche una certa rigorosa unità di tempo, spazio e azione. Si alternano due atti ambientati allo spaccio con due atti collocati altrove, prima ad Ancona e poi a Ferrara. Ciò permette a Visconti di dilatare i tempi del racconto, finendo per riempire un intero atto grosso modo con una sola azione complessiva che ne contiene altre al proprio interno, tutte riconducibili alla principale. La costruzione narrativa sembra dunque seguire un’accurata scansione classico-operistica, in cui di nuovo gli elementi drammaturgici vanno incontro a rarefazione e depotenziamento. Resta pure ravvisabile, probabilmente, la profonda passione di Visconti per la letteratura dostoevskiana, che troverà chiara espressione con Le notti bianche (1957) e poi nella miriade di richiami a «L’idiota» e «I fratelli Karamazov» di cui è composto Rocco e i suoi fratelli, caratterizzato da un dedalo di richiami letterari internazionali. Dopo l’infrazione dell’omicidio, Gino è infatti colto da profonda nevrosi in cui è possibile ravvisare il dibattersi tra etica e senso di colpa di «Delitto e castigo», e più in generale Ossessione si caratterizza per la narrazione di psicologie consumate ed estenuate dal disagio e dalla frustrazione.

La raffinata formazione classica di Visconti viene dunque a incontrarsi con un progetto estetico di interrogazione del linguaggio cinematografico codificato dalle regole di regime. In tal senso Ossessione è un crocevia estetico, dove si intrecciano e giungono a fusione le ispirazioni più diverse tramite la figura di una potente e centrale personalità autoriale, capace di mettere insieme marxismo e Giuseppe Verdi, progressismo e grecità, dionisiaco e apollineo. Nel 1942-43, ancora ben lontani dalla fine della guerra e dalla vera conclusione dell’epoca fascista, Visconti apre dunque la battaglia per un cinema più libero, provocatorio, lontano da regole scritte e non scritte e istanze di regime. La rivoluzione è iniziata. Aggredendo per primo l’occhio.

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