Old Boy

Old Boy

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Titolo centrale della new wave sudcoreana e secondo capitolo della Trilogia della vendetta di Park Chan-wook, Old Boy torna nelle sale italiane in versione restaurata, cavalcando l’onda lunga del successo di Parasite. Al di là della propizia occasione per il pubblico di (ri)scoprire una delle tante gemme del cinema orientale, la seconda, terza o ennesima visione di Old Boy conferma la straordinarietà di un’opera capace di fondere suggestioni post-moderne e capisaldi classici, estetica della crudeltà e riflessioni storiche, politiche e morali.

Fukushū suru wa ware ni ari

1988. Dopo essere stato arrestato per ubriachezza molesta, Oh Dae-su viene rapito. Quando si risveglia, Dae-su si ritrova in una sorta di squallida cella-appartamento, con un letto, un bagno e un vecchio televisore. Intrappolato, sconvolto, scopre da un telegiornale dell’omicidio della moglie: secondo la polizia, proprio lui sarebbe il colpevole. Nel frattempo, passano i giorni, le settimane, i mesi. Anno dopo anno, tra tentati suicidi e improbabili piani per fuggire, Dae-su cova rabbia, vendetta, follia. Poi, un giorno, dopo quindici anni, viene liberato… [sinossi]
Ridi e il mondo riderà con te,
piangi e piangerai da solo.
– Oh Dae-su

Dopo aver assaporato il gusto del successo folgorante con Joint Security Area (2000) e aver masticato amarissimo per le reazioni più che negative riservate a Mr. Vendetta\Sympathy for Mr. Vengeance (2002), successivamente riabilitato e prossimo al capolavoro, Park Chan-wook ha probabilmente giocato l’unica carta possibile con Old Boy, opera talmente stratificata, complessa e spiazzante da essere sostanzialmente inattaccabile. Certo, la si può sottostimare, ma è difficile restare indifferenti di fronte a una tanto calibrata coesistenza tra pulp e tragedia classica, tra le note di Vivaldi e amputazioni di vario tipo. Una coesistenza che è ovviamente fertile, mai sfoggio autocompiaciuto o mera ricerca di forme vacue: infatti, nel suo essere un oggetto cinematografico estremamente curato, minuzioso ed esteticamente affascinante, Old Boy ci traghetta verso inferni individuali e collettivi, attraverso una profonda quanto virtuosistica elaborazione del concetto di dolore, memoria, vendetta.

Come scrive Dario Tomasi, Old Boy è «quasi una metafora della storia sudcoreana del dopoguerra e del suo passaggio dalla dittatura alla democrazia»1. In questo senso, i quindici anni di prigionia di Oh Dae-su, ma anche i tempi lunghissimi della vendetta orchestrata dal luciferino e disperato Lee Woo-jin, ci appaiono come una profonda (auto)analisi di una ferita ancora aperta, difficile da cicatrizzare e poi cancellare. Come i segni sui polsi di Dae-su, la storia della Corea del Sud è un marchio che rimane sulla pelle, sulla pellicola, attraversando generi, autori, decenni. Che sia l’assassinio del presidente Park Chung-hee (The President’s Last Bang, 2005) o la messa in scena del massacro di Gwangju (A Taxi Driver, 2017), la sanguinosa storia sudcoreana è stata filtrata, rielaborata, messa in scena da un’industria cinematografica che non si è mai nascosta e che, in un certo senso, sembra aver appreso e trasposto alcuni punti di forza della New Hollywood, dalla compattezza delle sceneggiature alla cura formale, passando per la non secondaria vitalità del cinema politico e sociale – tra i tanti, si prenda come esempio la solidità lumettiana e jewisoniana di una pellicola come The Attorney (2013).
Nel suo scandagliare la memoria individuale e collettiva, il rimosso irremovibile, come sottolineato in un illuminante split screen che è una delle chiavi di lettura della pellicola, Old Boy abbraccia fatalmente la circolarità narrativa, l’eterno ritorno causato dalla spirale della vendetta e del rimorso. Una circolarità che è strettissima parente della scelta narrativa di Peppermint Candy (1999) di Lee Chang-dong, altro caposaldo del cinema sudcoreano e altro tassello di questa coraggiosa e dolorosa immersione nella storia.

Se mi avessero detto che sarebbe durato quindici anni,
sarebbe stato più facile da sopportare o no?
– Oh Dae-su

Gioco di doppi e di specchi, Old Boy mette di fronte vittime e carnefici, mescolando le carte, sabotando le nostre certezze etiche e narrative. Difficile, ad esempio, dare una definizione univoca di Woo-jin, intrappolato come Dae-su in una prigionia che travalica le pareti. Dall’alto della sua torre d’avorio, spropositatamente ricco e onnisciente, Woo-jin è a sua volta duplice, è il mostro elegante, è anche lui vittima e carnefice. È anche lui rinchiuso in una dannazione circolare.
Allo stesso modo, pur partendo dal basso e da una stanzetta squallida, Dae-su è\diventa il mostro, è carnefice inconsapevole, poi vittima, poi carnefice e via così, senza scampo, senza uscita – allo spettatore resta, in fin dei conti, una domanda e una scelta: è un sorriso o una smorfia l’espressione finale di Dae-su? È ancora e sarà per sempre l’incarnazione de L’uomo dei dolori di James Ensor?

Il gioco di specchi di Park Chan-wook ha una portata più ampia, come i suoi virtuosismi tecnici ed estetici. Su tutti, il long take di due\tre minuti, con movimento di macchina da sinistra a destra, che vede Dae-su, con tanto di coltello piantato nella schiena, alle prese con un nutrito manipolo di malcapitati malviventi. Old Boy è così, mescola passato e presente, prende un po’ da Chačaturjan e un po’ dai videogiochi platform. Mette a frutto il fuori campo (l’ascensore) e il controcampo (il sorriso di Dae-su). Andrebbe già benissimo, ma la Trilogia della vendetta segue un filo rosso, ribalta attori e personaggi, rafforza coerentemente quello che abbiamo visto dal primo al terzo capitolo: il corridoio di sangue e martellate di Old Boy si riflette, rovesciando significato e traiettoria dei personaggi, nel movimento di macchina da destra a sinistra di Lady Vendetta, con la protagonista Geum-ja che corre e sgomina chiunque per arrivare dalla figlia Jenny. Il candore prevale sulla vendetta. Il futuro è donna: Cha Yeong-mi (Mr. Vendetta), Mi-do (Old Boy), Geum-ja e Jenny.

Un granello di sabbia e una roccia
affondano allo stesso modo.
– Oh Dae-su

I grandangoli esasperati e i primi piani che sembrano paesaggi dell’anima. Il flashback articolatissimo dai riflessi koniani, altra prigione dai contorni escheriani più che kafkiani. L’utilizzo della voce narrante. Il dinamismo dei combattimenti, cadenzati da un montaggio perfetto. La tragedia sofoclea e la performance estenuante di Choi Min-sik. Old Boy riesce a strafare, ad accumulare, rielaborare, pescare a piene mani da ogni angolo creativo. Come si dice, forse sottovalutandone la portata, un po’ come il cinema di Tarantino. Al di là dei punti in comune e delle differenze, entrambi non temono il confronto con la Storia. Quella del cinema e della altre arti, quella del proprio Paese.

Note
1 Marco Dalla Gassa, Dario Tomasi, Il cinema dell’Estremo Oriente. Cina, Corea del Sud, Giappone, Hong Kong, Taiwan, dagli anni Ottanta ad oggi, UTET, Torino 2010, pag. 130.
Info
Il trailer italiano di Old Boy.
Il trailer originale di Old Boy.

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