Flee

La vita tortuosa di Amin, profugo scappato dall’Afghanistan, è raccontata in Flee, ora nelle sale italiane. Una scommessa, vinta, per il regista Jonas Poher Rasmussen, quella di raccontare una storia vera, una storia straordinaria, attraverso il cinema d’animazione.

Incontro con un uomo straordinario

Amin ha 36 anni, vive in Danimarca, è un affermato docente universitario e sta per sposarsi con il suo compagno. Ma proprio poco prima delle nozze, il passato torna a fargli visita, facendogli ripercorrere gli anni della sua gioventù, quando dall’Afghanistan arrivò in nord Europa dopo un lungo viaggio, con la speranza di chiedere asilo. [sinossi]

Tratto da una storia vera. Un incipit molto diffuso al cinema che viene messo subito nei titoli di testa per far capire allo spettatore che ciò cui sta per assistere, ancorché ricostruito con attori e tecniche cinematografiche, è successo davvero. Bisogna avvisare il pubblico che non di pura fiction si tratta. Una storia vera, come enunciato dal solito cartello, è anche quella di Flee, film danese di Jonas Poher Rasmussen, ora nelle sale italiane. Importante dichiararlo per il fatto di essere un’opera d’animazione, un linguaggio che è ancora poco assimilato nel grande pubblico nella sua potenzialità di cinema del reale. Ci sono alcuni precedenti, anche usciti in sala da noi, dei quali Flee si pone come l’ideale epigono: Valzer con Bashir, documentario d’animazione sul conflitto libanese, e Persepolis, storia romanzata dell’infanzia dell’autrice nell’Iran post-rivoluzione.

Nel raccontare la storia di Amin, un amico del regista la cui identità reale rimane anonima, e della sua tortuosa infanzia in fuga da Afghanistan e Russia verso Svezia e Danimarca, la scelta dell’animazione è obbligata sopratutto per garantire la riservatezza del protagonista e dei suoi famigliari. Jonas Poher Rasmussen non aveva fatto opere d’animazione prima, ma documentari filmati e radiofonici. E partendo da una necessità è riuscito a concepire un’architettura complessa e ingegnosa di immagini e di stili visivi, combinando diversi approcci alla realtà. C’è l’animazione più realistica, probabilmente a rotoscopio, che vuole essere realtà come enunciato da quel ciak che segna l’inizio delle ‘riprese’ in forma di un’intervista del regista ad Amin in chiave di seduta psicanalitica, in cui il protagonista si lascia andare ai suoi ricordi traumatici. Le sequenze più cupe, gli incubi di Amin, sono fatte invece con uno stile grafico diverso, onirico, con immagini offuscate e indistinte, con le figure umane senza volto. Vanno aggiunte poi anche le immagini di cultura popolare kitsch che abbondano nel film. I tanti quadri sospesi in schermi televisivi, delle popolari soap musicali che si vedevano in casa, o dei poster dei film con Chuck Norris, Bruce Lee e Jean-Claude Van Damme che hanno significato la scoperta della propria omosessualità per il protagonista. Ci sono poi, a completare il pastiche visivo, filmati di repertorio amatoriali dell’Afghanistan degli anni Ottanta, e filmati contemporanei in digitale nei luoghi dove si svolge ora la vita di Amin, New York o Copenaghen o un prato fiorito. Lo stile grafico delle parti d’animazione è abbastanza anonimo, senza una definita impronta artistica riferibile a un autore: realizzato da mestieranti di studi cui Rasmussen si è affidato. Ma in fondo si tratta di una scelta funzionale in cui l’estetica del film deve essere a servizio delle idee del regista.

Si può creare empatia, e non distacco, con una elaborazione così costruita sul reale? È la grande scommessa, riuscita, di Jonas Poher Rasmussen che ci mette di fronte a un’opera davvero sentita e sincera, non un’operazione a tavolino. La storia di Amin è talmente straordinaria da contenere al suo interno tante storie, tanti archetipi. C’è la scoperta della propria identità sessuale, che si sviluppa nelle culture omofobe della sua infanzia, che passa per la non accettazione – quando, alla commissione che valuta il suo status di profugo, chiede medicine per curare la propria omosessualità – per arrivare alla comprensione famigliare. C’è la storia dell’Afghanistan e della sua innocenza perduta, di una terra dove i bambini giocavano con palloncini e aquiloni, secondo un’iconografia tipica, che si stava disgregando nei conflitti tra i regimi filo-sovietici e i mujaheddin. C’è la storia di un altro paese in miseria, la Russia nell’immediato periodo post-sovietico, dove la corruzione è onnipresente e dove si cerca la felicità nelle inaugurazioni tristi dei McDonald’s, con la folla di persone con le bandierine, con il famoso logo della catena di fast food, portate sui colbacchi. C’è una storia di diaspora, di fuga di profughi che con tutti gli elementi tipici: trafficanti di esseri umani, passaporti falsi, barconi precari gremiti di persone che solcano il mare. E infine c’è la storia di un successo dopo una vita travagliata, il raggiungimento di un’elevata posizione intellettuale accademica, e di una serenità di coppia riconosciuta dal matrimonio gay. I titoli di coda, ancora secondo uno stereotipo narrativo delle storie vere al cinema, raccontano gli sviluppi successivi delle storie dei protagonisti. Alla storia di Amin non possiamo che credere, non foss’altro per il fatto che è talmente straordinaria da superare la fantasia.

Flee esce ora nelle sale italiane dopo essere stato presentato al Sundance 2021 e al Biografilm. Ed è candidato agli Oscar in ben tre categorie, come miglior film internazionale, miglior documentario e miglior lungometraggio d’animazione.

Info
Il trailer di Flee.

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