Copenhagen Cowboy

Copenhagen Cowboy

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Copenhagen Cowboy è la seconda “serie” diretta per piattaforme digitali da Nicolas Winding Refn dopo Too Old to Die Young. Viaggio notturno e soprannaturale in una Danimarca abitata da disperati, criminali, e maiali, Copenhagen Cowboy esalta la speculazione del regista sull’immagine come veicolo prediletto, se non addirittura unico, della visione, e costruisce sul corpo della propria protagonista (Angela Bundalovic) un duello infinito tra bene e male. Fuori concorso alla Mostra di Venezia e da dicembre su Netflix.

Grufolando come maiali

Copenhagen Cowboy è una serie noir in sei episodi satura di luce al neon e adrenalina che parla di una giovane ed enigmatica eroina, Miu. Dopo una vita di servitù, alle soglie di un nuovo inizio, si aggira nel tetro paesaggio del mondo criminale di Copenaghen. Alla ricerca di giustizia e vendetta, Miu incontra la sua nemesi, Rakel, e insieme intraprendono un’odissea nel naturale e nel soprannaturale. Alla fine, il passato trasforma e definisce il loro futuro e le due donne scoprono di non essere sole, ma di essere molti. [sinossi]

Tra gli spunti di interesse forniti dalla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia numero settantanove ce n’è uno particolarmente bizzarro, e su cui in pochi sembrano essersi soffermati. Nel ricco fuori concorso della Mostra, dove hanno trovato spazio alcuni dei film migliori tra quelli selezionati (When the Waves Are Gone di Lav Diaz, Pearl di Ti West, Master Gardener di Paul Schrader, Call of God di Kim Ki-duk, The Kiev Trial di Sergej Loznitsa, e Gli ultimi giorni dell’umanità di enrico ghezzi e Alessandro Gagliardo, tanto per fornire degli esempi concreti) si guardavano a distanza i tre principali cineasti danesi viventi: tra i film “non fiction” c’era infatti Music for Black Pigeons di Jørgen Leth – firmato in co-regia con Andreas Koefoed, incentrato sulla figura del musicista Jakob Bro e sul senso intimo del “jazz”; le due “serie” selezionate, e mostrate integralmente al Lido, erano invece The Kingdom Exodus di Lars von Trier e Copenhagen Cowboy di Nicolas Winding Refn. Tre autori senza dubbio unici e differenti tra loro, per motivi tanto anagrafici quanto di formazione, ma che hanno in comune una radice geografico-culturale forte, che fa riferimento proprio alla terra di origine: Danimarca non solo come terra dei Dani, ma anche come crasi tra dhen, vale a dire “basso” o “piatto”, e mark, “confine”. La Danimarca è dunque una terra di frontiera, un oggetto selvaggio ben più di quanto dica la sua vita fieramente socialdemocratica, ed è questa ambiguità e la voglia di raccontarla che unisce i principali nomi del cinema nazionale post-Dreyer (che a sua volta la rappresentò in alcune delle sue opere, a partire da Dies irae). Trasferitosi quando aveva 8 anni con la famiglia a New York e dunque abbeveratosi alla fonte dell’immaginario statunitense, Nicolas Winding Refn è il più disallineato di questa triade, e l’unico ad aver costruito parte consistente del proprio perché autoriale sulla tessitura dell’immagine: se in Leth predomina la dialettica tra documento e astrazione, fin da quel Det perfekte menneske che nel 1967 lo rese famoso a livello internazionale, e Trier trova nella macchina e nelle sue evoluzioni la chiave per sondare le profondità psicologiche dell’umano, Winding Refn ha poco per volta, e progressivamente, iconicizzato il suo approccio alla regia, trasferendo qualsiasi ancorché vago “messaggio” nell’immagine pura, quasi del tutto abbandonando una narrazione sequenziale, e dunque canonica. Un processo creativo da sempre presente sottotraccia nel cinema del cinquantaduenne regista danese, ma che si inspessisce a partire da Valhalla Rising, epica vichinga che tenta lo sposalizio tra il wuxia e una rappresentazione herzogiana della “natura”, lambendo anche una malickiana tensione mistica. Da lì, anno domini 2009, inizia un percorso di radicalizzazione dello sguardo per il regista, a partire da quello strano oggetto di culto che è divenuto Drive, e che altro non è se non il tentativo di astrarre l’immagine del noir da una narrazione pedissequa, e dal tracciato fin troppo prevedibile.

Ne consegue che Winding Refn si pone in una posizione del tutto originale e forse persino irripetibile, troncando nei fatti qualsiasi rapporto con l’industria e le sue funzioni commerciali, eppure allo stesso tempo permanendo all’interno del meccanismo economico (a cui partecipa in prima persona con la sua casa di produzione Space Rocket Nation, fondata insieme alla sodale Lene Børglum, già tra le menti creative alla base di Zentropa): ecco dunque che titoli altrimenti destinati a un pubblico di nicchia quali Only God Forgives e The Neon Demon, in cui il genere viene spogliato di ogni funzione strettamente spettacolare per far sprofondare lo spettatore in un buco nero dell’immaginario, in grado di inghiottire ogni forma risputandola poi in una levigatissima chiave ultra-pop, sono in realtà entrati a far parte del processo cinefilo collettivo. NWR, l’acronimo con il quale ama firmarsi il regista, ha dunque trovato un proprio posizionamento peculiare, uno spazio liminare che gli appartiene, e nel quale può dare libero sfogo alla propria speculazione visionaria. Lo spettatore è oramai abituato, e sa bene cosa aspettarsi. Non c’è stato dunque segno di stupore, e di relativa reazione escapista magari con conseguente transumanza verso l’uscita dalla sala durante la proiezione veneziana delle quasi sei ore di cui si compone Copenhagen Cowboy, seconda “serie” diretta da Refn a tre anni di distanza da Too Old to Die Young, di cui si vide un lacerto al Festival di Cannes – che dalla proiezione di Drive nel 2011 ha “adottato” il regista. Se si utilizza il termine serie tra virgolette non è per snobismo intellettuale, e dunque per ridurre il senso seriale dell’esperienza a favore della nobiltà cinematografica, ma proprio perché più di altri Winding Refn fatica a concepire le sue creature seguendo la grammatica opportuna della tipologia produttiva di riferimento. Non è casuale se sulla Croisette siano stati proiettati due episodi centrali di Too Old to Die Young, senza partire dall’inizio: quell’esperienza visuale non ha né capo né coda, tanto sotto il profilo puramente narrativo quanto e ancor più per quel che concerne sviluppo e dunque assuefazione dello sguardo al mondo che si sta cercando di raccontare. In un certo qual senso Copenhagen Cowboy si muove in direzione ostinata e contraria a questo procedimento: pur accompagnato dalle note stordenti del fedelissimo Cliff Martinez, che compone una colonna sonora esaltante, tra le migliori della sua ultra-trentennale carriera, Winding Refn non cerca qui il flusso magmatico, non cerca di trascinare lo spettatore nell’occhio del ciclone o nel gorgo del maelstrom per poi abbandonarlo a se stesso, ma lo pone semmai di fronte a una sfida ancora più estrema, quella di seguire un personaggio pressoché muto, o comunque assai laconico, nel suo peregrinare nella notte danese che è però anche notte dell’anima, patria del subconscio e dell’incubo.

Nicolas Winding Refn mette dunque lo spettatore sulle piste di Miu, l’immigrata dei Balcani che arriva nella casa di una zingara/megera che gestisce un racket di prostitute dell’est, e che vi arriva come portafortuna: seguendo un rito ancestrale la padrona di casa – che è anche oramai padrona di Miu – le taglia i capelli e ne dona una ciocca a ognuna delle sue amiche. Miu è arrivata per far sì che finalmente la donna, che è nel pieno della mezza età, possa rimanere incinta, suo unico e principale desiderio. A renderla gravida dovrà essere suo marito, un danese che ogni volta che apre bocca grugnisce come un maiale. Ed è proprio su un gruppo di grufolanti porcelli che si apre Copenhagen Cowboy, l’opera che segna il simbolico “ritorno a casa” per il regista dopo anni trascorsi ad ambientare all’estero le sue storie: dopo la Los Angeles (e il Messico) di Too Old to Die Young, The Neon Demon e Drive sempre nella città degli angeli, Solo Dio perdona a Bangkok, Valhalla Rising tra Scozia e “nuovo mondo”, le galere inglesi di Bronson, ecco di nuovo Copenaghen, abbandonata nel 2005 dopo la realizzazione di Pusher 3 – L’angelo della morte. A suggellare questa sorta di rimpatriata ecco apparire sullo schermo anche Zlatko Burić, in un ruolo molto simile a quello che lo rese celebre all’epoca della trilogia Pusher (l’attore era anche nel cast di Bleeder, primo film di Winding Refn a prendere parte alla Mostra di Venezia nel 1999), vale a dire quello di un boss criminale con forti relazioni con il mondo balcanico. Il regista torna in Danimarca e si riappropria della sua idea di quella nazione, preferendo le minoranze etniche – Miu diventa amica e protettrice di una donna cinese che vuole riprendersi la figlia rapitagli da un altro boss della mala – alla popolazione borghese, che è invece vista come animale (il già citato uomo/maiale) o incarnazione stessa del male, in quella famiglia che ha partorito la nemesi di Miu. Da un lato un’immigrata mingherlina, scura di capelli, dall’altra una famiglia nobiliare – che traffica in maiali, ovvio – ariana e basata su principi saldamente fallocratici. Miu arriva dunque a incarnare, e a trasformare in femminile, i tratti distintivi dell’eroismo visto da NWR, in lotta contro un Male che è eterno, vampiresco, impossibile forse da uccidere ma che si può castrare, impedendogli l’erezione, e dunque la dominante maschile.

Screziato qua e là da impressioni cinefile – si avvertono soprattutto dei punti di contatto con il David Lynch di Cuore selvaggio, ad esempio nella figura della megera e in alcuni passaggi catartici come il falò di una casa – Copenhagen Cowboy è un viaggio notturno tra la fiaba, il film d’arti marziali, il noir e il western, dove però a dominare è l’immagine, e la luce: come sempre costruito su colori accesi e assoluti, che rendono epica ogni inquadratura, e allo stesso tempo la straniano dal contesto reale che dovrebbe rappresentare, il racconto enfatizza molti dei temi cari al regista, dalla catarsi al complesso edipico, dalla violenza come atto di sublimazione di una propria debolezza congenita all’assassinio come una bella arte, dove trucidare diventa un’esperienza mistica, un gesto artistico, un cromatismo in più. Sempre più posseduto dal “demone del neon” (diametralmente opposto al “dio neon” che fu ispiratore dell’opera di Tsai Ming-liang, eppure come esso alla ricerca della meditazione) Nicolas Winding Refn traumatizza la narrazione, affidandosi quasi esclusivamente a immagini astratte, incubali, psicotiche, a sovrapposizioni irreali, a dissolvenze che legano passaggi tra loro incongrui. Nessuno probabilmente all’interno di Netflix – è lì che questa bizzarra opera arriverà, il prossimo dicembre – si è mai spinto così in là, ribadendo la propria distanza dalla prassi, dal canone spettatoriale, dall’abitudine. Anche per questo non è così rilevante che dopo sei ore o poco meno si arrivi a una conclusione definitiva, a un punto oltre il quale non si può andare: e non solo per lasciare aperte le porte a un eventuale ritorno sulla scena del crimine (a quello potrebbe servire il divertente cameo “a distanza” di Hideo Kojima, amico carissimo del regista), ma proprio perché in una dimensione ultraterrena, in cui il materiale è solo la scoria più evidente di un processo atemporale di lotta tra il Bene e il Male, non c’è alcun bisogno di una fine. Artista sempre più a suo agio nel galleggiare del caos, forse perché capace finalmente di dominare in tutto e per tutto la psicomagia jodorowskiana, Nicolas Winding Refn firma un quadro astratto, e lo fa sulla piattaforma più celebre e “seguita” dalle masse. Un atto di rivendicazione del ruolo dell’autore che, al di là di quello che possano dire i diretti interessati, trova un punto di concordanza tra Copenhagen Cowboy e The Kingdom Exodus.

Info
Copenhagen Cowboy sul sito della Biennale.

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