Brado

Brado segna il ritorno alla regia per Kim Rossi Stuart a sei anni di distanza da Tommaso e a sedici dall’esordio Anche libero va bene; muovendosi in direzione del western contemporaneo e guardando dalle parti di Robert Redford e Kevin Costner l’attore e cineasta romano costruisce un racconto archetipico un po’ facile ma non privo di fascino, che soprattutto lo smarca completamente dalla produzione mainstream italiana.

Non si uccidono così anche i cavalli?

Un figlio che non voleva più avere niente a che fare con suo padre, è costretto ad aiutarlo a mandare avanti il ranch di famiglia dopo che questi si è fratturato alcune ossa. I due si ritrovano per addestrare un cavallo recalcitrante e portarlo a vincere una competizione di cross-country, ma allo stesso tempo provano a sciogliere quel grumo di rabbia, ostilità, rancore, che ha impedito loro per tanto tempo di essere vicini. È un difficile percorso a ostacoli quello che deve compiere il cavallo, ma anche quello che devono affrontare i due per ricostruire l’amore e la vicinanza che avevano perduto. In questa impresa li aiuterà un’addestratrice di cavalli, di cui il giovane si innamora. [sinossi]

A volte è bello sognare a occhi aperti. Nel pieno degli anni Sessanta l’industria hollywoodiana era in profonda crisi, al punto da mettere a rischio la tenuta degli Studios. La diffusione capillare della televisione come medium di intrattenimento domestico aveva spinto in direzione di una desertificazione delle sale, anche perché il pubblico più giovane non trovava più interesse nella magniloquenza tipica dell’industria dello spettacolo e guardava semmai in direzione del prodotto più laterale, meno istituzionale. Da questa situazione drammatica emerse quel movimento-non-movimento noto come New Hollywood, che permise dapprima una messa in discussione dell’immagine/immaginario dominante e quindi propose una progressiva “sostituzione” per permettere al sistema di sopravvivere (punto di svolta che taluni intravvedono nel successo planetario de Lo squalo di Steven Spielberg). Dopotutto nulla di troppo dissimile, fatte salve le dovute differenze, da quanto era avvenuto in Francia un decennio prima quando il “cinéma de papa” era stato spazzato via dalla Nouvelle Vague, o in Gran Bretagna con l’avvento della British New Wave – la cui branca più nota fu rappresentata dal Free Cinema. Perfino in Italia il Neorealismo si poneva come fase critica e sostitutiva del cinema dei telefoni bianchi, e dunque della produzione fascista. È interessante notare come questi punti di svolta siano legati a una profonda crisi della società, dagli Stati Uniti dilaniati dalla guerra del Vietnam all’Italia uscita semidistrutta e da ricostruire – moralmente, fisicamente, politicamente – dalla Seconda guerra mondiale, fino alla Francia impelagata nella guerra d’Algeria e nel fenomeno della decolonizzazione africana. Anche il cinema italiano di oggi si trova a dover fare i conti con una profonda disaffezione del pubblico nei confronti della sala, in parte congenita e in parte acuita da nuovi sistemi di fruizione casalinghi dell’audiovisivo, come ad esempio le piattaforme. Anche il cinema italiano di oggi vede un distacco sempre maggiore tra il pubblico più giovane e la visione sul grande schermo, forse perché il modello di società che la produzione mainstream continua a propagandare – quello del salotto borghese, con annessi e connessi – non rappresenta più chi non appartiene oggi a quella classe sociale. Così, se il cinema istituzionale italiano continua a dimostrarsi per lo più stolido, e con un una fase di profonda instabilità sociale (tra la guerra in Ucraina, la crisi energetica, il surriscaldamento terrestre, l’impoverimento al momento irreversibile della classe media), l’unica speranza cinematografica è quella di un rinnovamento, di una palingenesi che trovi il modo di trovare una nuova dialettica col pubblico, e forse anche con la critica – che però spesso è molto più borghese e reazionaria dei film stessi, soprattutto quella più pervicacemente progressista.

Sognando a occhi aperti dunque si può sperare che il pubblico italiano ritrovi un contatto con quegli autori e quelle produzioni che rifuggono dalla rappresentazione stantia e preordinata del mondo. Il cinema italiano, al di là della sua florida produzione sotterranea – non è nell’indipendenza tout court che si annida il male per quel che concerne lo scenario nazionale, anche se perfino lì si respira spesso un’aria troppo standardizzata –, deve rintracciare il germe dell’anarchia, della libertà espressiva come atto di rivendicazione dello sguardo, e della sua non accettazione dello standard. Questo desiderio spinge a “difendere” sorvolando su alcune debolezze opere come War – La guerra desiderata di Gianni Zanasi, o Il maledetto di Giulio Base. Rientra in questa schiatta anche Brado, il terzo lungometraggio diretto da Kim Rossi Stuart in sedici anni di carriera. Fin dai tempi di Anche libero va bene, tra i migliori esordi italiani del nuovo millennio, si era compreso come lo sguardo di Rossi Stuart non fosse prono, né si adagiasse lasciandosi trascinare dalla marea montante: una sensazione resa ancora più vivida dallo squilibratissimo, ma ancor più libero, Tommaso, che venne accolto con un po’ di freddezza alla Mostra del Cinema di Venezia (dov’era selezionato fuori concorso) e invece è la testimonianza di un approccio mai canonico, disperato e furibondo, lontano dagli schemi consunti del cinema italiano. Era il 2016, e nei sei anni che intercorrono tra quella proiezione lidense e la distribuzione nelle sale di Brado Rossi Stuart si è tenuto in disparte, “concedendosi” solo per due operazioni cinematografiche (Gli anni più belli di Gabriele Muccino e Cosa sarà di Francesco Bruni) e un’apparizione televisiva nella serie Maltese – Il romanzo del Commissario diretta da Gianluca Maria Tavarelli e trasmessa in prima serata da RaiUno. Ama tenersi in disparte, Kim Rossi Stuart, esattamente come il personaggio che interpreta in Brado, scorbutico allevatore di cavalli nella piana emiliana – almeno quello è l’accento diffuso tra le persone che incontra – che ha mandato alla malora tutto, dalla famiglia alla sua stessa professione, ma continua a incaponirsi sui cavalli più riottosi, quelli meno propensi a farsi domare, quelli che vorrebbero restare liberi.

Parla ancora di un disfacimento familiare, il terzo film di Rossi Stuart, tema già affrontato sia in Anche libero va bene che in Tommaso: la figura della madre, in fin dei conti menefreghista nei confronti dei suoi affetti più cari, torna preponderante, così come quella di un padre volitivo ma prossimo al collasso psicologico, chiuso nelle sue ossessioni, in qualsiasi momento in grado di perdere il lume della ragione e lasciarsi andare a sfoghi anche violenti. Torna d’altro canto anche quel nome, Tommaso: si chiamava così il piccolo protagonista di Anche libero va bene, si chiama così il ventenne protagonista di Brado. In entrambi i casi c’è una sorella maggiore, sensibile e che con facilità si lascia andare alle lacrime, in entrambi i casi i genitori sono interpretati da Kim Rossi Stuart e Barbora Bobulova. È evidente che il regista voglia sviluppare un filo unico, che passa anche per l’onirismo onanista del terzo Tommaso raccontato nel 2016, quello già adulto ma che potrebbe essere stato quel bambino e quel ragazzo. Se esiste però un minimo comun denominatore in grado di legare i tre film da un punto di vista di ricognizione sul declino della famiglia borghese e delle sue abitudini, la libertà espressiva fa sì che al realismo metropolitano dell’esordio faccia seguito lo svolazzo trasognato dell’opera seconda, e ora il “genere” in questa terza avventura. Brado è infatti in tutto e per tutto un western contemporaneo, e il personaggio incarnato da Kim Rossi Stuart potrebbe avere le fattezze di Kevin Costner, o di Robert Redford. Il padre di Tommaso potrebbe essere definito “l’uomo che sbraitava ai cavalli”, consunto cowboy con la schiena a pezzi che non molla di un millimetro, nel ranch che potrebbe anche essere nel Wyoming, se non solo non parlassero tutti italiano. Lo schema narrativo è facile, e si basa sul principio della riscoperta di un legame sentimentale tra padre e figlio, che accompagnerà entrambi a una svolta definitiva nella propria vita. Il regista lo segue alla lettera, quasi che la struttura preordinata di qualcosa che in Italia a nessuno verrebbe comunque in mente di produrre fosse di suo sinonimo di libertà. Brado è il nome del ranch, di questo allevamento di cavalli sperduto nel nulla, ma è anche il viso segnato dal tempo di Renato (questo il nome del personaggio interpretato dal regista, lo stesso che aveva in Anche libero va bene): è lui a vivere allo stato brado. Ma quella condizione di libertà rivendicata in modo quasi brutale è anche del cinema stesso di Kim Rossi Stuart, più interessante degli stessi film che porta in scena – in questo caso chiunque sia avvezzo alla materia sa dove si andrà a parare con grande anticipo. Contrariamente a gran parte della produzione italiana Brado non ricatta il pubblico, ma con schiettezza – la stessa di Renato – gli getta in faccia tutto ciò che è, che vuole, e che desidera. Questo fremito di libertà è l’arma più potente, e Kim Rossi Stuart sa bene come usarla. Sarebbe bello se al di là del valore intrinseco del film l’idea di cinema che sottosta a Brado trovasse sempre più spazio nella produzione mainstream italiana. Ma forse si sta sognando a occhi aperti.

Info
Brado, il trailer.

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