Mon crime – La colpevole sono io

Mon crime – La colpevole sono io

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Mon crime – La colpevole sono io mostra il volto più beffardo di François Ozon, quello che ama giocare con il meccanismo cinematografico, ribaltandone la prassi pur muovendosi in territori prossimi al calligrafismo. Qui il regista francese prende spunto dall’opera teatrale del 1934 di Georges Berr e Louis Verneuil per orchestrare una farsa sul maschile e il femminile, e sul potere.

Il delitto Montferrand

Madeleine Verdier è un’aspirante attrice squattrinata che nella Parigi degli anni Trenta condivide una topaia in affitto con l’amica Pauline Mauléon, avvocato che non ha ancora trovato nessuno da difendere. Madeleine viene accusata dell’omicidio di Montferrand, un produttore teatrale da cui si era recata per un colloquio ma che voleva solo approfittare di lei. Pur essendo innocente Madeleine si rende conto, spalleggiata da Pauline, che dichiararsi colpevole potrebbe portare dei vantaggi… [sinossi]

Il 12 marzo 1934 andò in scena per la prima volta Mon crime !…, la pochade scritta da Louis Verneuil insieme a Georges Berr: il ruolo della protagonista andò alla ventisettenne Edwige Feuillère, in uno dei suoi primi ruoli fuori dalla Comédie-Française, che fece letteralmente impazzire il pubblico che affollava il Théâtre des Variétés, nel cuore di Montmartre. La commedia, sapida e dalle battute al vetriolo, ribaltava la prospettiva tipica del dramma giudiziario, dove solitamente un personaggio innocente viene portato alla sbarra e accusato delle peggiori malefatte. Il pubblico sa della sua non colpevolezza e si crea dunque un’empatia immediata tra scena e platea. Qui l’intera prospettiva viene rovesciata, perché la giovane Madeleine Verdier decide scientemente di accollarsi la responsabilità di un omicidio perché intravvede in tale scelta la possibilità di progredire all’interno di una società che al contrario l’ha sempre lasciata ai margini, senza concederle spazio alcuno. Un racconto spassoso, che gioca in maniera aperta con i codici della rappresentazione e dunque si dimostra nel 1934 molto “avanti”, in grado di spingersi in territori che diverranno abituali solo nel corso dei decenni successivi. Diventa dunque doppiamente interessante l’operazione cinematografica condotta da François Ozon, per quella che è la sua ventiduesima regia in venticinque anni di attività: se da un lato si appropria di un testo quasi novantenne, dimostrandone l’assoluta contemporaneità sia per quel che concerne i “temi” che sotto il profilo del ritmo e della struttura del racconto, dall’altro si approccia a una drammaturgia all’epoca in parte anche innovativa con uno stile dichiaratamente artefatto e calligrafico. Sia chiaro, tanto il formalismo quanto il manierismo sono due aspetti che da sempre è possibile rintracciare nelle sortite registiche di Ozon (si pensi allo sterile adattamento da Reiner Werner Fassbinder di Gocce d’acqua su pietre roventi – il geniale autore tedesco è una delle passioni di Ozon, come testimonia anche Peter von Kant, il lavoro immediatamente precedente a questo –, ma anche a 8 donne e un mistero, Angel – La vita, il romanzo, Potiche – La bella statuina, e Frantz, solo per portare alcuni esempi), ma qui il discorso sulla “forma” acquista un valore peculiare.

Film sul teatro che diventa film sul cinema che rappresenta il teatro, Mon crime è duplicemente “falso”, e Ozon opta per una messa in scena che rimarchi a ogni pie’ sospinto la percezione chiara di assistere a un allestimento, e ancor più a una recita. In una Parigi di un secolo fa evidentemente falsa si agita una storia in cui tutti – o quasi – fingono di essere qualcun altro, di aver compiuto atti che non sapevano neanche fossero accaduti, di essere ciò che non sono. Tutti, in Mon crime, sono su un palco, e per ogni azione (perfino il momento stesso cruciale dell’omicidio di Montferrand, il laido e squallido impresario teatrale che ama approfittare delle aspiranti attrici che riceve o nella villa o nella garçonnière) può esistere un pubblico potenziale, qualcuno che è lì a decidere se la recita è andata a buon fine, se lo spettacolo è riuscito. Così la divertente vicenda della povera Madeleine Verdier, che vorrebbe diventare attrice ma con scarso successo e che condivide una vera e propria stamberga con una altrettanto squattrinata avvocata al punto che sono mesi che non pagano l’affitto, che accetta di buon grado di dichiararsi colpevole di un omicidio che non ha commesso solo perché comprende che l’essere sulla bocca di tutti – pur per qualcosa di spregevole – la renderà immediatamente famosa, si presta a un discorso sul cinema come atto naturale del vivere. Tra siparietti che riportano alla mente quelli di Lubitsch (ma senza “touch”) e del suo diretto discepolo Wilder – ma il testo è rispettato alla lettera, anche se qualche personaggio vede mutare il suo sesso (accadeva, a proposito di Wilder, anche con i vari adattamenti di Prima pagina – si muove una commedia che mette alla berlina il maschile e il suo arroccarsi in difesa rispetto alle doverose pretese del femminile.

Ozon, che quindi mira anche a una lettura dell’oggi – leggere nel comportamento di Montferrand un riferimento a Weinstein è a dir poco inevitabile –, non perde in ogni caso mai di vista la farsa, la necessità della risata, e gestisce una commedia dal ritmo invidiabile, dove non esistono tempi morti né c’è mai la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di superfluo. Un po’ come tutto il cinema di Ozon anche Mon crime dà l’impressione di non poter lasciare troppa traccia di sé negli anni a venire, ma si tratta di un intrattenimento intelligente, raffinato, perfino esemplare. Il merito va anche com’è ovvio a un cast in stato di grazia, a partire dalle splendide Nadia Tereszkiewicz e Rebecca Marder, per arrivare a un sardonico Fabrice Luchini e a Isabelle Huppert cui basta il solo ingresso in scena per mangiarsi letteralmente l’inquadratura.

Info
Mon crime, il trailer.

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