Indiana Jones e il quadrante del destino

Indiana Jones e il quadrante del destino

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A quindici anni di distanza da Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, all’epoca ciecamente bistrattato, torna alla carica – e a Cannes, sempre fuori concorso – il più famoso archeologo della storia del cinema in Indiana Jones e il quadrante del destino. Indy è ancora in gran forma, nonostante l’ultraottantenne Harrison Ford sia ben più anziano del suo personaggio, e James Mangold tratta una materia che è sempre stata lucasian-spielbergiana con notevole rispetto. Si corre a perdifiato, sotto il profilo spaziale e temporale, e si continuano a combattere i nazisti in ogni epoca possibile e immaginabile.

Eureka!

Negli Stati Uniti del 1969 che festeggiano l’allunaggio Indiana Jones va in pensione. Disamorato dalla vita per la perdita dell’unico figlio e la rovina del suo matrimonio con Marion, l’anziano archeologo ignora però che l’avventura stia di nuovo bussando alla sua porta. A dispetto della sua età inforcherà di nuovo il cappello, assicurerà al fianco la fedele frusta e si preparerà all’agone contro un nemico vecchio e sempre vivo: il nazismo. [sinossi]

In principio fu il deaging. Nella prima lunga e avvincente sequenza di Indiana Jones e il quadrante del destino l’archeologo più famoso della storia del cinema è un quarantaseienne che si ritrova nell’Austria del 1945, proprio sul finire della guerra, per rintracciare la “Lancea Longini”, che secondo la tradizione avrebbe trafitto il fianco di Gesù di Nazareth. Ma la cosiddetta Lancia del Destino si rivela un falso, Indiana viene scoperto e si ritrova in una rocambolesca avventura che ha per epicentro un treno in corsa, dove deve anche salvare un suo amico e collega britannico, il dottor Shaw – interpretato da Toby Jones – che aveva il compito un po’ infausto di guardargli le spalle. Non è la prima volta che un’avventura del professor Jones inizia sui binari di una ferrovia, perché accadde già all’epoca di Indiana Jones e l’ultima crociata. Ancora più abituale poi è il fatto che l’incipit sia dislocato altrove – nello spazio o nel tempo – rispetto all’epicentro della vicenda: I predatori dell’arca perduta inizia nella foresta peruviana, Il tempio maledetto in un night club di Shanghai, L’ultima crociata come già scritto su un treno nello Utah, e per di più nel 1912, Il regno del teschio di cristallo in Nevada. Nel tornare indietro nel tempo al 1945, Il quadrante del destino non solo rinverdisce uno dei topos della saga – ma il logo Paramount stavolta non trasfigura nella prima inquadratura del film, ed è un peccato – ma ricolloca Indy in quella che è l’ambientazione storica e sentimentale che i suoi fan riconoscono immediatamente: gli anni a cavallo della Seconda guerra mondiale e un unico vero nemico da combattere, il nazismo. È infatti grazie all’archeologo tedesco Jürgen Voller, così fervido nella sua fede nazionalsocialista da considerare Adolf Hitler il principale responsabile della disfatta che ha impedito al Reich dei 1000 anni di diventare realtà, che Jones e Shaw vengono a conoscenza (e poi in possesso) del ritrovamento della Macchina di Anticitera, o per meglio dire di una metà di essa. Il più antico congegno meccanico dell’umanità, che Cicerone attribuì al genio di Archimede (e che era al centro anche di una storia di Topolino della serie con co-protagonisti gli scienziati Zapotec e Marlin), viene dunque per metà recuperato da Indiana Jones, e messo in sicurezza. O così pare fino al 1969, quando Jones settantenne sta andando in pensione e poco apprezza l’entusiasmo per l’allunaggio, lui che è sempre stato ancorato al passato per comprendere il presente.

Il quadrante del destino segna una cesura fondamentale per la saga, perché per la prima volta la regia non è affidata a Steven Spielberg, bensì a James Mangold. Ed è dunque proprio sull’aspetto della messa in scena che viene naturale soffermarsi: lo stile di Mangold ben si confà ai ritmi (fin troppo) tonitruanti del racconto, e soprattutto mostra un enorme rispetto verso la saga, i suoi contorni, i suoi giochi interni. Così poco disturbano citazioni più o meno palesi, come quella degli insetti giganteschi nella grotta sotto Siracusa che riporta alla mente una delle sequenze più note del Tempio maledetto, o ancora la presenza in scena del giovane marocchino Teddy che ricopre un ruolo analogo a quello di Shorty sempre nel film del 1984. Conscio di un immaginario consolidato Mangold si mette a servizio della storia, e ancor più del suo personaggio, per la prima volta davvero anziano. Il corpo di Indy non è più quello di una volta, e ancor meno il suo spirito minato dalla perdita del figlio morto combattendo in Vietnam e dal successivo disgregamento del matrimonio con l’amata Marion, su cui terminava il precedente film. Ora, alcolizzato e sfatto, il professor Jones non è neanche oggetto degli sguardi lubrichi delle sue studentesse, che al massimo fanno scoppiare disinteressante una chewingum durante la lezione. La disfatta di Jones è il vero punto di partenza de Il quadrante del destino, e segna anche lo scarto più forte rispetto alle precedenti incursioni del personaggio sul grande schermo. Non c’è furore, non c’è più l’ambizione di ritrovare un tesoro perduto, e che potrebbe riscrivere la storia dell’umanità. Non fosse per i guai in cui si viene a trovare, considerato suo malgrado responsabile di un duplice omicidio, Jones se ne resterebbe nel suo squallido appartamentino per il resto dei suoi giorni, piangendo gli affetti persi e non più le reliquie del tempo che fu. È lui stesso d’altro canto una vestigia del passato, incapace di connettersi a una modernità che non gli appartiene, e che non riconosce come giusta. Non a torto, se si considera che gli Stati Uniti vincono la corsa allo spazio, dice il film, solo perché affidano le operazioni tecniche a un ex-nazista che ex non lo è per niente e che al contrario vorrebbe trovare la macchina di Archimede proprio per tornare nel 1939, sbarazzarsi di Hitler e comandare le truppe tedesche alla vittoria.

Chi è avvezzo alle peregrinazioni di Jones e della sua estemporanea ciurma di accoliti – la new entry Helena Shaw interpretata dalla brava Phoebe Waller-Bridge funziona a dovere, qui però si rivede Sallah, a sua volta pesantemente invecchiato e comunque fiero, pur vivendo negli Stati Uniti, del suo essere egiziano – sa già cosa aspettarsi dal film di Mangold, e non resterà deluso. Forse a volte l’azione è fin troppo insistita, ma il divertimento è assicurato, e soprattutto si percepisce la voglia di trovare una collocazione diversa da quella dei blockbuster contemporanei. Parla di mondi passati, Il quadrante del destino, e lo fa seguendo traiettorie immaginifiche d’antan, cesure d’altri tempi, utilizzo della colonna sonora che non ha nulla a che vedere con la contemporaneità. È quasi esso stesso un pezzo d’antiquariato, il quinto film della saga dedicata a Indiana Jones, e ne va fiero: rocambolesco e sempre in grado di giocare sul filo dell’ironia, smitizzante ed epico allo stesso tempo, perfino in grado di spingere in direzione dell’emozione, quell’emozione che si prova quando si sa che non ci saranno probabilmente più occasioni per vedere Harrison Ford cavalcare all’impazzata nelle gallerie della metropolitana, guidare una motocicletta a tutta velocità contro un treno, scendere nelle profondità del mare e della terra, combattere con delle murene, guidare un tuc tuc a velocità folle per le strade di Tangeri. È il corpo comunque in eccezionale forma di Ford il vero Quadrante del destino, quello di un’immagine cinematografica che immortala il tempo prima ancora di fingerlo, e lo trasporta – reliquia immateriale – nell’eternità. Allora viene naturale accogliere l’ultima inquadratura del film con l’esclamazione attribuita da sempre ad Archimede: εὕρηκα!

Info
Il trailer di Indiana Jones e il quadrante del destino.

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