Dario Argento Panico

Dario Argento Panico

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Dopo aver omaggiato Lucio Fulci il cineasta tortonese Simone Scafidi continua il suo scandaglio della produzione gialla, thriller, e orrorifica dell’epoca d’oro con Dario Argento Panico, in un viaggio composito su e attorno al cinema del maestro dell’incubo.

Il cinema con 41 di febbre

Dario Argento ha creato i suoi film più acclamati al riparo dal mondo esterno, all’interno di camere d’albergo. Oggi, in una camera d’albergo nella campagna romana, sta scrivendo la sua ultima opera. Questa volta, però, non è solo. Di comune accordo con il suo agente, decide di tornare in un albergo per concludere la sua nuova sceneggiatura e per essere intervistato, filmato, seguito da una troupe che sta girando un film che parla di lui. All’interno di questa struttura, Argento non si sente inizialmente a suo agio, mentre cerca di trovare la tranquillità sia per terminare la stesura del suo film, sia per confidarsi con chi lo sta intervistando. Ma il demone del cinema, che non lo ha mai abbandonato, lo ha seguito fin lassù e lo spingerà, ancora una volta, a darsi totalmente. [sinossi]

C’è un campo controcampo impossibile, e perciò sublime, sul finire di Dario Argento Panico: il regista di Profondo rosso, intervistato oltre quarant’anni fa, risponde a una domanda sulla predisposizione a terrorizzare gli spettatori asserendo «Io non direi che la mia predisposizione sia terrorizzare. […] Io cerco il panico, che è uno scatto in più, una penetrazione più profonda; se noi vogliamo paragonare il panico al terrore o alla paura, possiamo dire ad esempio che la paura è uno stato febbrile sui 38/39 gradi di febbre, e invece il panico è 41, cioè il delirio». A rispondergli, o forse a contrappuntare con maggior precisione tale affermazione è lo stesso Argento, quello odierno, che ribadisce «Molti anni fa dissi che la paura fosse come avere 38 di temperatura, mentre il panico era sui 41, ma in realtà il panico è qualcosa di piuttosto inspiegabile, che ti prende e ti porta in una dimensione che non sai, che non riesci a dominare». Il cinema come oggetto indomabile, dimensione altra dalla prassi, da indagare per comprendere meglio se stessi, le proprie paure, i propri desideri, la metà oscura che nella vita di tutti i giorni fatica inevitabilmente a emergere. D’altronde Franco Ferrini – fedele co-sceneggiatore del grande cineasta romano in quasi tutti i suoi film a partire da Phenomena – ricorda un incontro a Roma tra Argento e Tim Burton in cui i due praticamente non si parlarono, perché il loro genio vive in una dimensione differente, non quotidiana, e non può esprimersi in forma compiuta a parole. Eppure parla, Dario Argento, ha sempre parlato, ha sempre amato essere un protagonista pur non avendo mai recitato nei suoi film – se si escludono dettagli come le mani guantate o la voice over di lavori come Suspiria, il già citato Phenomena, Opera –, e quindi appare del tutto conseguente che sia lui il centro nevralgico di Dario Argento Panico, il nuovo film di Simone Scafidi già visto lo scorso settembre alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia tra i documentari dedicati al cinema selezionati all’interno di “Venezia Classici”.

Dario Argento Panico arriva a quattro anni di distanza da un precedente lavoro di Scafidi, Fulci For Fake, in cui giocando nel titolo con riflessi wellesiani si scandagliava la carriera di un altro nume tutelare per quel che concerne la produzione “di genere” italiana e la sua capacità di incidere con forza all’interno dell’immaginario internazionale. La differenza tra i due lavori è evidente fin dalla sua genesi: Fulci For Fake era un documentario in absentia, dove Nicola Nocella era impegnato nel fingersi – eccolo Welles che fa capolino – Fulci, morto oramai da oltre venti anni. Al contrario Dario Argento è vivo, ancora attivo con quello che per ora è il suo ultimo film (l’incompreso e ingiustamente bistrattato Occhiali neri) vecchio di neanche due anni. Non si può dunque agire per Scafidi senza porre Argento – elefante al centro della stanza alla stregua di quel che afferma la figlia Asia sull’esistenza stessa di Suspiria, il film che sancì la crisi tra i suoi genitori, Dario e Daria Nicolodi – come fulcro della narrazione. E così il quarantacinquenne cineasta tortonese di nascita e sestese d’adozione parte da una suggestione puramente fittizia che accompagnerà, a mo’ di cornice, la narrazione più strettamente documentale data dalle varie interviste a colleghi e parenti di Argento. Ecco dunque che Dario Argento Panico si apre sul ritiro, in un lussuoso albergo, del “maestro dell’orrore” impegnato a scrivere una nuova sceneggiatura: con lui stavolta c’è però una truppa – ovviamente quella capitanata da Scafidi – che approfitta dell’occasione per ripassare la vita e le opere di Argento. Si parte dunque dalla primissima infanzia, dai ricordi del bombardamento di Roma, dagli scherzi che Dario faceva alla sorella minore Floriana spaventandola nell’enorme appartamento nobiliare in cui vivevano. Si parte dalla madre Elda Luxardo – morta quasi centenaria una decina di anni fa – che prima di abbandonare la carriera per star dietro alla famiglia era una ricercatissima fotografa di dive (è da lì, suggerisce in primis Argento, che il regista ha sviluppato la sua passione per i personaggi femminili, e i loro volti), e dal padre Salvatore, produttore nonché funzionario dell’Unitalia.

Ottant’anni di storia possono essere condensati però in un’ora e mezza o poco più? No, e dunque Scafidi pur continuando a seguire un punto cronologico coerente, inizia ad approfondire i temi che più gli stanno a cuore: la paura, il terrore, il panico, e con essi il delirio, lo stupore, la meraviglia. Tutti i convenuti a intervenire su Argento, escludendo lui stesso, confermano la totale anarchia visionaria retta però da uno sguardo rigoroso, coerente, perfino – e non sembri un paradosso – logico. Gli intervistati sono molti e vari, dai già citati Ferrini e Asia Argento all’altra figlia Fiore, alla prima moglie Marisa Casale, alla sorella Floriana, e poi i fedeli sodali Michele Soavi, Luigi Cozzi, Claudio Simonetti, Lamberto Bava, e in più ancora coloro che hanno conosciuto e lavorato con Argento solo in modo occasionale, come ad esempio Cristina Marsillach che fu protagonista in Opera e che ammette candidamente di non saper rispondere alla domanda “Chi è Dario Argento?”. Questo coacervo di impressioni e ricordi non serve, come di solito accade, a collezionare aneddoti, ma semmai a porre lo spettatore di fronte al re nudo, alla sua umana fragilità compensata – ed è merce rara – da un immaginario ineguagliabile, liberissimo, dove la catarsi della violenza non manca di umorismo, e persino (soprattutto post-Opera) di dolcezza. Un immaginario che è diventato di tutti, come testimoniano proprio i tre pezzi da novanta scelti per la bisogna, vale a dire Guillermo del Toro, Nicolas Winding Refn, e Gaspar Noè: nella loro lettura del cinema di Argento non si comprende poi di più della poetica argentiana, ma si capisce ciò che ognuno di loro ha carpito per trasformarlo in propria materia viva, nel soggetto del proprio sguardo. Winding Refn sottolineerà dunque la propensione estetica a mettere in scena l’orrore come fosse una sfilata di moda (si pensi a The Neon Demon, ma anche volendo al recente Copenhagen Cowboy), del Toro ragionerà sulla rilettura in chiave oscura del concetto di fiaba, a lui così caro, e Noè – che Argento lo ha avuto alle sue dipendenze come attore nel dolorosissimo Vortex – si interrogherà proprio sull’orrore come estensione della propria inquietudine. In questo dettaglio, così ben reso da Scafidi, si può comprendere (così come nella lucidissima disamina di Asia Argento) il potere del cinema di Dario Argento, quel panico che si diffonde come una maledizione salvifica – si perdoni l’ossimoro – durante la visione dei suoi film. Un elemento che è possibile riscontrare perfino per lo stesso Scafidi, se è vero che in determinate inquadrature, come ad esempio l’arrivo del regista al buen retiro assegnatogli per lavorare, si rivedono in filigrana immagini delle precedenti regie di Scafidi (Eva Braun, tanto per fare un titolo), screziate però di riflessi argentiani. Ritratto d’artista e uomo accorato e vividissimo, alla cui scrittura hanno lavorato anche Manlio Gomarasca e Davide Pulici, Dario Argento Panico è un’opera che scarta l’agiografia ma non dimentica mai la potenza, il furore, e la gloria.

Info
Il trailer di Dario Argento Panico.

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