I peccatori di Peyton

I peccatori di Peyton

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Il successo del film di Robson, allora candidato a ben nove premi Oscar, rappresenta l’humus da cui fiorirà qualche anno dopo la madre di tutte le long-running prime time soap opera, ovvero Peyton Place, fattore spesso declinato in senso negativo e che ha via via scalfito il giudizio generale sulla pellicola. Invece, I peccatori di Peyton ci restituisce un quadro complesso e per nulla compiacente del sogno americano, qui perfettamente rappresentato dalla idilliaca quanto immaginaria cittadina del New England. Tra i classici del melodramma riproposti nella rassegna Magnifiche ossessioni – Capolavori del mélo hollywoodiano 1951-1959.

La città aveva mille sguardi, io sognavo montagne verdi

Peyton Place, New England. Stufo delle angherie del patrigno Lucas Cross, alcolizzato e violento, Paul lascia la famiglia e la città. Lucas è il custode della scuola, mentre la moglie Nellie lavora come governante per Constance MacKenzie, un’avvenente vedova che possiede un negozio di abbigliamento. Le figlie di entrambe le famiglie, Allison MacKenzie e Selena Cross, sono migliori amiche e stanno per diplomarsi al liceo. Mentre i MacKenzie vivono una vita agiata, la famiglia Cross vive in povertà… [sinossi]

Sunrise Village, Levittown, Pine Island, Stepford, Pleasantville, Bomont… reali, immaginarie, ipercolorate o oscure, romantiche o persino orrorifiche, le cittadine in bilico tra ideale e utopia\distopia abbondano nel panorama cinematografico e fanno capolino persino sulle cartine geografiche (si vedano, appunto, le varie Levittown costruite dopo la Seconda guerra mondiale). In un certo senso, nel bene e nel male, ritroviamo tutte le istanze di questi ben circoscritti luoghi residenziali nella verde, elegante e apparentemente paciosa Peyton Place, cittadina immaginaria del New England, creata dalla penna della poco fortunata Grace Metalious e poi portata sullo schermo da Mark Robson. Dal romanzo I peccati di Peyton Place (1956) alla trasposizione per il grande schermo I peccatori di Peyton (1957), affidata al talento dello sceneggiatore e giornalista John Michael Hayes (La finestra sul cortile, La congiura degli innocenti, L’uomo che sapeva troppo…), il passo è breve: un solo anno e milioni di copie del romanzo finite nelle case degli yankee. Se la regia di Robson è ammirevole, a Hayes il merito di non aver oscurato la componente sociale e di aver distillato a dovere l’utilizzo della voce narrante, fondamentale nel tracciare i confini emotivi e morali di Peyton Place, nonché commovente cornice narrativa.

Il successo del film di Robson, allora candidato a ben nove premi Oscar, rappresenta l’humus da cui fiorirà qualche anno dopo la madre di tutte le long-running prime time soap opera, ovvero Peyton Place (1964\69), fattore spesso declinato in senso negativo e che ha via via scalfito il giudizio generale sulla pellicola. Per ricalibrare l’analisi e contestualizzarne il valore, gioverebbe invece un rapido confronto col sequel Ritorno a Peyton Place (1961) di José Ferrer, film decisamente in tono minore, anche sul piano produttivo, che disperde le potenzialità del CinemaScope, affondando abbastanza rapidamente nei territori paludosi dell’ipermelodramma. Evidente, ad esempio, la sovrabbondanza di retorica nel confronto collettivo finale – qui una riunione della cittadinanza nell’aula magna del municipio, mentre nel primo film era un’aula di tribunale – e le dinamiche un po’ farraginose tra la bigotta e dispotica Roberta Carter (Mary Astor) e il titubante figlio Ted (Brett Halsey), che purtroppo cannibalizzano buona parte della pellicola. Ma al di là della scrittura meno ispirata di Ronald Alexander, del materiale di partenza meno fertile del secondo romanzo di Grace Metalious e del cast inevitabilmente meno brillante (Eleanor Parker non è Lana Turner, ça va sans dire), la vera differenza è sul piano formale. Coadiuvato dal notevole lavoro del direttore della fotografia William C. Mellor (Lo sperone nudo, Il gigante, Arianna), Robson tratteggia con panoramici quadri fissi, enfatizzati nel loro lirismo dai toni vividi del DeLuxe Color e dalla voce narrante di Diane Varsi (nei panni di Allison Mac Kenzie), i contorni di un luogo ideale, splendido, caricandolo di un afflato nostalgico e già svelandone però le zone d’ombra: in questo senso, è emblematica la macrosequenza dell’arrivo del nuovo preside Michael Rossi (Lee Philips), altra fase della mappatura della cittadina, che prima di varcare la quasi fatata soglia rappresentata dalla scritta Entering Peyton Place passa accanto alla baracca della disastrata famiglia Cross. Proprio i Cross, che entrano a Peyton Place solo per servire i facoltosi abitanti, sono la fastidiosa polvere sotto il tappeto del sogno americano: poveri, poco colti, a volte violenti e problematici, i Cross sembrano poter cercare fortuna solo lontano da Peyton, come il primogenito Paul. Non a caso, il destino delle amiche del cuore Allison MacKenzie e Selena Cross è speculare, una proiezione delle disparità sociali degli Stati Uniti, persino nel verdeggiante New England.

Il dirompente successo del romanzo è soprattutto figlio della sete di scandali, pettegolezzi e vaghe morbosità del grande pubblico, e al contempo lo sguardo su I peccatori di Peyton ha sempre rischiato di essere catalizzato su questi aspetti, quando in realtà le pagine della Metalious e il film di Robson si spingono ben oltre, svelando le disparità e le ingiustizie sociali, i legacci generazionali e il ruolo sacrificato e soffocante delle donne negli anni Quaranta e Cinquanta.
Le immagini quasi pittoriche delle stagioni che si susseguono, le vie della cittadina, la chiesa e il campanile (che sarà l’immagine ricorrente della soap opera), le villette e gli splendidi dintorni di Peyton Place sono un mosaico che ha preso in prestito i suoi tasselli da alcune località del Maine (Camden, Rockland, Belfast), restituendoci tra l’altro un sincero e mai malizioso ritratto delle nuove generazioni, del tempo che passa, della necessità di cambiare e di accettare i cambiamenti. A tratti, quasi un teen movie ante litteram. In quest’ottica, un’altra ispirata soluzione formale: la composizione dell’inquadratura nella sequenza nel retro del negozio di Constance Mac Kenzie, con la disinibita Betty Anderson (Terry Moore) intenta a provarsi un vestito troppo (?) scollato, col movimento di macchina che si focalizza sul terzetto di protagoniste, evidenziando la silenziosa entrata in scena di Constance. Non del tutto a fuoco, a un passo dalla profondità di campo, il volto di Lana Turner riesce a riassumere distanze e ipocrisie generazionali.

Info
Il trailer de I peccatori di Peyton.

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