Rendez-vous avec Pol Pot

Rendez-vous avec Pol Pot

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Con Rendez-vous avec Pol Pot il regista cambogiano Rithy Panh torna a ragionare sulla tragedia della Kampuchea Democratica e lo fa dipanando il proprio stile a trecentosessanta gradi, dalla pura finzione al ricorso ai pupazzi di terracotta fino all’utilizzo di materiale documentario. Un lavoro stratificato, con cui forse Panh mette un punto a quello che è l’evento centrale per la Cambogia del Novecento, e per la vita stessa del cineasta. Nella sezione Première al Festival di Cannes 2024.

L’immagine completa

1978. Da tre anni la Cambogia, rinominatasi Kampuchea Democratica, è sotto il giogo di Pol Pot e dei suoi Khmer rossi. Il paese è economicamente devastato e quasi due milioni di cambogiani sono morti in un genocidio rimasto silenzioso. Tre francesi hanno accettato l’invito del regime e sperano di ottenere un’intervista esclusiva con Pol Pot: un giornalista che conosce il paese, un fotoreporter e un intellettuale simpatizzante dell’ideologia rivoluzionaria. Ma la realtà che percepiscono sotto la propaganda e il trattamento loro riservato cambierà poco a poco le certezze di tutti. [sinossi]

Sono trascorsi trent’anni esatti da quando Rice People (in lingua khmer il titolo è អ្នកស្រែ, cioè a dire ‘nâk Srê) prese parte al concorso del Festival di Cannes, rivelando agli addetti ai lavori il nome di Rithy Panh, nato in Cambogia ma fuggito dal Paese nel 1979, quindicenne, per rifugiarsi dapprima in un campo profughi in Thailandia – nell’estremo lembo sudorientale dell’ex Siam – e quindi in Francia. Trent’anni durante i quali Panh è sovente tornato a ragionare sulla tragedia della cosiddetta Kampuchea Democratica, la nazione dominata da Pol Pot e dai suoi scherani. Il regista, che nei campi di lavoro e rieducazione polpotiani ha perso gran parte dei suoi famigliari, è tornato sul regime della Kampuchea e sulla sua eredità sia nel cinema di “finzione” (Un soir après la guerre, il televisivo Que la barque se brise, que la jonque s’entrouvre, Les Artistes du Théâtre Brûlé, Exil) quanto in quello “documentario” (Cambodge, entre guerre et paix, Bophana: A Cambodian Tragedy, La terre des âmes errantes, S-21: The Khmer Rouge Killing Machine, Duch, le maître des forges de l’enfer, Les Tombeaux sans noms). Se si utilizzano qui le virgolette è perché entrambi i termini appaiono in parte inadatti a cogliere in profondità l’approccio cinematografico di Panh, e dunque la sua riflessione estetica che acquista invece un profondo senso. Lo testimonia al di là di ogni ragionevole dubbio quella che è tutt’ora l’opera più celebre e studiata del regista, L’immagine mancante che partendo da Cannes – dov’era collocato in Un certain regard, sezione che lo vide trionfatore – ha conquistato poco per volta il mondo cinematografico, issandosi addirittura fino alla cinquina dell’Oscar per il miglior documentario, risultato mai raggiunto da un film cambogiano. È trascorso oltre un decennio da quei fasti, e con Rendez-vous avec Pol Pot Panh torna sulla Croisette – nella sezione non competitiva Première – a otto anni di distanza da Exil, che nel 2016 venne invece presentato tra le séances spéciales.

Se con Rendez-vous avec Pol Pot il regista si approssima alla questione storica da una prospettiva interamente sceneggiata – dopotutto i protagonisti sono Irène Jacob, Grégoire Colin, e Ciryl Guei – è evidente come l’interesse di Panh sia quello di inspessire la trama, ramificando l’ordito e tentando forse di mettere un punto alla sua trentennale rimessa in scena dell’orrore cui fu diretto testimone. Si parte dunque da una narrazione abbastanza canonica, persino di prammatica per quel che concerne la rievocazione di fatti realmente accaduti nel piano produttivo internazionale: è il 1978, da tre anni esiste la Kampuchea Democratica e un silenzio ottundente circonda la nazione. Ecco dunque che tre francesi (gli attori succitati) ottiene la rarissima autorizzazione a intervistare il leader maximo Pol Pot: una giornalista dal piglio molto diretto, un fotoreporter, e un intellettuale che si ritiene molto vicino all’ideologia kampucheana. Ovviamente l’impatto diretto con quel mondo in sommovimento avrà un effetto tellurico su tutti e tre, e li costringerà a rivedere almeno in parte le rispettive posizioni di partenza. Come si è già scritto nulla di così originale, almeno per quel che concerne la sinossi. Eppure Panh, che sembra perennemente alla ricerca di un’immagine mancante, articola il discorso in modo mai piatto: certo, segue diligentemente i suoi tre protagonisti all’avventura in un microcosmo sconosciuto, ferale e misterico, ma allo stesso tempo innerva il discorso sia ricorrendo di nuovo ai pupazzetti che interpolando le riprese fatte ex novo per dare corpo al racconto con materiale d’archivio, quasi che fosse impossibile pensare di donare un’immagine a qualcosa di così estremo e insopportabile se non affidandosi al vero, all’antologico, al preesistente.

Dopotutto come si può pensare di fingere l’orrore? Un interrogativo che il cinema ha fatto suo fin dai tempi della Shoah, e che si rinnova di tragedia in tragedia. Come si può pensare di fingere l’immagine atta a mostrare la verità dell’orrore? Quando il fotoreporter ne ha abbastanza di essere portato in giro a immortalare ciò che è consentito – Pol Pot tarda a concedere questa benedetta intervista, e quindi il titolo Rendez-vous avec Pol Pot assume un valore quasi sarcastico, oltre che dal vago sapore beckettiano – e decide di fare di testa sua fotografando le fosse comuni, ciò che vediamo è l’immagine documentale, non quella lavorata ad hoc da Panh. L’onirico è il vero, ciò che evade dal giogo della mera rappresentazione per incarnare l’insondabile angoscia di fronte alla messa in pratica del potere più becero. Dopotutto l’aver costruito tre personaggi idealtipici agevola il compito a Panh, che in qualche misura sembra adattare il proprio punto di vista a quello di tutti e tre i suoi protagonisti. Forse sarebbe stato più coerente con l’idea di impossibilità di rappresentazione della Storia nella sua feralità estrema evitare di concedere davvero spazio in scena a Pol Pot, e concludere dunque Rendez-vous avec Pol Pot senza l’intervista da cui tutto è scaturito. Ma si percepisce anche in questa scelta la volontà di Panh di mettere forse la parola fine alla sua decennale crisi personale con la Storia, e con le cicatrici che gli ha lasciato addosso. E allora viene naturale metter da parte anche questi piccoli dubbi.

Info
Rendez-vous avec Pol Pot sul sito di Cannes.

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