La terra dell’abbastanza

La terra dell’abbastanza

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La terra dell’abbastanza, esordio alla regia dei gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo (trent’anni a luglio), si muove sulla scia del cinema suburbano di Claudio Caligari per raccontare una storia di sogni di ricchezza, criminalità e amicizia sullo sfondo di Ponte di Nona, periferia della Capitale. In Panorama alla Berlinale.

Operai del crimine

Mirko e Manolo sono due giovani amici della periferia di Roma. Bravi ragazzi, fino al momento in cui, guidando a tarda notte, investono un uomo e decidono di scappare. La tragedia si trasforma in un apparente colpo di fortuna: l’uomo che hanno ucciso è un pentito di un clan criminale di zona e facendolo fuori i due ragazzi si sono guadagnati un ruolo, rispetto e il denaro che non hanno mai avuto. un biglietto d’entrata per l’inferno che scambiano per un lasciapassare verso il paradiso… [sinossi]

La terra dell’abbastanza ha i contorni grigi di Ponte di Nona, subito fuori dal Grande Raccordo Anulare, fuori e dentro la capitale d’Italia; in quegli spazi liminari, considerati parte della città solo per mero gusto statistico ma abbandonati a loro stessi, luogo di confine dove vige la legge del più forte, una legge che nessuno mette in dubbio, si sviluppa l’esordio alla regia dei gemelli Damiano e Fabio D’Innocenzo, trent’anni il prossimo luglio. La location scelta non si discosta poi molto dai luoghi in cui sono cresciuti e sono stati svezzati i due fratelli romani: Tor Bella Monaca, forse prima scelta per il duo prima che irrompesse sulla scena nazionale Lo chiamavano Jeeg Robot, che proprio sul lato nord della Casilina dà vita alla propria storia. Ecco dunque la Collatina a farla da padrona ne La terra dell’abbastanza, non-luogo ferale, disperato eppure in qualche modo magico, distante da ipotesi di realtà ma brutale, feroce, crudele nella sua vacuità apparente. Non è un caso che il film prenda l’abbrivio da un incidente stradale: Mirko e Manolo, amici fin dalla più tenera età, quasi fratelli, sono in macchina e scherzano subito prima di investire un uomo che resta inerte a terra. Morto. La scelta è ovvia, e potrebbe dare il via a una lunga e stratificata serie di narrazioni possibili: tornare indietro, chiamare un’ambulanza e affrontare tutto ciò che consegue o darsi alla fuga, forti del fatto di trovarsi in una zona isolata, senza occhi indiscreti a poter raccontare la verità? Un dubbio morale, etico, che è già una scelta di vita. Mirko e Manolo vanno avanti, lasciandosi indietro un cadavere. Si potrebbe ipotizzare l’incipit di un racconto sul senso di colpa, sulla necessità di confrontarsi con la società attraverso i propri comportamenti, e in parte è senza dubbio così. Ma non solo…

I gemelli D’Innocenzo alzano il tiro, e spostano il senso della loro narrazione su un altro aspetto, altrettanto interessante e “consolidato” nel racconto cinematografico italiano. L’uomo investito e ucciso è infatti un collaboratore di giustizia. Un pentito. La sua morte agevola dunque il boss locale (un Luca Zingaretti a suo agio nel ruolo di un uomo che incarna il potere nella sua duplice veste feroce/quotidiana) che per “premiare” i ragazzi li fa lavorare per lui. Due ragazzetti di periferia, sperduti e attaccati alle piccole speranze di un sottoproletariato privo di prospettive reali – un regalino alla propria fidanzata, o poco più per chi ha di fronte a sé uno scenario di disoccupazione e sopravvivenza – si ritrovano fra le mani le armi che utilizza il potere per difendersi dagli attacchi interni ed esterni. Sono meri esecutori, boia di un sistema criminale che è l’unico però a esistere in un substrato urbano disossato, sverginato con troppa crudeltà da una politica assente. La messa in scena del crimine romano permette ai D’Innocenzo di compiere una scelta radicale, netta e a suo modo sorprendente: non la terra di mezzo à la Sollima, quella di ACAB e Suburra, ma la periferia dolente, dimessa e già morta – la morte sociale può essere ben più tragica della dipartita fisica – cantata da Claudio Caligari, poeta visivo dalle liriche secche e crude, ma mai deprivate dell’umanesimo.
Ha questo pregio, La terra dell’abbastanza, quello di sapersi scegliere i maestri e di non abbandonarli mai: si vive dunque un racconto piangente prima che furibondo, e si accoglie la vita come senso di colpa che i due ragazzi hanno deciso di intraprendere. Non si sono armati, lo hanno fatto altri per permettere loro di adempiere a un atto di contrizione per l’omicidio già commesso. La loro, al di là della quotidianità di azioni scriteriate e criminali – tra cui l’omicidio, ancora e ancora – è una metafora di un seppuku eterno, un suicidio rituale per superare un gesto dal quale non potranno mai uscire indenni.

Non è privo di difetti, di ridondanze e di scelte un po’ frettolose La terra dell’abbastanza, a partire da un pre-finale opaco e meno a fuoco del resto del film, ma si tratta di un’opera prima ben più rilevante di quanto possa apparire a prima vista, perché i gemelli D’Innocenzo hanno uno sguardo e un’idea ben chiara, tanto del cinema quanto delle umane vicende, e non si discostano mai dai loro due protagonisti – bravissimi sia Andrea Carpenzano, già visto in Tutto quello che vuoi di Francesco Bruni e Il permesso – 48 ore fuori di Claudio Amendola, che Matteo Olivetti, nato in Inghilterra nel 1990 e qui al suo primo ruolo di rilievo – che seguono evitando il cliché del pedinamento, sempre più invasivo nel cinema italiano degli ultimi anni. Non sono cavie di un esperimento, i loro protagonisti, e non sono neanche insetti da studiare in un’ottica entomologica. Sono esseri umani, imperfetti e forse persino imperfettibili, ma vivi. Amano, odiano, uccidono e tremano. In queste pulsioni naturali vive il centro nevralgico de La terra dell’abbastanza, che rifugge dalla ricerca dell’effetto, preferendovi la naturalezza, come quello di un incontro fugace tra due “orfani di figli” nei recessi di un bar di periferia.

Info
La terra dell’abbastanza sul sito della Berlinale.
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