Doctor Sleep

Doctor Sleep

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Doctor Sleep è il tentativo (un po’ disperato) di riuscire a tenere i piedi in due scarpe ben distinte: da un lato la memoria cinematografica del film di Stanley Kubrick, dall’altro la necessità di non essere “troppo” infedele nei confronti del romanzo di Stephen King. Mike Flanagan si barcamena come può, trovando anche qualche soluzione interessante, ma la sfida da affrontare è troppo ardua senza potersi liberare completamente dei legacci della storia.

Di nuovo all’Overlook

Sono trascorsi molti anni dai fatti tragici dell’Overlook Hotel, che videro il guardiano invernale Jack Torrence aggredire con un’accetta sua moglie Wendy e suo figlio Danny. Ora Danny è un adulto irrisolto, a sua volta (come il babbo) scivolato nell’alcolismo e incapace di gestire in modo compiuto il suo potere mentale, la cosiddetta “luccicanza”. Non è però l’unico ad avere un simile potere, e se c’è chi cerca con dolcezza di entrare in contatto con lui – la giovanissima Abra – c’è anche chi ne fa un uso omicida, come Rose Cilindro e gli appartenenti del Vero Nodo. Un nuovo conflitto è agli inizi. [sinossi]

Al di là che nasca dalla penna di Stephen King un film come Doctor Sleep si articola interamente attorno (e dietro) l’interrogativo cardine della riflessione dell’uomo sulla propria fine: cosa c’è dopo? Una domanda che si muove in direzione del metafisico, ovviamente, ma che in un’opera come quella di Mike Flanagan acquista un tassello in più. Perché nell’incipit ambientato nel 1980 – e immagini relative a quel tempo torneranno, di quando in quando – c’è la prima reale risposta alla curiosità cinefila. Per la prima volta in trentanove anni la fuga di Wendy e Danny sul gatto delle neve nel prefinale di Shining non si interrompe, ma il loro viaggio ha un termine. La Florida, per l’esattezza. Questa è una prima risposta, uno slittamento volontario dell’ordine delle cose. Da quel mondo malsano racchiuso tra le imponenti mura dell’Overlook Hotel si può uscire, non si tratta solo di un circolo vizioso in cui Jack Torrance è il sempiterno guardiano dell’albergo. Nell’incipit di Doctor Sleep, forse anche in maniera involontaria, si rompe già di fatto il patto non scritto che ha legato gli spettatori al film di Stanley Kubrick. Un film che, desunto da una pagina scritta, si prendeva la libertà di essere puro cinema, muovendosi in direzione ostinata – e in gran parte contraria – rispetto alle volontà del romanzo originale.
Sulle infinite diatribe tra King e il lavoro di Kubrick è meglio soprassedere, anche perché la loro notorietà è divenuta quasi leggendaria, eppure è impossibile non approcciarsi a questo nuovo horror che torna a narrare le gesta di Danny Torrance e della sua “luccicanza” provando a ragionare sul concetto di fedeltà, o meglio ancora di adattamento. In molti hanno scritto che pochi registi attualmente in attività possono competere con Flanagan in quanto a stille di “kinghianità”, ed è senza dubbio in gran parte vero. Flanagan dimostra di comprendere il motivo intimo che smuove la volontà di King di narrare storia, quel misto di espiazione/ispirazione che è in fin dei conti alla base di molti dei suoi romanzi (e tra questi c’è proprio Shining); lo comprende ad esempio meglio rispetto ad Andrés Muschietti, che invece nel tradurre in immagini It non ha dimostrato la medesima dimestichezza. Sotto il profilo della mera messa in scena dei turbamenti del protagonista, dell’intimo dolore della perdita, della narrazione di un’infanzia indomita ma mai completamente risoluta Doctor Sleep prova a giocarsi le sue carte migliori, talvolta riuscendo a colpire il centro del bersaglio – la sequenza che ha per protagonista il piccolo e promettente giocatore di baseball ne è un buon esempio, così come l’iniziazione dell’adolescente Andrea Steiner da parte della setta del Vero Nodo.

Certo, Flanagan deve muoversi in territori fantasy ai limiti del pacchiano, nella sua ricerca di fedeltà del testo originale, e questo produce delle scelte rischiosissime, ma si può arrivare in ogni caso ad apprezzare il coraggio di un regista che non ha timore a maneggiare materiale di grana grossa, anche da un punto di vista strettamente immaginifico, pur di raggiungere il proprio obiettivo. Analogamente a quanto fa King, anche Flanagan chiede ai propri spettatori l’atto di fede. Chiede di credere in ciò che sta accadendo sullo schermo, per quanto il fantastico fagociti in quattro e quattr’otto qualsivoglia velleità psicologica: la narrazione corre, nel tempo e nello spazio, e non si può pensare di lavorare di fioretto, ancor più se la produzione è quella di una major che vuole sfruttare, nel modo più completo e totale possibile, tutto l’immaginario di Shining. Difficile dunque aderire realmente a un credo, a meno di essere fan duri e puri – e incrollabili – dei mondi immaginati da Stephen King. Solo in quel caso, immergendosi nella parte degli adepti di un culto, si può pensare di sviare l’attenzione dalle nette incongruenze e dalle sterzate improvvise di una narrazione giocoforza stressata, semplificata ai minimi termini.
Ma mentre si sviluppa sullo schermo la storia del Vero Nodo, riflessione sull’immortalità che avrebbe meritato ben altro trattamento, la concentrazione dello spettatore è tutta centrata su un solo rovello: quando arriverà l’Overlook Hotel? Flanagan è ben consapevole di questo, e sa che è suo dovere operare una scelta ben precisa, rischiosa in ogni caso. Già nelle prime sequenze si è comunque capito in quale direzione si muoverà il film: Shining può essere replicato, è materia utilizzabile a uso e consumo di una nuova storia. Si può maneggiare, si può ricreare, si può riplasmare. Ecco dunque di nuovo i corridoi sui quali sfreccia il triciclo di Danny, ecco la stanza 237 con il suo arredamento, ecco perfino Wendy e Jack. Interpretati da altri attori che si vestono e imitano le mosse di Jack Nicholson e Shelley Duvall. C’è chi urlerà al sacrilegio, beninteso, ma non è tanto questo il punto focale. Una volta rimessi in moto, in gioco, quei personaggi, una volta replicata l’inquadratura in bagno con una terrorizzata Wendy, una volta rivista la cascata di sangue dagli ascensori, cosa rimane? Superato l’effetto della festa in maschera – cosplay lo si chiamerebbe oggi – cos’è che rimane? A cosa serve davvero l’Overlook Hotel che, è il caso di sottolinearlo, non è presente nel romanzo del “Dottor Sonno”?

Nulla. Questo è il problema. Flanagan architetta un duello mortale tra “luccicanti”, costruito scena dopo scena, solo per avere la giustificazione per tornare sul “luogo del delitto”. Per giocare con il cinema dei grandi. Non necessariamente per confrontarvisi, ma più che altro per poter dire di essere stato anche lui lì, su un set diverso ma con lo stessa scenografia. Lui che di case stregate s’era già occupato, tanto in Oculus quanto nell’adattamento televisivo del capolavoro letterario L’incubo di Hill House di Shirley Jackson, non sa mai rinunciare alla tentazione di mostrare il fantasma, di svelare il trucco, di giocare per l’appunto. Qui, quasi a voler redimere la “colpa” di Kubrick, quella di aver utilizzato un testo come canovaccio per poter creare da zero – o quasi – una creatura che fosse totalmente, completamente sua, riscrive il finale del romanzo Doctor Sleep per creare un ponte con il romanzo Shining. Ma non basta di certo questo per sigillare le scatole in cui Danny ha cercato di confinare il Male. Perché il punto in qualche modo è tutto lì: Flanagan si ferma alla basica e ancestrale lotta tra Bene e Male, scegliendo la parte e dimostrando che l’agone può risolversi anche tutto lì. Invece Kubrick approfittava di una storia di fantasmi e sensi di colpa – ma tutte le storie di fantasmi parlano di sensi di colpa – per ragionare sulla natura immortale ed eterna del Male, non circoscrivibile a un alcolizzato che, nel bel mezzo dell’inverno, cerca di far fuori moglie e figlio con un’accetta. Flanagan non è neanche Steven Spielberg, lui sì in grado di entrare di nuovo nell’Overlook Hotel (nel sublime Ready Player One) dimostrando di possedere uno sguardo. Lì il gioco della citazione era il primo grimaldello per il gioco virtuale della vita, alla ricerca della chiave per accedere al quadro successivo. Gioco nel gioco. Flanagan – ma forse lo stesso King – quarant’anni dopo riduce la luccicanza a un mero super potere. In epoca di cinecomic imperante era forse impossibile pretendere qualcosa di diverso.

Info
Il trailer di Doctor Sleep.

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