The Projectionist

The Projectionist

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Con The Projectionist Abel Ferrara firma il ritratto di Nicolas Nicolaou, uno degli ultimi esercenti cinematografici indipendenti di una New York sempre più gentrificata, a uso e consumo della upper class. Ne viene fuori un lavoro accorato sulla resistenza intellettuale, sulla necessità del mescolarsi delle culture e delle etnie, sul passato (glorioso) che cerca di opporsi all’invasione di un moderno (mediocre). Al Torino Film Festival in Festa Mobile.

Welcome to New York

Nicolas Nicolaou, per gli amici Nick, è nato in un piccolo villaggio cipriota ma da bambino si è trasferito a New York insieme ai genitori. Nella Grande Mela, iniziando a lavorare nei cinema cittadini, è diventato un esercente indipendente. Oggi, nonostante i colossi produttivi costruiscano multiplex su multiplex per gestire il potenziale economico dell’industria cinematografica, Nick resiste acquistando sale in dismissione e donando loro nuova vita. [sinossi]

Sono tanti anni oramai che il “The Projectionist” non è più un proiezionista. Nicolas Nicolaou, per tutti Nick da quando si è trasferito nella Grande Mela con i genitori appena bambino (era nato e cresciuto in un microscopico villaggio cipriota non distante da Limassol), è stato svezzato nei cinema newyorchesi svolgendo praticamente ogni tipo di mansione, ma oggi è un esercente. Di più, un esercente indipendente. Ancora di più, un esercente indipendente in una città che ha abbandonato da tempo il concetto di comunità prediligendo quello – economicamente assai più remunerativo – di gentrificazione. Parla di cinema ovviamente The Projectionist, nuovo documentario firmato da un infaticabile Abel Ferrara (al sesto film diretto negli ultimi cinque anni, il secondo nel 2019 con Tommaso, come questo presentato sotto la Mole Antonelliana durante le giornate del trentasettesimo Torino Film Festival), ma a ben vedere non si limita di certo nelle quattro mura di una sala. Ne ama il buio protettivo e assoluto, ma non vi si immerge praticamente mai. Nick, oltre a essere un amico di Ferrara, è uno dei tanti eroi-anti-eroi che popolano il suo cinema, persone che osano andare oltre lo schema predefinito, che non accettano la marea montante ma vi nuotano contro. Non per ideologia – in parte, forse, ma non è quello il punto – ma per indole, per inevitabile postura morale e intellettuale. Era così anche il “suo” Pier Paolo Pasolini, è così Tommaso in quello strano progetto quasi autobiografico, ed è così Nick. Il cipriota che si è rifondato oltreoceano e ora lotta, nel silenzio più assoluto, una battaglia che è allo stesso tempo culturale, economica, politica, civile. Una battaglia per una comunità che vive attorno al cinema senza neanche rendersene particolarmente conto. Perché se Nicolas non continuasse con pervicacia ad acquisire cinema in dismissione per rimetterli a nuovo e combattere i grandi gruppi di esercenti che saturano il mercato, interi quartieri si ritroverebbero senza un luogo d’incontro, un punto di interconnessione tra vite altrimenti distanti, forse impossibile da conciliare.

Ci si può fermare al ritratto umano, durante la visione di The Projectionist: dopotutto Nick si dilunga anche sulla sua infanzia, sul rapporto con sua madre, sull’incontro con quella che sarebbe divenuta sua moglie – anch’essa cipriota. Un aspetto intimo che Ferrara non disistima di certo ma che di fatto rappresenta anche l’aspetto più canonico di questo documentario. L’aspetto biografico, che però conta solo come esperienza personale, e assume solo parzialmente un contorno universale. È però indispensabile, a ben vedere, per allargare la visuale. Nel rapporto tra questo ragazzino cipriota e la città più cosmopolita del mondo c’è l’eruzione visibile dell’uomo che Nick diventerà; è la New York liberissima e slabbrata degli anni Settanta, di cui fu cantore ovviamente Martin Scorsese (ma nel film appare anche un frammento di Driller Killer, auto-rappresentazione che è anche una forma di dichiarazione, d’amore e d’intenti, da parte di Ferrara), e in cui il cinema rappresentava qualcosa di più di una sala buia illuminata dalla luce di un proiettore. Il cinema era l’utopia di una trasformazione perenne, e rifletteva le luci di New York.

Quella città dalla quale Nick non sa staccarsi ma che di fatto non esiste più. La gentrificazione ha progressivamente eroso le giunture sociali, allargando a dismisura la forbice tra benestanti e ceti popolari ed espellendo questi ultimi da parte consistente della metropoli (a partire da Manhattan, ovviamente). È quando allarga lo sguardo, passando dal personale all’universale, o meglio ancora dal personale che influenza e modifica l’universale, che The Projectionist trova la sua dimensione ideale. È solo quando il cinema si divincola dai legacci dell’arte per l’arte per rivendicare il proprio ruolo politico, la propria resistenza contro l’incedere di un tempo ingiusto, che Ferrara esce dal cono d’ombra del biopic – forse neanche così particolarmente interessante, eccezion fatta per quella riflessione sull’emigrazione che sta diventando giocoforza tratto centrale della poetica del regista – e s’illumina.

La lotta quotidiana di Nick per la preservazione delle sale storiche newyorchesi come atto di ribellione contro la destrutturazione di un’intera città è il cuore pulsante del film, e l’aspetto più emozionante ed emotivo del racconto ferrariano. Nel Queens, alla periferia dell’impero cittadino, un immigrato cipriota ha riaperto una sala storica, costruendo un luogo per la cittadinanza – si rivendica in più occasioni che quelli applicati sono i prezzi più bassi per un cinema a New York –, per impedire l’ennesima e forse definitiva diaspora. Un luogo che è tale non per la qualità di ciò che vi viene mostrato (Nick gestisce cinema diversi occupando tutti i gradini della filiera, dai blockbuster alle produzione arthouse, fino alle sale a carattere pornografico: non esiste distinzione, in un egalitarismo quasi commovente) ma per la sua stessa essenza: un’occasione per condividere emozioni e pensieri con sconosciuti, tutti con gli occhi spalancati nel buio pesto.
Ferrara è nel film, come la sua compagna e la bimba che hanno avuto. Non si tratta di mero esibizionismo, ma della auto-proclamazione di un’appartenenza, la rivendicazione di una cittadinanza ideale. Non newyorchese o cipriota, né italiana (Roma è da anni la nuova casa del cineasta), ma cinematografica: una repubblica dei desideri che non pone paletti, non espelle, non crea indesiderati, ma si basa sulla condivisione a un livello quasi basico. C’è un amore plateale per l’atto della visione come elemento sociale in The Projectionist, e questo aspetto lo rende ancora più prezioso. Come quelle sale che diventano ristoranti alla moda o boutique preziose, ma continuano con ostinata caparbietà a proiettare: in dcp, in 35mm, perfino in 16mm. Un atto partigiano, di questi tempi.

Info
The Projectionist sul sito del Torino Film Festival.

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