American Graffiti

American Graffiti

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Lo slogan di lancio di American Graffiti, nel 1973, era “dov’eri nel 1962?”; ma l’effetto nostalgico, che prorompe attraverso le oltre quaranta tracce musicali presenti nella colonna sonora – dal doo-woop al rock’n’roll al surf -, cozza con lo sguardo disilluso con cui George Lucas (qui al secondo film da regista dopo THX 1138) torna alle notti a zonzo in automobile di una generazione già abituata alla routine e pronta a essere massacrata nel sud-est asiatico. Resta il sogno di una ribellione tanto vacua – sono sempre i “senza causa” già narrati da Nick Ray – quanto limitata, chiusa nei pochi secondi nei quali si esaurisce un duello di velocità tra automobili.

My Last Night in Modesto, California

Steve Bolander e Curt Henderson hanno terminato il liceo nella cittadina in California in cui sono nati e cresciuti. Entrambi sono stati accettati in un’università della East Coast, e il giorno dopo prenderanno l’aereo lasciandosi (forse per sempre) alle spalle i riti e le abitudini che li hanno conformati. Curt però è dubbioso, e sta pensando di rinunciare, mentre l’entusiasta Steve rischia di mettere in crisi la sua relazione con la fidanzatina Laurie – sorella di Curt. Quella è la loro ultima notte in città, e come sempre le automobili iniziano a percorrere avanti e indietro le poche strade, tutte rettilinee. Il timido Terry Fields e John Milner, l’eroe locale che non perde mai una corsa in auto, non seguiranno in ogni caso Steve e Curt… [sinossi]

Non esistono testi in italiano su Gabriel Moraga, ed è probabile che si fatichi a trovarne anche in Spagna, o negli Stati Uniti. Ufficiale dell’esercito spagnolo nel Vicereame della Nuova Spagna, fu tra i principali esploratori dell’Alta California. Nel 1806 fu il primo occidentale a mettere piede in quell’area che avrebbe poi preso il nome di Contea di Stanislaus, in omaggio all’alcalde nativo Cucunuchi, conosciuto dagli europei come Estanislao. Il capoluogo di questa contea è oggi Modesto, cittadina fondata nel novembre del 1870: le prime fotografie reperibili del luogo, scattate sul finire del Diciannovesimo Secolo, mostrano l’evidenza di un piccolo centro urbano costruito attorno al viale principale, sui cui all’epoca correvano i carri. Neanche cento anni più tardi, agli albori dei Sixties, rombavano invece le automobili, senza che il ritmo cittadino avvertisse chissà quale differenza. Su quelle stesse strade, il 12 giugno del 1962, un George Lucas appena diciottenne salì a bordo della sua Autobianchi Bianchina con il motore truccato e si imbarcò in una sfida con altre macchine. Sbalzato fuori dalla strada con tutta la vettura venne coinvolto in un incidente spettacolare: la Bianchina si ribaltò tre o quattro volte su se stessa, e Lucas fu fortunato a poterla raccontare, grazie alla rottura della cintura di sicurezza che lo scagliò fuori dall’abitacolo. L’adolescente Lucas sognava di diventare un pilota – non disdegnando di certo le gare illegali, ben più adrenaliniche e affascinanti di quelle ufficiali –, ma quel sinistro gli fece rivedere le priorità: il mito della velocità subito in prima persona non aveva tutti i crismi della sicurezza, ma le medesime evoluzioni, lo stesso odore di gasolina, le sgommate sull’asfalto potevano essere vissute nell’illusione del movimento. Il cinema, ovviamente. La storia del Lucas regista – e poi produttore, e creatore di mondi – inizia grossomodo quel 12 giugno, su una strada anonima di una cittadina anonima in un contea anonima scoperta dall’uomo “bianco” solo centocinquanta anni prima. E qui inizia, a voler essere romantici fino in fondo, anche quell’American Graffiti che su una corsa finita a pochi passi dal disastro (la macchina di Bob Falfa si ribalta con lui e Laurie all’interno, rea di aver sfidato l’invincibile John Milner) quasi termina, o comunque raggiunge l’acme di una narrazione per il resto totalmente anti-spettacolare. Cosa ci potrebbe essere d’altro canto di così entusiasmante in una sera d’estate come tante altre, con tutti gli adolescenti a girare in tondo sulle loro macchine, tra un hamburger al Mel’s Drive-In e una partenza in quarta all’accendersi del verde del semaforo?

L’automobile e la motocicletta, motivi imperanti di American Graffiti, sono i due grandi eroi della rivoluzione cinematografica statunitense, quella che manda all’aria – almeno all’apparenza – la Hollywood degli Studios e rigenera l’immaginario della Mecca del Cinema. La New Hollywood è dominata dal mezzo meccanico, evoluzione diretta delle selle inforcate dai cowboy alla conquista della frontiera: si pensi a Duel o Sugarland Express di Steven Spielberg, a Taxi Driver di Martin Scorsese, e ovviamente a Easy Rider di Dennis Hopper. Sono tutti figli dei biker-movie prodotti e diretti da Roger Corman (I selvaggi), Russ Meyer (Motorpsycho), e di Scorpio Rising di Kenneth Anger. Sono i fratelli dei giovani senza nome che ingaggiano l’infinita ed effimera sfida al centro di Strada a doppia corsia, capolavoro diretto nel 1971 da Monte Hellman. Sono i ragazzi che vivono la contestazione a volte senza neanche saperlo, immersi nel brodo culturale di un decennio in sommovimento, perenne palingenesi. La generazione nata durante la guerra sta vivendo una nuova guerra nel sud-est asiatico, e prova a dire la sua ipotizzando percorsi di libertà che saranno ben presto ridotti al silenzio – e le fucilate finali ipotizzate da Hopper appaiono quasi un manifesto programmatico. George Lucas in quel cosmo in ebollizione cresce, per di più nella California che diventerà la patria ufficiale degli hippie e dei movimenti contro-culturali; il padre vorrebbe che ereditasse l’emporio di famiglia, ma lui si iscrive all’università, per studiare belle arti. E da lì ha inizio tutto. È celebre una dichiarazione che Lucas fece durante un’intervista del 1977 a Robert Benayoun e Michel Ciment: «THX 1138 fu il mio primo lungometraggio e anche il mio primo test di regista. Prima facevo film astratti, d’avanguardia, senza storia, senza niente, che mettevo insieme secondo le tecniche di cinema diretto. In THX 1138 ho cercato di utilizzare quello che allora mi piaceva fare per un risultato tutto diverso, raccontando una storia per il pubblico. THX1138 è quindi la mia testa. American Graffiti, il mio secondo film, è il mio cuore, è una risposta a tutti quelli che dicevano che ero freddo, bizzarro, cerebrale, incapace di fare un film normale; ha per tema cinque anni della mia giovinezza, durante i quali passavo il mio tempo in automobile, sulla strada principale della mia città, a caccia di ragazze. Star Wars è una combinazione dei due. THX 1138 rappresenta quello che pensavo quando ero all’Università della California Meridionale, quando avevo 20-21 anni ed ero preoccupato di quello che accadeva nel mondo, la collera dei giovani contro l’oppressione. American Graffiti sono ancora io, ma qualche anno prima, quando ero al liceo. Star Wars sono sempre io, ma ancora prima, quando avevo 10-11 anni e andavo a scuola. È un film strano, in cui ho fatto tutto quello di cui avevo voglia, popolandolo qua e là di creature che mi affascinavano. Non c’è un vero messaggio, se non su cose molto generali, un messaggio che si ritrova già in THX 1138, contro il fascismo, il totalitarismo, i regimi polizieschi. Mai in effetti i tre film raccontano la stessa storia». La collocazione temporale non del vero American Graffiti, ma del film come memoria psichica e sentimentale di Lucas parla chiaro: è una regressione volontaria all’epoca in cui il regista andava al liceo e, senza particolari interessi se non i motori truccati clandestinamente nei garage, passava i sabato sera a vagare alla ricerca di una ragazza da rimorchiare a bordo. Quando dopo il rumore di fondo di stazioni radiofoniche cambiate in fretta irrompe il fatidico “One, two, three o’clock, four o’clock, rock, Five, six, seven o’clock, eight o’clock, rock, Nine, ten, eleven o’clock, twelve o’clock, rock, We’re gonna rock around the clock tonight” di Rock Around the Clock di Bill Haley & His Comets, sull’inquadratura totale in freeze frame all’imbrunire del Mel’s Drive-In, con Steve Bolander in attesa (di chi, di cosa, del futuro?), quella fotografia è l’istantanea mentale di Lucas su un passato ancora fresco – il film è ambientato dieci anni prima di quando è stato poi realizzato – eppure lontanissimo. Perché nel mezzo è cambiato tutto.

Nell’estate del 1962, quando è ambientato il film, ancora non c’è stata la Crisi Missilistica con Cuba, e il coinvolgimento militare in Vietnam era esiguo (la conferenza di Ginevra che sancì la neutralità del Laos si svolse proprio nel luglio di quell’anno). Da un anno e mezzo John Fitzgerald Kennedy era Presidente degli Stati Uniti, e Dallas era ancora un luogo anonimo per le cronache mondiali. Nell’anno in cui George Lucas si ribaltò in una corsa d’automobile, mettendo fine ai sogni di gloria sportivi, ed entrò nell’età adulta decidendo che si sarebbe occupato “d’arte”, l’estate adolescente aveva solo l’afa accumulata sull’asfalto come nemico. E non è dopotutto l’adolescenza una lunga – e troppo breve – estate calda? American Graffiti è il film che Lucas scelse, insieme al sodale dell’epoca Francis Ford Coppola, per dimostrare al piccolo modo moderno in cui si trovava a vivere che al di là dei film astratti che amava dirigere c’era in lui un’anima profondamente romantica, perfino naïf. Un’anima che parlava di tentativi maldestri di acquistare il whisky in un emporio pur non avendo l’età legale per farlo, o di mitizzare un ragazzo di poco più grande solo perché nessuno in tutta la contea ha avuto la fortuna o magari la bravura di spingere più di lui sul pedale dell’acceleratore. Anche Coppola è l’amico più grande di cinque anni, anche lui da imitare perché già in grado di dirigere film (quando il futuro regista de Il padrino e Apocalypse Now esordisce con la commedia sexy e un po’ satirica Tonight for Sure Lucas ha appena terminato il liceo). Sul set di Sulle ali dell’arcobaleno, sotto l’egida di Coppola,il ventitreene Lucas si era fatto le ossa, annoiandosi sonoramente: eppure il successivo Non torno a casa stasera, in cui ha un ruolo più attivo all’interno della produzione, è in qualche modo legato a doppia mandata ad American Graffiti. La cerca disperata di Natalie Ravenna è quella di una donna che ha di fronte a sé la mediocrità imperante di una vita piccolo borghese nella provincia americana, e tenta la fuga. Chissà, magari anche Natalie qualche anno prima, agli inizi dei Sessanta, bisticciava con il suo fidanzato perché quest’ultimo voleva rendere la relazione “aperta” durante gli anni al college. Oppure vagava anche lei lungo la main street della squallida cittadina sperando che qualcuno notasse la somiglianza con Connie Stevens. Lo slogan che lanciò nelle sale American Graffiti, contribuendo con ogni probabilità al suo successo commerciale (oltre 140 milioni di dollari di incasso a fronte di una spesa stimabile attorno agli 800.000 dollari: neanche Guerre stellari potrà godere di un moltiplicatore simile) recita “dov’eri nel 1962?”. Una domanda semplice, ma che garantisce la possibilità di una risposta priva delle lacerazioni intime e politiche prodotte dal conflitto nel sud-est asiatico. Perché lo spettatore medio che andrà a vedere American Graffiti in quell’estate del 1962 avrà avuto tra i dieci e i venti anni. E lo diceva già Arthur Rimbaud cento anni prima: «On n’est pas sérieux, quand on a dix-sept ans».

Dov’eri nel 1962? Non cosa facevi o cosa desideravi nel 1962. No. Non è il sentimento in discussione, ma al massimo il luogo. Nell’anno in cui Sydney Pollack, ripensando al sogno “comunista” di un’America che ha sempre fatto del comunismo in suo peggior spauracchio – perfino oggi, si pensi al modo in il Partito Democratico si ritrae spaventato al solo ipotizzare il socialismo pur rivisto e corretto dell’ala sandersiana – ricordava al pubblico “the way we were”, Lucas risponde con un ideale “the place we were”. E per coinvolgere gli spettatori parte da se stesso. Dov’era George Lucas nel 1962? A Modesto, nella Contea di Stanislaus. E per la maggior parte del tempo in un’automobile. Nel percorso conoscitivo del cinema come risultato non dello sguardo ma dell’azione Lucas ha più volte ragionato sulle macchine: in 1:42.08 (1966) c’è il collaudo di un motore, mentre Herbie (1966) mostra strade notturne riprese dall’abitacolo di una Volkswagen, e il traffico domina gli scenari di Anyone Lived in a Pretty How Town (1967). Se a questi lavori si aggiunge il ritratto di un dj in The Emperor (1967), che sembra già preconizzare la figura mitica incarnata da Wolfman Jack nel 1973, si può comprendere con facilità come American Graffiti esistesse già in nuce prima della sua realizzazione. Forse perché, come già riportato in precedenza i suoi film – tutti i suoi film – raccontano la stessa storia. Ma più probabilmente perché si può fuggire “dal futuro” e si può combattere il potere fascistoide dell’Impero, ma non c’è modo di evadere da se stessi. All’interno di una filmografia che per amor di metafora o gusto infantile per l’avventura picaresca non si è mai confrontata in maniera aperta e dichiarata con l’oggi, American Graffiti assume i contorni di un ritorno alla realtà. Ma il 1973, con un presidente assassinato, un altro in procinto di diventarlo fatto fuori nel mezzo di un party, un predicatore nero ucciso in un motel e un altro giustiziato con sette colpi di pistola durante un discorso pubblico, lo scandalo Watergate a certificare l’impurità della più alta amministrazione dello Stato e una politica estera sempre più ferale e omicida – il golpe cileno arriverà esattamente un mese dopo l’uscita del film nelle sale – presenta una realtà già narrata. È la realtà di un Paese in disfacimento. Tutti i colleghi e gli amici di Lucas stanno immortalando quella dissoluzione, che è il cuore pulsante della New Hollywood, la rinascenza utopica e quindi a sua volta destinata a un’emarginazione, dell’industria. Lucas volge lo sguardo indietro, e si sofferma sull’ultima notte di ideale purezza dell’America. Una notte vuota, travolta dai colori del neon, dall’incessante susseguirsi di hit radiofoniche, da quel bruciante desiderio di essere che non trova soddisfazione, né la potrà mai trovare in quella Terra (Curt Henderson diventerà sì uno scrittore di successo, ma se ne andrà a vivere in Canada).

Eppure chi legge American Graffiti come un omaggio nostalgico e idealizzato al bel tempo che fu dovrebbe guardare con maggiore attenzione, e soffermarsi tra le righe di silenzio che di quando in quando si fanno strada tra una canzone e l’altra, tra una corsa e l’altra, tra una chiacchiera inutile e l’altra. Perché nella sua epidermica rappresentazione di ciò che una fetta d’America è stata, nella cristallizzazione di un Tempo e di uno Spazio ben definiti(vi) si nasconde in realtà un’amara riflessione sull’inanità della vita. La fuggevolezza che attanagliava il desiderio di libertà del ribelle senza causa per eccellenza, il Jim Stark/James Dean di Gioventù bruciata non ha ospitalità nella generazione dei suoi fratelli minori: Steve, Terry, John, perfino il dubitabondo Curt – che in fin dei conti vorrebbe solo scoprire l’identità della bella bionda che guida una Thunderbird bianca e che, a suo dire, avrebbe pronunciato “I Love You” quando i loro sguardi si sono incrociati a un semaforo –non sono rosi dagli stessi demoni di Stark e della sua ghenga. Certo, non amano la polizia (Milner poi è particolarmente inviso alle forze dell’ordine, che non sono mai riuscite a coglierlo in fragranza di reato durante una dei suoi spericolati duelli automobilistici), ma il massimo atto eversivo che riescono a pensare è quello di manomettere la volante, come fa Curt su istigazione dei Pharaos, un gruppo di bulli che vorrebbe dettar legge sulla popolazione adolescente. Lucas, che è cresciuto cinematograficamente sezionando l’immagine per astrarla dal suo senso apparente ricostruendola altrove (in una galassia lontana lontana, verrebbe da dire), rivive i suoi giorni liceali, e lo fa con un sentimento che non può essere messo in alcun modo in discussione: il suo film è una lunga cavalcata notturna nel sogno di diventare adulti, e anche il più piccolo dettaglio viene rivestito di una cura amorevole, concreta, assolutamente sincera. Eppure Lucas, che ha già lamentato i rischi del pensiero egemone nell’allegoria futurista e tornerà a farlo di lì a pochi anni, sa bene che i cinque anni da trascorrere nel liceo non sono altro che un lento apprendistato, come direbbe Thomas Pynchon. L’apprendistato di un rituale, che sarà poi quello che si rinnoverà durante l’arco dell’intera esistenza. La gioventù che Lucas fa prorompere in scena, e che nessuno a Hollywood ha mai inquadrato in questo modo – non è peregrino affermare che il teen-movie assumerà le forme moderne e contemporanee utilizzando questo film come un testo sacro, a partire dal fondamentale Fast Times at Ridgemont High di Amy Heckerling che nove anni dopo delineerà i passaggi chiave del genere cui tutti, perfino il rivoluzionario John Hughes, si atterranno – è parte integrante del rituale piccolo-borghese, anche se non ne è del tutto consapevole. Grande appassionato di antropologia fin dai tempi dell’ingresso nella pubertà, Lucas coglie l’opportunità di poter raccontare il fenomeno dell’esistenza quotidiana di un’intera generazione, colta nel momento di transizione dall’età scolare a quella adulta. Anche per questo John Milner bacchetta Curt quando viene a sapere che vuole andare a trascorrere parte di quell’ultima serata a Modesto al ballo scolastico. Ora che si è cresciuti si vuole ancora pretendere di poter accettare un luogo così infantile? Letto in quest’ottica, di solito poco presa in considerazione da chi resta folgorato sulla via di Damasco dal potere strettamente cinematografico dell’opera, dalla fusione perfetta tra musica e immagini, dall’incedere a un tempo dolente e avventuroso della vicenda, American Graffiti dimostra di essere un potente documento sul rito dell’adolescenza americana. Il rito del corteggiamento, dell’illusione del movimento (la società è mobile, o per meglio dire auto-mobile), del ballo di fine anno – a sua volta irregimentato in un rituale preciso, come testimoniano le inquadrature schematiche che Lucas gli concede –, del piccolo gesto criminale atto a ribadire la capacità di superare i limiti e la volontà di non farlo, della gara all’alba tra macchine. Tutto è rito in American Graffiti, pur senza un altare e senza nessuno che possa officiare. Per questo è un rito sottaciuto, impalpabile, perfino nascosto.

Lucas firma un “viaggio al termine della notte” che odora delle perdute speranze della nouvelle vague prima ancora che dell’impeto neo-hollywoodiano. Lo fa con amore, ma senza nutrire chissà quale nostalgia. John Milner accompagna Carol, la tredicenne che si è ritrovato malgré lui in macchina e che minaccia di accusarlo di stupro se non la scarrozza per un po’ in giro per la città, a visitare il cimitero delle automobili. Sono tutte lì, impilate le une sulle altre e dimenticate. Hanno trasportato al proprio interno i sogni erotici, i desideri di potenza e di futuro di chissà quante persone, e ora sono solo carcasse di lamiera inutili. “È triste quando un ragazzo muore e non è nemmeno colpa sua”, dice John. Una frase che nel 1973 assume tutt’altro valore, e smuove la mente in direzioni assai diverse da quelle che avrebbe messo in moto solo un decennio prima. “Di sicuro è una brutta cosa, quando uccidono anche qualcun altro”, è il colpo di grazia. Nel 1962 tutto luci al neon, fast food e juke boxe – non all’idrogeno, non da quelle parti: quella beat è un’altra generazione dedita alla velocità, e in cui l’automobile ha giocato un ruolo centrale – i ragazzi muoiono. I ragazzi uccidono. Le macchine si distruggono. E tutto va avanti, senza particolari scossoni. All’interno di una commedia dai ritmi folgoranti e dalla sceneggiatura impeccabile (merito, oltre a Lucas, di Gloria Katz e Willard Huyck, che sotto l’egida del regista – in quel caso in veste di soggettista e produttore – elaboreranno lo script di Indiana Jones e il tempio maledetto di Spielberg) si muove sottotraccia il disinganno, e il pensiero della morte. Racchiuso nell’aristotelica unità di luogo, tempo e azione, il microcosmo per lo più pubescente di American Graffiti partecipa una volta di più alla giostra: il giorno successivo Curt prenderà l’aereo e se ne andrà a est, ma lascerà alle sue spalle un mondo immoto, incapace di uscire dal proprio schema abusato e reiterato fino alle estreme conseguenze. Ci penserà lo Stato, insieme alla Storia, a travolgere i protagonisti: e non sarà uno tsunami piacevole da affrontare. Dopotutto la donna dei sogni, apparizione notturna come i fantasmi di Toby Dammit – altro film sulla velocità del Tempo e nel tempo – è solo una prostituta alla ricerca di clienti. Quattro anni prima di Guerre stellari George Lucas già si diverte a descrivere un mondo alieno. C’è il luogo di ritrovo dove ristorarsi dopo un viaggio interstellare (da Mel’s, ovviamente), e c’è soprattutto il vagare privo di meta delle automobili/astronavi nello spazio di Modesto, nell’agiata California che è da sempre la Terra dei Sogni, grazie al pianeta Hollywood. Ma Modesto è alla periferia dell’impero, e non nasconde certo una cellula ribelle. La galassia è lontana, e c’è ancora il duello all’alba come unico punto fermo di una nazione che oltre al mito della frontiera ha saputo costruire poco. Così Milner affronta lo sfidante Bob Falfa (nome degno della saga stellare – Boba Fett… –, casualmente o forse no interpretato da Harrison Ford) e quest’ultimo finisce ovviamente fuori strada ribaltandosi più e più volte, proprio come Lucas nella realtà. Nel giro di pochi secondi il mito dell’invincibilità di Milner resta intatto, e così si potrà passare un nuovo anno a ricordarne le gesta. Un anno in cui migliaia e migliaia di John, Curt, Steve e Terry – e quest’ultimo per davvero, a quanto appare scritto sullo schermo nel finale a mo’ di lapide – verranno spediti a combattere nella giungla vietnamita. Nessun film ha saputo cogliere in profondità la comicità, la dolcezza e la terribile tragedia del teen-movie, eppure tutti cercano ancora di imitarne la formula, anche a quasi cinquant’anni di distanza. In All Summer Long, unica traccia tra le quarantuno presenti nella ricca e bellissima colonna sonora (dal doo-woop al rock’n’roll al surf) a essere “fuori dal tempo”, visto che uscì nel 1964, i Beach Boys iniziano cantando “Sittin’ in my car outside your house ‘Member when you spilled coke all over you blouse” ma poi concludono, senza che l’incedere del brano si modifichi, con “Won’t be long til summer time is through”. Il tempo per l’estate dell’America è passato davvero molto in fretta.

Info
Il trailer di American Graffiti.

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