Il silenzio grande

Il silenzio grande

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Presentato alle Giornate degli Autori della Mostra di Venezia 2021, Il silenzio grande è la terza regia cinematografica di Alessandro Gassmann, stavolta alle prese con la trasposizione di uno spettacolo teatrale di Maurizio De Giovanni. Opera incerta, confusa, irrisolta, affidata per lo più all’estro di un buon manipolo di attori, con in testa una malinconica Marina Confalone. In sala.

La casa del nostro scontento

Anni Sessanta. Stimato e apprezzato dalla critica e dai buoni salotti della cultura italiana, lo scrittore napoletano Valerio Primic non si è mai voluto piegare ai coevi mutamenti del gusto, rifiutandosi di lavorare per il mondo del cinema e dei caroselli pubblicitari. Sposato con Rose e padre di due figli, Valerio vive in una grande e fastosa magione che la famiglia si trova costretta a dover mettere in vendita per sopraggiunti problemi di liquidità. Il congedo dalla casa è occasione di un lungo confronto tra Valerio e i suoi familiari, più o meno tutti con buoni motivi di risentimento nei suoi confronti. Fedele compagna di viaggio e di confronto è la domestica Bettina, impicciona e saggia, sempre nascosta dietro la porta a origliare… [sinossi]

Le trasposizioni cinematografiche da opere teatrali appartengono a un territorio decisamente spinoso. Perché l’operazione riesca, generalmente è necessaria qualche idea forte di messinscena, grande polso in sede di regia, una sceneggiatura in grado di dare aria alle pareti fittizie del palcoscenico senza piegarsi pedissequamente al testo di partenza. Non ci sono regole assolute, ovvio. Ma specie se l’operazione cinematografica prende le mosse da un prodotto per il palco radicato nella convenzione, la spinta formale e creativa in sede di trasposizione dev’essere ancora più intensa. Il silenzio grande di Alessandro Gassmann tradisce la sua origine fin dalle primissime battute. Non fa niente (o fa pochissimo) per dissimulare la fonte da cui prende le mosse, così come l’impostazione degli attori, il loro gioco in scena, l’insieme estremamente ristretto degli interni, con luogo principe la biblioteca/stanza di lavoro del protagonista, Valerio Primic, un crepuscolare scrittore napoletano che, dopo alcuni trionfi anche economici, vive in ristrettezze e costringe la famiglia a disfarsi dell’enorme magione in cui abita con moglie, due figli e domestica. Il testo teatrale, relativa rappresentazione e adesso anche la versione in film sono il frutto dell’assiduo sodalizio tra il regista/attore Alessandro Gassmann e Maurizio De Giovanni, celebrità letteraria dei nostri giorni che si esprime tramite varie forme mediali – appartiene sempre al loro connubio un adattamento teatrale, originale quanto discutibile, di Qualcuno volò sul nido del cuculo (2015). A dire il vero, Il silenzio grande, fin dal suo avvio, procede per dialoghi e affermazioni apodittiche che intendono evocare un orizzonte di profondità e impegno, volenterosamente calato in un contesto intellettuale, che non sembra però mai riempirsi di convinti e ispirati contenuti. L’amarezza è a prescindere, il bilancio di una vita familiare è abbandonato a un compiaciuto psicologismo che si avvita su se stesso e che consegna spesso i personaggi a interminabili monologhi. La sensazione generale resta quella di un’operazione midcult che non ha moltissimo da dire e non sa nemmeno troppo come dirlo. Privo di un vero e proprio sviluppo drammaturgico, Il silenzio grande finisce per riproporre un limitato numero di situazioni in cui le svolte appaiono meccaniche e programmate – ci riferiamo in particolare all’evoluzione del rapporto tra il protagonista Valerio e i suoi due figli. Ambientato (si direbbe) negli anni Sessanta ma ricorrendo a costumi e scenografie che evocano anni pure più lontani nel tempo, il film sembra voler tagliare fuori la società coeva, chiudendosi esclusivamente nelle dinamiche di una famiglia (quantomeno logorroica) che però è singola e al contempo paradigmatica di alcuni mutamenti in corso nella società italiana.

Così, è puntuale il coming out del figlio gay. Così, è altrettanto puntuale la tematica dell’aborto e della ragazza madre per la seconda figlia. Così, è abbastanza prevedibile l’evoluzione dei due figli verso la dimensione dell’egoismo nei confronti del padre. Omosessualità e aborto sono piazzati nel racconto a uso e consumo dei turbamenti di un padre illuminato ma mai fino in fondo, sempre a metà del guado rispetto ai pregiudizi di una società come ben sappiamo fortemente condizionata dalla cultura cattolica. Altrettanto pretestuoso (e pure un po’ urticante) è il tema del peso della celebrità per i figli d’arte, in cui il testo di De Giovanni sembra sposarsi appieno alle corde autobiografiche di Alessandro Gassmann, giunto qui alla sua terza regia cinematografica. Tuttavia, è la natura davvero poco definita dell’intera operazione a renderne difficile la fruizione e per certi versi anche l’intelligibilità. La scarsa coesione dell’insieme emerge anche nelle brevi e surreali parentesi oniriche, tributo alla dimensione della fantasia tanto cara al protagonista Valerio, che si aprono e chiudono senza lasciare traccia, senza amalgamarsi con il resto, trovate estemporanee e praticamente mai in dialogo con il flusso narrativo (con qualche punta di ridicolo involontario appena giustificato da una battuta di consapevolezza affidata a Valerio). In fine di racconto è piazzato anche un colpo di scena al quale si arriva abbondantemente preparati dalla generale atmosfera sospesa e sognante, animata dalle solite sei figure sparute e isolate nella grande magione in procinto di essere venduta. Si deve riconoscere che è un sussulto di vera emozione, sostenuto perlopiù da un’intensa Marina Confalone – la migliore in scena, a nostro avviso. Negli occhi e nelle parole della sua domestica Bettina si avverte un sincero afflato di desolazione e abbandono che rischiara il tema delle memorie, inevitabilmente sempre a perdere, sempre a rimpianto rispetto a quanto si è vissuto. Tuttavia, sia pure efficace se preso di per sé, un finale ben azzeccato non può motivare un intero film, non può conferire senso, profondità e stratificazione a un racconto che pur volenteroso non riesce quasi mai a piazzare un vero affondo nella carne viva della propria ostentata amarezza.

Resta una buona direzione degli attori, che trova un’apprezzabile complicità con la Confalone e anche con il suo protagonista Massimiliano Gallo, solidissimo professionista della scuola napoletana. E resta anche il grande interrogativo del rapporto fra cinema e teatro, talvolta irto di insidie, tra eccessi di fedeltà e strade impervie nel passaggio da un canale espressivo all’altro.

Info
Il silenzio grande sul sito delle Giornate degli Autori.

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