Pulp Fiction

Pulp Fiction

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Nel maggio del 1994 Pulp Fiction, l’opera seconda di Quentin Tarantino, vince la Palma d’Oro al Festival di Cannes. Mentre sta ritirando il premio, in risposta a una signora che in platea sta gridando alla vergogna, il regista statunitense mostra il dito medio. Un gesto che racchiude una rivoluzione cinematografica, del linguaggio, dell’idea stessa di cult-movie e, proprio con questo film, del concetto di narrazione.

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Los Angeles, anni Novanta. Vincent Vega e Jules Winnfield, sgherri del potente boss criminale Marsellus Wallace, devono recuperare una valigetta sottratta al loro capo da un paio di giovanotti. Vincent è appena tornato in California dopo aver vissuto degli anni in Europa, ed è agitato perché Marsellus gli ha chiesto, in sua assenza, di fare da cavaliere per una serata alla sua donna, Mia Wallace. In attesa di fare irruzione nella stanza in cui i ladruncoli si sono nascosti Jules informa Vincent del fatto che il samoano Tony Rocky Horror, altro uomo di fiducia di Wallace, sia stato fatto defenestrare da quest’ultimo per aver fatto un massaggio ai piedi a Mia… [sinossi]
Fabienne: Ma questa motocicletta di chi è?
Butch: È un chopper, piccola.
Fabienne: Sì. Questo chopper di chi è?
Butch: Di Zed.
Fabienne: Chi è Zed?
Butch: Zed è morto, piccola… Zed è morto.
Un dialogo da Pulp Fiction

Primo incipit. Il cinema è una Bibbia, parola di Quentin Tarantino. Per questo Jules Winnfield, “il nostro uomo a Inglewood”, quando oramai ha deciso di mettere fine alla vita della persona che ha di fronte a sé e sta per prendere in mano la pistola e premere il grilletto declama, tra il salmodiante e l’indemoniato: «Ezechiele 25:17. Il cammino dell’uomo timorato è minacciato da ogni parte dalle iniquità degli esseri egoisti e dalla tirannia degli uomini malvagi. Benedetto sia colui che nel nome della carità e della buona volontà conduce i deboli attraverso la valle delle tenebre; perché egli è in verità il pastore di suo fratello e il ricercatore dei figli smarriti. E la mia giustizia calerà sopra di loro con grandissima vendetta e furiosissimo sdegno su coloro che si proveranno ad ammorbare ed infine a distruggere i miei fratelli. E tu saprai che il mio nome è quello del Signore quando farò calare la mia vendetta sopra di te». Un passo che non esiste nella Bibbia, e che è costruito di lacerto in lacerto, con un’operazione di collage e ricostruzione che parte, per Tarantino, come sempre dal cinema e dall’immagine in movimento, essendo tratta da Karate Kiba, coproduzione tra Stati Uniti e Giappone diretta da Simon Nuchtern nel 1976 e interpretata dal sempre mitico Sonny Chiba. Ma per Jules quel versetto esiste. Esiste perché è pronunciato, si trasforma in senso – per quanto sotto un profilo post-moderno il personaggio acquisisca consapevolezza del proprio stesso “parlare” solo in un secondo momento, quando si trova sotto scacco nel diner rapinato da Ringo e Yolanda –, e quindi in narrazione. In epica. Il cinema è una Bibbia, lo si può ricostruire mitopoiesi per mitopoiesi, ritrovando sempre la retta via (o quella più sbagliata, in fin dei conti c’è ben poca differenza): tutti i denigratori che vedono in Tarantino poco più di un essere parassitario, che vive succhiando la linfa vitale dei film già girati, delle battute già pronunciate, dovrebbe tornare a quell’Ezechiele 25:17 che non c’è mai stato su carta, ma solo nella grana della pellicola, nelle striature orizzontali del VHS, nei peggiori sintonizzazioni dei più improbabili canali televisivi. Quell’Ezechiele 25:17 c’è stato solo in Karate Kiba, versetto di una Bibbia apocrifa che serve da Tarantino come testo perpetuo, ispirazione dei più savi ragionamenti da profeta. Pulp Fiction, come già Le iene prima di lui, contiene tutta la consapevolezza del pensiero tarantiniano, l’ipotesi di riscrittura del senso stesso del cinema hollywoodiana attraverso la ricomposizione di corpi magari anche putrescenti tra loro mai entrati in contatto.

Secondo incipit. 23 maggio 1994, Festival di Cannes. Il presidente di giuria Clint Eastwood annuncia il vincitore della Palma d’Oro: il riconoscimento va a Pulp Fiction. Quentin Tarantino, all’epoca dei fatti trentunenne, si alza dalla sua poltroncina e si muove in direzione del palco, dove riceverà l’ambito premio. La maggior parte della platea applaude, ma una signora si sgola per urlare tutta la sua disapprovazione, considerando la scelta della giuria a dir poco vergognosa. Senza troppo scomporsi Tarantino si gira in direzione delle invettive e mostra il dito medio. Un gesto inelegante, senza dubbio, ma che pone immediatamente Tarantino dalla parte dei suoi personaggi. Nella rapida alzata del dito medio, lasciando le altre chiuse a pugno, Tarantino non sta semplicemente insultando una sua contestatrice, ma dimostra la coerenza della propria appartenenza: Tarantino non ha solo scritto e diretto Pulp Fiction, lo ha incarnato, gli ha prestato la propria vita. Non traducendo in immagini ciò che gli è capitato, stratagemma cui spesso si affidano soprattutto i mediocri, ma sublimando il proprio io in qualcosa di immateriale e materico a un tempo, un falso movimento che sottende una narrazione, e dunque un’evoluzione. Uno sviluppo. Ma Pulp Fiction non è stata solo un’evoluzione, tanto produttiva – per quanto il budget resti contenuto, al di sotto dei dieci milioni di dollari (escludendo la parte che i Weinstein investirono per costruire il marketing che avrebbe accompagnato il film nella sua fase di distribuzione) – quanto estetica, con la quasi assoluta continuità di luogo, tempo e azione de Le iene che si trasforma in un gorgo narrativo in cui tutti i pezzi dell’incastro confluiscono in maniera volutamente disordinata. Pulp Fiction è stata una rivoluzione, e questa si sa non è mai un pranzo di gala. Può dunque essere un dito medio. Senza temere di essere accusati di esagerazione, non esiste nel proscenio cinematografico mondiale dell’ultimo quarantennio un film che abbia la portata rivoluzionaria di Pulp Fiction, la sua forza dirompente nel distruggere in modo certosino tutte le certezze dell’immaginario consolidato, standardizzato. C’è un metodo nel tifone-Tarantino, ed è quello di sparpagliare sul campo un numero di ipotesi che devono poi trovare una loro soluzione. Non ci sono personaggi in cerca d’autore, nel cinema di Tarantino, ma schegge impazzite in cerca di un tallone nel quale conficcarsi, di una mano da far sanguinare.

Se fin dalla sua prima apparizione sulla Croisette in così tanti si diedero da fare per puntare l’accento – a volte, sovente, accompagnando la notazione con parole di profonda riprovazione – sull’esibizione della violenza cui Tarantino sembra far ricorso (eppure l’esecuzione dei malcapitati Brett e Roger è rappresentata figurativamente solo dai bagliori delle pistolettate, e l’esplosione della testa di Marvin – tanto per portare un paio di esempi – è in tutto e per tutto irreale, e cartoonistica), è perché Pulp Fiction non è, a discapito del suo stesso titolo, un’operetta di prurigini dozzinali. Si attaccò così radicalmente il film, al punto da suggerire ad esempio in Italia il divieto ai minori di 18 anni, perché all’interno vi era nascosto qualcosa che faceva paura, e che non si vedeva da tempo. Nascosto nelle sue pose quasi indie – i lunghi e articolati dialoghi, i colori lavorati dal direttore della fotografia Andrzej Sekuła, il ricorso al grottesco – si può rintracciare il germe di una rivoluzione. Non una rivoluzione della moda, cui anzi il mainstream si sbrigherà in fretta e furia ad aderire, intasando le sale cinematografiche nel quinquennio a venire di un numero spropositato di imitatori di Tarantino (che invece si smarcherà in quattro e quattr’otto dirigendo nel 1997 Jackie Brown e dimostrando anche ai più refrattari la propria libertà espressiva). No. Una rivoluzione ben più pericolosa: quella del linguaggio. Per quanto successivamente Tarantino esplorerà gli abissi più profondi dell’estetica, in particolar modo a partire nel dittico omoteleuto Kill Bill e in A prova di morte, il suo contributo a Grindhouse, il vero oggetto di riscrittura e ridefinizione – ben lontano dai canoni tanto del genere quanto della prassi – è riscontrabile nella sceneggiatura. L’arzigogolata struttura a incastro non è uno specchietto per le allodole, non serve a depistare lo spettatore. Serve a depistare la narrazione stessa. Con una dinamitarda voglia di bombardare l’idea intrinseca di struttura Tarantino crea uno pseudo-noir che viene ricondotto al genere solo per le sue esteriorità – il boss, gli scherrani, la pupa, la valigetta da recuperare, l’incontro di pugilato truccato ecc. – e non per le sue reali peculiarità. Mentre chiunque si sarebbe dannato l’anima per trovare il modo più brillante per risolvere le succose situazioni in cui i personaggi si trovano a battagliare, Tarantino se ne disinteressa completamente, muovendosi di digressione in digressione. Per questo diventa indispensabile lo sfasamento spazio-temporale, quell’atto dolcissimo che permette al montaggio di risuscitare Vincent Vega dopo che Butch Coolidge gli ha sparato mentre si trovava sulla tazza del water. Il cinema è la Bibbia, dopotutto: anche qui è legittimo aspirare alla vita eterna…

Nel dilatare all’infinito situazioni che potrebbero benissimo risolversi in un tempo assai più breve Tarantino sovverte la logica dell’intreccio, la denuda mostrandone le gracilità. Perché doversi interessare all’ennesima sparatoria quando ci si può perdere in una dissertazione sul massaggio ai piedi, o sul sistema metrico decimale? Perché doversi accontentare di un amplesso tra la moglie del capo e il braccio destro di quest’ultimo quando mentre lo stereo rimanda le note di Girl, You’ll Be a Woman Soon degli Urge Overkill la ragazza può andare di colpo in overdose spostando completamente la prospettiva dello sguardo dello spettatore, non più curioso di capire come Vincent riuscirà a schivare le lusinghe sessuali della ragazza ma temendo per la morte della stessa? Tutta l’operazione filosofica che sottende a Pulp Fiction si basa sul depistaggio continuo delle aspettative del pubblico, sbaragliando dal campo le comodità cui questo è solito aggrapparsi durante la visione di un film. Se ci si è sentiti in dovere di attaccare Pulp Fiction nel 1994 è perché sotto sotto si era compresa la sua potenza rivoluzionaria, il suo piano eversivo, la sistematica distruzione di ogni prassi. In questo senso, proprio nell’atto di lavorare sulla narrazione, sul suo sviluppo nel tempo e nello spazio, è possibile – per quanto taluni taccerebbero tale accostamento di eresia, invocando il rogo o altre amenità medioevali – scorgere i punti di contatto tra il gesto di Tarantino e quello compiuto nel 1941 da Orson Welles con Quarto potere. Come Welles si muoveva attraverso i punti salienti della vita di un uomo che si era costruito grazie al giornalismo e all’editoria, alla stessa stregua Tarantino ribadisce la centralità della scrittura, elemento visivo e montato esattamente come la costruzione dell’inquadratura. Non c’è nulla che somigli a Citizen Kane, dopo il 1941, eppure chiunque ha tentato di rifarlo: si può affermare lo stesso per il film di Tarantino, senza tema di smentita. Come Welles anche Tarantino ribadisce la propria libertà assoluta, produttiva, concettuale, filosofica, visionaria, e dunque Pulp Fiction diventa elemento di costume collettivo, ma anche opera d’arte. Ancora come nel 1941 si prendeva a spunto il giornalismo anche scandalistico per elaborare una riflessione sull’immagine e il suo senso, alla stessa stregua cinquantatré anni dopo Tarantino si rifugia, per compiere lo stesso percorso, dalle parti della narrativa di largo consumo. Per l’intera durata del film Tarantino propone uno sposalizio tra l’alto e il basso, tra il cinema con la C maiuscola e gli z-movie da drive-in, tra la profonda riflessione e la battutaccia (“io ho carattere, tu hai un caratteraccio” dice Wolf, il risolutore di problemi, alla sua bella, la figlia dello sfasciacarrozze “Mostro Joe”), dimostrando come tutti gli elementi possano sopravvivere insieme se è la visione complessiva a essere d’insieme. Di nuovo, se esiste un senso. Così diventa tragico e demenziale il racconto della morte del padre di Butch fatto all’allora bambino da un suo commilitone, con la prigionia nelle risaie dei vietcong e la dissenteria provocata con ogni probabilità dall’orologio di famiglia tenuto nascosto nel cavo anale. E si posiziona a metà tra sublime e parodistico il ballo che Mia e Vincent si concedono in pista al Jackrabbit Slim’s, il ristorante in cui sono andati a cena. Tra i fantasmi/sosia dei cantanti degli anni Cinquanta che lavorano da camerieri al Jackrabbit Slim’s Tarantino gioca con il post-moderno, ma non gli affida mai davvero le chiavi del suo immaginario, così come queste non le ha neanche la sua infinita cinefilia, che è solo – il cinema è una Bibbia, non lo si dimentichi mai – un salmo da cantare in estasi. Con Pulp Fiction Tarantino prende gli stilemi del genere e li tritura, liberando così definitivamente lo sguardo dello spettatore, negando ogni tipo di costrizione, ogni abitudine, ogni prassi. Negando l’industria, pur facendone parte – di nuovo, l’ombra del gigantismo wellesiano. Comprendendo come l’immagine possa risultare ancora più violenta quando viene celata, tenuta fuori campo (oltre ai casi citati in precedenza val la pena ricordare come l’ago con l’adrenalina che si abbatte su Mia Wallace – in una scena ispirata da un celebre racconto fatto in American Boy: A Profile of Steven Prince di Martin Scorsese – non lo si vede arrivare a destinazione, così come la sodomizzazione di Marsellus Wallace non trova spazio in campo) e quindi bramata. Pulp Fiction, che nel 1994 spinse Quentin Tarantino a mostrare il dito medio a un’ignota signora, è l’ultima grande rivoluzione del cinema mondiale. A ventisette anni di distanza si aspetta ancora un nuovo profeta.

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