Audition

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A quasi ventitré anni dalla sua prima proiezione pubblica (al festival di Vancouver, da dove prese il via il culto sotterraneo) arriva sugli schermi del Far East Audition, il film che per primo fece comprendere al mondo cinefilo che Takashi Miike era tutto tranne che un regista di opere di scarso spessore. Giocando con lo spettatore, ma soprattutto violando ogni possibile regola del “visibile”, Miike filma un’opera violentissima, che riflette tanto sul sadismo quanto sulla manipolazione, mescolando – come sempre nella filmografia del regista giapponese – il maschile e il femminile. Con una straordinaria Eihi Shiina, all’epoca ventitreenne.

La vita è un provino

Shigeharu Aoyama è un vedovo. Dopo sette anni di lutto il figlio adolescente lo incita a trovare una nuova compagna di vita, ma l’uomo non ha idea di come fare. Gli va in soccorso l’amico Yasuhisa Yoshigawa, produttore cinematografico: se Aoyama ha ben chiaro in mente come immagina la sua futura consorte perché non creare un finto provino per un film da fare, e scegliere tra le convocate? Al provino si presenta la timida e dolce Asami, e Aoyama ne è subito attratto… [sinossi]

Nel 1999 in pochi ne avevano contezza, ma non esisteva e non esiste nel panorama cinematografico internazionale un regista come Takashi Miike. Neanche Sion Sono, che pure presenta molti tratti in comune con il collega e quasi coetaneo – tratti che sono andati accentuandosi nel corso degli anni –, ha una filmografia paragonabile. Non si tratta di mera qualità, ma proprio del senso di ciò che significa produrre immagini, e del valore che queste acquisiscono nel corso del tempo. Se oggi in ogni caso Miike è autore venerato (per quanto ancora paradossalmente poco compreso dalla critica, che persevera nel tentativo vano di ingabbiarlo all’interno di coordinate precise e controllabili), ventitré anni fa, quando Audition venne presentato al Festival di Vancouver, prima di approdare nel gennaio del 2000 a Rotterdam, era ancora un regista oscuro ai più, e soprattutto mal considerato. Certo, Fudoh: The New Generation aveva sconvolto la prassi della visione al Fantasporto, da dove era tornato con ben due riconoscimenti (miglior film, ma anche il premio speciale della giuria per il miglior film fantastico: su quest’accezione ci sarebbe molto di cui discutere), ma la fama di Miike era quella di essere un regista di straight-to-video, considerati oggetti di rapida fruizione e ancor più labile persistenza nella memoria. Fu il già citato festival di Rotterdam, nel gennaio 2000, a cambiare il corso degli eventi: in terra olandese vennero presentati, negli stessi giorni, Audition e Dead or Alive, spiazzando anche gli spettatori più avvezzi alle follie della Settima Arte. Due opere per certi versi tra loro perfino antitetiche eppure così puramente eversive da parlare in tutta evidenza la stessa lingua, una lingua fatta di cambi di marcia, di ritmi impensabili – l’incipit e il finale di Dead or Alive –, di follie fuori di senno, di un’incredibile gestione della messa in scena e delle sue peculiarità. Una lingua che parlava di sadismo, di crudeltà insita nell’umano, di superamento delle barriere del corpo: Miike, che per oltre trenta lungometraggi nessuno o quasi si era premurato di analizzare nella sua poetica espressiva, dimostrava di muoversi sulla scia della via tracciata nel corso dei decenni da Seijun Suzuki, Kinji Fukasaku, Teruo Ishii, Nobuo Nakagawa, solo per citare alcuni nomi esemplificativi. In un mondo del cinema che già si andava digitalizzando (il 1999 è anche l’anno di Matrix) Miike ribadiva la necessità di ripartire dal corpo per poter davvero mettere in scena le infinite scissioni interne dell’umano, le pulsioni e le ossessioni, il desiderio così annichilente da essere scambiato per amore – o viceversa.

Audition principia da un corpo inerte, freddo, un corpo che non-è-più. È quello della moglie di Shigeharu Aoyama, cui presta il volto Ryō Ishibashi (già frequentatore dei set di Takeshi Kitano – Kids Return – sarà il protagonista dello straordinario Suicide Club di Sion Sono, per poi tornare a lavorare con Miike in Big Bang Love, Juvenile A), un uomo di mezza età che si ritrova solo a crescere il proprio adorato figlioletto. Aoyama, vedovo e single, è un uomo che ha in maniera duplice dovuto rinunciare agli attributi canonici del maschile, la virilità – che non può più mettere in pratica data la scomparsa della consorte – e il rigore educativo, visto che per il piccolo Shigehiko è sia padre che madre. Gli resta però, durante la vedovanza, l’immagine angelicata del femmineo, l’idea iperuranica di una ragazza che sia fragile ma sensibile, accudente e colta, e sia dunque adatta a prendere il posto della moglie al suo fianco. Aoyama, come anche il suo amico produttore, vagheggia la geisha, artista e intrattenitrice con qualche “dote” della oiran, la cortigiana di corte che sa consolare l’uomo anche nel talamo. Prima ancora che entri in scena la dirompente Asami Yamazaki, Miike ha avuto modo di esemplificare agli occhi dello spettatore il punto cardine intorno a cui ruoterà il film, vale a dire il ruolo assegnato dal maschile al femminile nella società giapponese e il deperimento dello stesso nel corso del tempo. Aoyama e Yoshigawa sono due conservatori, si deprimono nel vedere delle ragazze che tutte sole bevono e si divertono in un bar, perché per loro quello è il segno inequivocabile della corruzione morale che sta spingendo oltre il precipizio il Giappone. L’emancipazione come smarrimento della tradizione, e dunque crisi: Yoshigawa d’altro canto mette subito sul chi va là l’amico alla ricerca di una nuova compagna che possa colmare il vuoto affettivo nella sua vita – è il figlio oramai adolescente a stuzzicare Aoyama sulla necessità di trovarsi una consorte che ponga fine al suo lungo periodo di lutto –, quando gli dice che sarà tra gli “scarti” delle audizioni che potrà sperare di coronare il suo sogno, perché le ragazze che davvero si contenderanno il ruolo di protagonista per il film non ne vorranno di certo sapere di uno come lui. Saranno alla ricerca di una gratificazione professionale, anche loro corrotte in qualche modo dall’ipotesi di successo.

Ma perché Audition prende il via, dopo un lungo e articolato incipit, da un’audizione? Certo, è l’escamotage con cui Aoyama avrà modo di conoscere la giovane Asami e di ricontattarla per iniziare a incontrarla in privato, lontano dalle videocamere, ma non si tratta solo di questo. Da un punto di vista puramente strutturale Miike costruisce la prima parte del film come si trattasse di un dramma romantico, con l’uomo di buoni sentimenti che desidera solo trovare un’anima gemella che sappia consolare il suo pianto rituale, e far sì che si trasformi in una buona moglie e una buona madre. Una dinamica di cui il cinema medio è pieno, stracolmo, e che spesso neanche si rende conto della sua dimensione fallocentrica. Ma non c’è nulla di medio nel cinema di Takashi Miike. Ecco dunque che per scardinare l’ipotetico idillio basta uno stacco di montaggio, normalissimo eppur brutale. Da un lato c’è Aoyama, che nonostante i suggerimenti dell’amico, che gli ha detto di aspettare a richiamare la ragazza che gli piace perché c’è qualcosa che non gli torna nelle informazioni che ha fornito durante il provino (ha parlato di una casa discografica che era intenzionata a metterla sotto contratto, ma una verifica ha palesato il fatto che il produttore citato da Asami risulta svanito nel nulla da ben un anno e mezzo), non vede l’ora di alzare la cornetta del telefono e comporre il numero. Dall’altro lato c’è anche Asami in fremente attesa, ma l’inquadratura che la coglie davanti al telefono la mostra in un atteggiamento molto inquietante, inginocchiata a terra con davanti a sé sia il telefono che un sacco di iuta pieno di “qualcosa”, o forse di “qualcuno”, visto che di colpo si muove. Se un thriller statunitense sulla pericolosità dell’elemento muliebre avrebbe cercato di giocare con lo spettatore il più a lungo possibile, rimanendo nel campo dell’ambiguità e puntando tutto sul colpo di scena, Miike non ha alcun timore ad affrontare in maniera diretta la questione: Asami è una psicopatica, e il suo scopo è quello di irretire uomini per poi seviziarli in modo selvaggio – l’essere nel sacco, che è proprio il succitato produttore discografico, non ha più piedi, lingua, e tre dita della mano. Aoyama è solo la nuova preda della sua attività venatoria. Ma perché Miike è così attento nell’evitare qualsiasi possibile dubbio in merito a ciò che potrà accadere sullo schermo? Semplice, perché non è quello il centro del discorso. Non è importante che Asami (straordinaria l’interpretazione dell’allora ventitreenne Eihi Shiina, che l’anno successivo si vedrà anche in Eureka di Shinji Aoyama, scomparso lo scorso 21 marzo) sia un folle, né che voglia mettere in atto le sue pratiche sadiche su Aoyama: ciò che preme a Miike, come accadrà anche in altre occasioni, è il disvelamento dell’ipocrisia del mondo “perbene”.

Aoyama è il giapponese medio, che vuole la donna verginea, infantile, di bianco vestita, solo per poterla poi possedere, dominare economicamente e sessualmente. Asami è a suo modo vittima prima che carnefice, o meglio è una vittima predestinata (già nelle grinfie di pedofili e lubrici di ogni forma) che ha scelto di diventare carnefice: i suoi metodi sono efferati e moralmente ingiustificabili, eppure sconvolgono la prassi, si pongono come vertice sublime nella sua follia sanguinaria di un atto rivoluzionario, perché conducono l’aura mediocritas nipponica in una posizione di subalternità. Lo schema che vede il femminile come “costola” del maschile, e dunque sua propaggine non vitale per quanto indispensabile viene messo in crisi già dalle conoscenze ittiche del figlio di Aoyama, che gli spiega come i dentici nascano tutti maschi, per poi diventare in parte femmine durante lo sviluppo. L’ermafroditismo, elemento cruciale della poetica miikiana, presuppone proprio la possibilità per un organismo di sviluppare sia i gameti maschili che quelli femminili, e l’obiettivo di Asami è quello di eliminare traccia degli attributi maschili. Già evirato “socialmente”, Aoyama lo diventa anche in forma simbolica quando Asami gli strappa via uno degli piedi, impedendogli di mantenere la posizione eretta. È la più atroce e sublime delle vendette, la rivendicazione somma che va anche al di là della morte, perché la giovane folle con lo sguardo vitreo fisso sull’uomo (lo stesso sguardo che la moglie gli aveva lanciato dal letto d’ospedale) ha diritto ancora di parlare, pur non essendo più in vita.

Audition permise a Miike di iniziare a farsi notare dalla pigra stampa internazionale, ma è a tutti gli effetti uno dei thriller fondamentali dell’ultimo trentennio, per la sua capacità di sovvertire la prassi, di approfondire la psicologia dei suoi personaggi, e anche di traumatizzare la canonicità dello stile. Tra inquadrature di grande eleganza formale – l’inquadratura dall’alto che disseziona, creando una dialettica interna al quadro, il ristorante in cui stanno cenando Aoyama e Asami, per esempio –, raptus improvvisi della camera a mano, una dimensione onirica ottundente e di fronte alla quale ci si ritrova annichiliti, quasi schiacciati, Miike dà continuamente prova di gestire con un’intelligenza rara ogni singolo istante della sua creatura, creando sempre una polifonia di sguardi anche volutamente contraddittori. Il suo però, come si scriveva dianzi, non è mai un approccio “solo” ludico, ma vibra di una profonda tensione umana, e in ultima istanza politica. Hanno ragione Aoyama e Yoshigawa al bar, il Giappone è “finito”, ma non per la libertà del gruppo di ragazze che ciarla in un angolo, ma per la sua incapacità di mettere in crisi l’immagine standardizzata. Miike lo fa, narrativamente ed esteticamente, e lancia un grido che riecheggerà di pellicola in pellicola. Forse l’ultimo grande eretico del cinema mondiale che abbia ancora voglia di confrontarsi con il sistema, e di farne parte per sovvertirlo.

Info
Il trailer italiano di Audition.

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