Ichi the Killer

Ichi the Killer

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Nell’autunno del 2001 faceva la sua apparizione sugli schermi di alcuni festival (Toronto, Vancouver, Londra, Courmayeur, sarebbe poi stato distribuito in Giappone a partire dal 22 dicembre) Ichi the Killer, la creatura più iconica della vastissima filmografia di Takashi Miike. Il cinema entrava nel nuovo millennio nel segno del sadismo, del masochismo e della totale libertà creativa, forgiando schiere di giovani cinefili attraverso un immaginario sanguigno e sanguinolento, crudele ma non privo di lirismo, sardonico e anarchico. A venti anni di distanza quella lezione inizia a riecheggiare vagamente, in un mondo che non ama più gli spigoli, e non vuole avere paura di tenere gli occhi aperti. Dunque è giunto il momento di riscoprire Kakihara, e il suo sorriso/ghigno artefatto.

La lingua a pezzi

Kakihara è un membro della yakuza, psicopatico e masochista. Il suo capo, Anjo, è scomparso nel nulla, e lui scatena una guerra tra bande; in questo scenario si aggira Ichi, un giovanissimo serial killer istigato da Jijii, un uomo che è in realtà il responsabile della scomparsa di Anjo. Nessuno può frenare la furia omicida di Ichi, che ora sembra proprio sulle piste di Kakihara… [sinossi]

Il 14 settembre del 2001 l’attenzione di tutti gli abitanti di Toronto era ovviamente concentrata ancora sulle immagini del crollo delle Twin Towers, sullo schianto degli aerei, sulla tragedia che si abbatteva su un mondo erroneamente credutosi in pace. In linea d’aria Toronto dista circa settecento chilometri da New York, a separare le due città quasi solo il confine d’acqua, con il lago Ontario e le cascate del Niagara. Anche i frequentatori del Festival di Toronto quel 14 settembre avevano la mente occupata dai notiziari, dalla conta delle vittime, dai venti di guerra che già si avvertivano nell’aria. Eppure, per quanto in così pochi potessero sul momento rendersene conto, un ordigno in tutto e per tutto artistico, e dunque distruttore ma portatore di verità rivoluzionaria, esplose quel giorno nella pancia del festival. Immagini distorte delle vie di Tokyo riprese ad altissima velocità, i dettagli della ruota di una bicicletta, fotogrammi congelati a mo’ di fumetto: il mondo si trovava a tu per tu per la prima volta con Koroshiya Ichi ( 殺し屋1in ideogrammi), vale a dire Ichi the Killer. Per quanto davvero in pochi sembrassero rendersene conto in quel momento, il mondo del cinema entrava nel nuovo millennio nel segno del sadismo, del masochismo e della totale libertà creativa. Si iniziava anche a diffondere il verbo attorno a Takashi Miike, che pure dirigeva film da un decennio e a un ritmo forsennato: Ichi the Killer è la sua quarantatreesima regia, la diciottesima pensata per la distribuzione nelle sale cinematografiche. In un sistema produttivo globale che iniziava – inconsapevolmente – il processo di contrazione che renderà sempre più ardua la vita ai registi, costretti a lunghi periodo di stasi tra un progetto e l’altro, Miike appariva come un insubordinato, furibondo anarcoide magari amorale ma non privo di ethos. Solo nei dodici mesi di cui si compone il 2001, oltre alle avventure di Kakihara e del giovane e schizoide Ichi, il regista porta a termine Family e il suo seguito Family 2 (saga familiar-criminale dalle timbriche oscure, con il primo capitolo concepito per la sala, e il secondo destinato al mercato direct-to-video), il folle pastiche che attraversa i generi e le tecniche The Happiness of the Katakuris – dall’horror al musical, dal demenziale al mélo, dalla commedia familiare all’animazione –, lo “yakuza eiga” Agitator, e Visitor Q, dove viene cercato e trovato l’assurdo sposalizio tra il sensazionalismo pruriginoso del documentario televisivo e le riflessioni del pasoliniano Teorema.

Per quanto The Happiness of the Katakuris, Agitator e Visitor Q meritino di rientrare a tutti gli effetti tra i massimi risultati estetici della filmografia miikiana, nessun pugno nello stomaco arriva così forte e ben assestato quanto quello prodotto da Ichi the Killer. Girato con uno stile elegantissimo eppur brutale, che sa mescolare le raffinatezze di una fotografia assai ricercata – merito dell’eccezionale lavoro di Hideo Yamamoto, sodale di lungo corso di Miike (al suo fianco anche nel recentissimo Yōkai Daisensō Gādianzu, vale a dire The Great Yokai War: Guardians, uscito nelle sale nipponiche lo scorso agosto) al quale si deve tra gli altri anche Hana-bi di Takeshi Kitano –, Ichi the Killer è figlio della iper-cinetica cibernetica e punk che ribollì nel sottobosco di Tokyo grazie a Shinya Tsukamoto, non a caso qui scelto come interprete dell’ambiguo e crudele Jijii. Da lui proviene quella spinta incessante a massacrare l’immagine, renderla quasi astratta nella sua velocità, quasi che il movimento, il cinema, fosse qualcosa di inafferrabile all’occhio, di indefinito, una macchia sul soffitto come quelle lasciate dalla carneficina. Il sangue, in Ichi the Killer, scorre a fiumi, perché è l’unico fluido vitale che i protagonisti sanno riconoscere, e mostrare. Nella truculenta sarabanda orchestrata da Miike il sangue è il vettore principale di un mondo lanciato a velocità stratosferica contro un muro: un universo in auto-dissoluzione, che ha solo voglia di continuare a gorgheggiare con la gola lacerata, rantolante in un angolo della strada o su una terrazza. Nella mostra delle atrocità miikiane, teatro della crudeltà che si fa teatro dell’assurdo, si condensa un immaginario sanguigno e sanguinolento, ma che non viene mai meno a un lirismo sincero e appassionato, e a un’ironia sardonica. Miike non ha pietà per lo spettatore, forse, ma solo perché quella che aveva in dote l’ha interamente riversata sui suoi personaggi.

Nel puro spirito sadomasochistico il primo a godere è colui che deve soffrire, e ne ha piena consapevolezza: da Kakihara al già citato Jijii, da Ichi a Karen, da Kaneko a Suzuki, tutti i personaggi sono sconfitti, lacerati dal senso di colpa, dall’inadeguatezza al vivere, prima ancora che dagli spilloni, dalle lame e dalle spade con cui i corpi possono essere trafitti. Nella sua disperata ricerca di un senso dell’umano là dove il concetto stesso di umanità sembra essere stato dimenticato, e abbandonato, Ichi the Killer è a suo modo, nel profluvio di sodomizzazioni, omicidi, stupri, e violenze d’ogni genere, un grande film sull’amore, e prima ancora sul desiderio. Desiderio del corpo altrui ma soprattutto della capacità di integrità in un cosmo disintegrato, e che fa del ludibrio della carne uno dei suoi punti cardine: in tal senso la punizione suprema di Kakihara non può che tramutarsi nell’amputazione della lingua che l’uomo si procura da solo, così come le due fessure create nelle guance per allargare a dismisura un sorriso che non sarebbe neanche lontanamente possibile altrimenti. Il sorriso/ghigno artefatto di Kakihara è la rappresentazione più chiara della materializzazione forzata – e quindi esclusivamente nell’immaginario – di un desiderio di rappacificazione che non ha ovviamente speranza alcuna di avversarsi. Nel suo incessante lavoro di spoliazione dell’immagine, per paradosso raggiunta attraverso l’accumulo di nefandezze, Miike vaga – come i suoi personaggi – alla questua di una purezza che il mondo ha spazzato via. La società giapponese resta problematica perché naturalmente schizofrenica, incapace di integrarsi con ciò che proviene dall’esterno (il personaggio di Karen, cinese zainichi – letteralmente “che sta in Giappone” – che parla in inglese ed è costretta a fare la prostituta, rientra alla perfezione nella rappresentazione miikiana di un microcosmo nipponico chiuso in se stesso e del tutto indifferente all’altro, razzista per attitudine quasi “naturale”).

Una terra violenta, profittatrice, allo sbando, in cui tutti vessano tutti, e il potere domina la scelta dei sottoposti anche quando non c’è fisicamente più (lo spettatore sa, contrariamente a Kakihara, che il boss Anjo è morto). Ichi the Killer è una vendetta senza redenzione, perché non ha senso vendicarsi – di cosa, nello specifico? – e non esiste gioia né senso di pace. Anche per questo Miike barbarizza la messa in scena con un profluvio di invenzioni sempre inattese, travolgenti, scosse telluriche dello sguardo che sembrano ribadire l’essenza vitale del cinema di fronte alla morte, alla violenza, al suicidio. Non c’è speranza, nel racconto di Miike, che prende tra le mani un manga ma viaggia verso orizzonti del tutto cinematici; lo sguardo allucinato, perso nel contemporaneo, che domina il film fa irrompere il cinema giapponese nel Terzo Millennio, un po’ come quello di David Lynch che nello stesso anno ricorda a Hollywood che ogni storia d’amore è una storia di cinema, e dunque una storia di morti e fantasmi (della mente?). Allo stesso modo sul principiar del millennio questo film permise a schiere di giovani cinefili di aprire gli occhi a oriente, di allargare la visuale, di comprendere che la violenza non era un atto superfluo, e la sua rappresentazione è uno dei cardini della riflessione su sé, e sul proprio senso. A venti anni di distanza quella lezione inizia a riecheggiare vagamente, in un mondo che non ama più gli spigoli, e non vuole avere paura di tenere gli occhi aperti. In un mondo normalizzato e mediocre come quello di oggi film di questo tipo non possono essere più prodotti, forse neanche in Giappone, nazione sempre più in crisi. E allora è necessario ripartire da qui, dal sorriso/ghigno di Kakihara, dalla lama che taglia a metà il corpo di un uomo, dai pettorali impossibili di Jijii. Sempre consapevoli che il corvo della sventura – il riferimento mortuario alla mitologia norrena per Miike tornerà in Lesson of the Evil, qui apre e chiude il racconto – vola libero per la città. Si torni a liberare anche il cinema.

Info
Ichi the Killer, il trailer.

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