Rapiniamo il Duce

Rapiniamo il Duce

di

Rapiniamo il Duce segna il ritorno alla regia di finzione per Renato De Maria a tre anni di distanza da Lo spietato. Anche qui il regista si muove nel campo del genere, orchestrando un heist movie ambientato a Milano nei giorni che portarono alla caduta del regime fascista. Guardando in direzione di Freaks Out, Rapiniamo il Duce raccoglie al proprio interno probabilmente tutto ciò che il cinema italiano dovrebbe evitare. Presentato in anteprima alla Festa di Roma, e da fine ottobre su Netflix.

“Fanculo la Storia”

Milano, aprile 1945. Siamo agli sgoccioli della Seconda Guerra Mondiale. La città è in macerie. Nel caos della guerra Isola è diventato il re del mercato nero, guidato da un’unica legge morale: la sopravvivenza. Yvonne è la sua fidanzata clandestina, cantante del Cabiria, l’unico locale notturno rimasto aperto in città. Ma anche Borsalino, gerarca fascista, torturatore spietato, è innamorato perdutamente di Yvonne e disposto a tutto pur di averla. Isola e i suoi intercettano una comunicazione cifrata e scoprono che Mussolini ha nascosto il suo immenso tesoro proprio a Milano – nella “Zona Nera” – in attesa di fuggire per la Svizzera, scampando alla cattura e alla forca. Isola non può lasciarsi sfuggire l’occasione della vita – il colpo più ambizioso della Storia – e decide perciò di mettere in atto un’impresa folle: rapinare il Duce. [sinossi]

“Fanculo la Storia”. Questa è la sintesi, tra il volgare e l’icastico, della discussione che anima la scelta, da parte della banda capitanata da Isola, il giovane milanese che nei giorni che porteranno alla liberazione della città dalle truppe nazifasciste, di cercare di mettere le mani sull’oro di Mussolini, chiamato così o come oro di Dongo, vale a dire i beni (gioielli, lingotti d’oro, moneta corrente) che il Duce cercò di portare con sé nella fuga verso la Svizzera. Parte dunque da qualcosa di vero Rapiniamo il Duce, il film con cui Renato De Maria torna a una regia di finzione a tre anni di distanza da Lo spietato, e di nuovo trovando ospitalità su Netflix – in questo caso senza neppure l’illusione del passaggio in sala. “Fanculo la Storia” non è però solo una massima un po’ adolescenziale messa in bocca al personaggio dell’anarchico che con il padre di Isola e l’uomo che poi gli ha fatto da tutore visse l’ebrezza – così traspare dal racconto filmico – dei giorni di Fiume, sembra anche essere il minimo comun denominatore della sceneggiatura, e in ultima istanza dell’approccio alla messa in scena di De Maria. Il quale cerca subito di mettere le cose in chiaro, visto che sull’inquadratura dall’alto della Milano sotto il dominio della Wermacht e della Repubblica di Salò partono le note di Se bruciasse la città, che Massimo Ranieri darà alle stampe solo nel 1969: il regista dichiara dunque da subito l’anacronismo, in modo così plateale da voler rivendicare il fatto di poter dunque fare della Storia quello che vuole lui. Tanto è fiction, no? In questo senso Rapiniamo il Duce è la rappresentazione plastica dell’incomprensione nei confronti del cinema di Quentin Tarantino, perché è evidente che un film del genere non potrebbe esistere se non ci fosse stato l’esempio di Bastardi senza gloria. Ed è il difetto base del cosiddetto “tarantinismo”, un approccio produttivo che riproduce in modo passivo le dinamiche e le intuizioni messe in atto dal grande regista statunitense come si trattasse di paradigmi. Quindi nella mente dei registi e dei produttori si forma l’interrogativo “Se l’ha fatto lui perché non posso farlo io?”, come se l’arte fosse un oggetto in serie, una porcellana sempre valida in sé a meno che non abbia qualche lembo sbeccato. Ma la riproduzione della Francia occupata che Tarantino fa possiede una consapevolezza del senso della Storia che De Maria, con quel “Fanculo la Storia” attraverso cui si auto-assolve, dimostra proprio di non voler prendere in considerazione. Hitler e Goebbels possono morire a colpi di mitragliatrice in un cinema di Parigi un anno prima della loro reale “fine” perché il cinema ha il compito, nell’ottica di Tarantino, di “redimere” la Storia – lo testimonierà anche in modo dolcissimo in C’era una volta… A Hollywood. Quello di De Maria, nella sua ripetizione priva di analisi, è invece solo un intento ludico, un gioco fine a se stesso.

Dopotutto nel precedente film De Maria rimetteva mano al Martin Scorsese di Quei bravi ragazzi con lo stesso approccio, mancante completamente di idee, di intuizioni, di prese di posizione personali. Rapiniamo il Duce non è che la riproposizione del medesimo schema, con in più la volontà di prendere ispirazione anche dal Gabriele Mainetti di Freaks Out – già a sua volta copia incompiuta di metodologie produttive assai più strutturati, e sensate. Ecco dunque che Matilda De Angelis, l’innamorata di Isola (e amante del gerarca fascista Borsalino) che si esibisce come cantante nel tabarin “Cabiria” – a proposito della ridondanza citazionista – intrattiene gli astanti intonando Paint It Black dei Rolling Stones nella versione italiana di Caterina Caselli o Amandoti (Sedicente cover) dei CCCP – Fedeli alla linea, così come l’über nazista dalle dodici dita Franz Rogowski nel film di Mainetti al pianoforte suonava Creep dei Radiohead. Squilli di contemporaneità inutili, del tutto sgravati dal peso del tempo, come se quest’ultimo non esistesse, non avesse valore. Ma il cinema è lo spazio che si coniuga al tempo, e trova un suo senso. Qui tutto è così prossimo al ridicolo, e non per le svisate comiche del tutto depotenziate di Maccio Capatonda (dovrebbe muovere al riso il refrain sull’eroe della patria premiato sul tracciato di Nürburgring?), che si può mettere in scena una giovane afrodiscendente del tutto integrata a Milano – al punto da fare la ladra e di aggirarsi per la città senza mai incorrere in stupore – senza neanche preoccuparsi di creare un contesto, un perché storico, niente di niente. Anche il riferimento a Fiume è gettato via, buttato nel mucchio come l’accumulo di riferimenti che dovrebbero creare un substrato narrativo ma non ne possiedono la forza. Al massimo De Maria si limita a giocare un po’ con il cinema dell’epoca, con la moglie del gerarca Borsalino che è un’attrice del muto e all’inizio sembra quasi rimandare alla Gloria Swanson di Viale del tramonto (ma nel corso della storia questo passaggio viene accantonato), o con il personaggio del regista che potrebbe nascondere uno sguardo sarcastico nei confronti di Luchino Visconti. Ma si tratta di accenni superficiali, che a loro volta non incidono minimamente e non restano nella memoria.

A essere ben poco interessante è anche lo sviluppo narrativo in sé e per sé, sia perché il colpo non è approfondito nel modo giusto, e in un heist movie è una colpa quasi inemendabile, sia perché i personaggi sono tutti bidimensionali, un po’ come quei riferimenti al fumetto che De Maria piazza qua e là – a proposito di anacronismi, il ragazzo che dà una mano a Isola nella falsificazione dei documenti è un appassionato di fumetti statunitensi nella Milano del 1945… –; e così tutto come d’abitudine nel cinema italiano si riduce alla storia d’amore, con addirittura il suo portato di colpe e prese in carico di responsabilità. Un po’ poco, e anche privo di particolare interesse. Come già Freaks Out e ancor più l’atroce C’era una volta il crimine si può apprezzare lo sforzo di riportare il cinema di genere in Italia, ma ci si deve arrendere di fronte alla totale inconsapevolezza di ciò che questo comporta. Se la produzione di genere nazionale ha bisogno di opere come Rapiniamo il Duce vuol dire che si è intrapresa una strada completamente sbagliata, che non potrà portare frutti, e che per l’ennesima volta spingerà il genere nelle retrovie. Il problema non è (solo) Netflix, il problema sono le idee balzane, un sistema di produzione completamente in crisi, una visione del cinema – o dell’audiovisivo, per allargare il campo – asfittica. O si trova una soluzione a questo o forse non ha davvero più senso produrre film.

Info
Rapiniamo il Duce, il trailer.

  • rapiniamo-il-duce-2022-renato-de-maria-01.jpg
  • rapiniamo-il-duce-2022-renato-de-maria-02.jpg

Articoli correlati

Array
  • Festival

    Roma 2022

    Dopo il settennato di direzione di Antonio Monda, la Festa di Roma 2022 cambia gestione con Paola Malanga. Se questo vorrà significare un cambiamento più profondo nell'anima di questa kermesse che non ha ancora trovato una sua identità, solo il tempo potrà dirlo.
  • In sala

    c'era una volta il crimine recensioneC’era una volta il crimine

    di C'era una volta il crimine è il terzo, stanchissimo capitolo della saga inaugurata nel 2019. Una commedia priva di spessore cinematografico e di ritmo narrativo, su cui pesa anche la tracotante velleità di ambientare questa rocambolesca odissea durante la Guerra di Liberazione dal nazifascismo.
  • Venezia 2021

    Freaks Out RecensioneFreaks Out

    di In concorso a Venezia 78, Freaks Out fa impressione per l'investimento produttivo messo in piedi - un vero e proprio kolossal all'italiana - ma allo stesso tempo finisce per deludere nella scrittura e nell'orchestrazione del racconto che procede affannosamente per strappi, maldestri colpi di scena, eccessivi indugi e qualche trovata derivativa.
  • In sala

    Lo spietato

    di Raccontando in modo basicamente coreografico e senza drammaturgia ascesa e caduta di un criminale calabrese a Milano, Renato De Maria in Lo spietato scimmiotta maldestramente lo Scorsese di Quei bravi ragazzi.
  • Venezia 2015

    Italian Gangsters

    di Torna in Orizzonti Renato De Maria con Italian Gangsters, rievocazione delle vicende di sei criminali della nostra storia. Nuova contaminazione oltre le delimitazioni dei generi, ma il lavoro tra ricostruzione attoriale e materiali d'archivio è pretestuoso e poco significativo, e non si tramuta mai in discorso.
  • In Sala

    la-vita-oscenaLa vita oscena

    di Trasposizione dell'omonimo romanzo autobiografico di Aldo Nove, La vita oscena di Renato De Maria è un film squilibrato e irregolare, antipatico e poco riuscito, ma vivo e pulsante, entusiasta. Un alieno nel cinema italiano attuale. Presentato in Orizzonti al Festival di Venezia.