Babylon

Babylon

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Il declino non indolore del muto, l’ascesa del sonoro, la follia e la creatività a briglie sciolte della Hollywood d’antan, il cinema che resta e resterà per sempre, dai grandi classici fino ai mirabolanti blockbuster di James Cameron, passando per le sperimentazioni di Jean-Luc Godard: come altri autori statunitensi, Chazelle mette in scena la sua idea di cinema, di industria, ripercorrendo a grandi linee un periodo storico caotico e fecondo, molto più libero, per poi proiettarsi e proiettarci nel presente e nel futuro. Appassionato, nostalgico, anche polemico e imperfetto, Babylon è un film vivissimo, traboccante talento.

It’s written in the stars

Los Angeles, 1926. Il tuttofare messicano Manuel “Manny” Torres riesce a trasportare, non senza imprevisti, un elefante a una sfrenata festa nella lussuosissima villa di un dirigente dei Kinoscope Studios. Tra fiumi di alcool, droghe di ogni tipo e un’escalation orgiastica, Manny incontra la disinibita e aspirante diva Nellie LaRoy, tanto bella quanto disperata, e si innamora in un istante. La mattina dopo, ancora stravolto, Manny riporta nella sua villa il celeberrimo attore Jack Conrad, alle prese con l’ennesimo divorzio: da quel momento, la vita del giovane messicano, come presto quella di Nellie e di tutta Hollywood, cambia per sempre… [sinossi]
It’s written in the stars,
I am a star.
– Nellie LaRoy.

«Un’industria completamente nuova, creata da criminali, reietti, persone rifiutate dalla società, che vanno a fondare qualcosa di nuovo nel nulla, nel deserto»1. Parte da qui Babylon di Damien Chazelle, dalla polvere, dalla valanga di escrementi di un elefante che non è un cavallo, certo, ma come un cavallo deve essere trasportato. Su, su, su per una strada ripidissima, dissestata, tutta buche e sassi. E poi, fatta l’impresa, l’elefante dovrà irrompere nel bel mezzo di una festa sfrenata, orgiastica, un groviglio di corpi, follia e desiderio. Tutto già visto, certo, basterebbe tornare con la memoria e gli occhi, tanto per fare un esempio, a Caligola di Tinto Brass – ma quelli erano gli anni Settanta e il primo a saperlo è proprio Chazelle, che ha il polso della situazione a Hollywood e dintorni e, un po’ come Jordan Peele, sa che il mostro è in agguato e non è il caso di guardarlo negli occhi.

«Manny è sicuramente un personaggio che ha molti aspetti che mi appartengono». È un po’ ovunque Chazelle, perché Babylon è a suo modo anche autobiografico. Un’autobiografia spettatoriale, cinefila, la storia di una passione che brucia dentro e fuori, a volte pure troppo. Chazelle è Jack Conrad, è Nellie LaRoy, è quel sacro fuoco che arde anche negli occhi di Emerald “Em” Haywood (Nope) e di Sammy Fabelman (The Fabelmans). Da LaRoy a LaBelle, assonanze e coincidenze dell’industria dei sogni, qui un po’ forzatamente multitutto, dal trombettista afroamericano alla didascalista regina della seduzione asiatica e lesbica, ma Chazelle conosce il mostro e sa come tenerlo a bada – forse, visto che il box office ci dice altro, lo scopriremo davvero col prossimo progetto.
Babylon inventa, omaggia, ripercorre, cita con piglio filologico, mescola vero e falso senza indugi, eccede e un po’ si perde – tutta la parte con la malavita, che non ha e non può avere la stessa potenza (cinefila) della macrosequenza dei due set di Manny e Nellie, i loro piccoli trionfi, l’apoteosi della grandeur in costume, il miracolo del cinema che si crea davanti agli occhi della troupe, della macchina da presa e infine degli spettatori. Ma a perdersi davvero erano gli attori, i registi e i vari cineasti del muto, le star che dominavano il mondo e i sogni fino al 1927, fino a Il cantante di jazz (The Jazz Singer) di Alan Crosland, fino al sonoro. Ovviamente non è andata esattamente così, ma il film di Chazelle non vuole essere un saggio, non vuole nemmeno essere The Artist, ma vuole guardare «attraverso un prisma», «andare sotto la superficie» e – aggiungiamo noi – ridare ossigeno a quella fiamma. A questo potrebbe servire Babylon, un po’ come The Fabelmans ma anche Licorice Pizza, a guardare oltre le sovrastrutture generate dalla computer grafica, al di là della serialità che appiattisce, metri e metri sopra l’asticella di un cinema pensato per i polli in batteria: dal passato, dalle immagini miracolose di Cantando sotto la pioggia, riemerge la magia del cinema, la stessa che ritroviamo in JLG e poi in Avatar e Avatar – La via dell’acqua, e che secondo Chazelle continueremo a ritrovare finché il cinema avrà la forza e soprattutto la libertà di rinnovarsi, sperimentare, osare.

Commedia, (melo)dramma, gangster movie, tragedia, sogno e mercificazione dei sogni, ci racconta un po’ di tutto Babylon, con lo stile sempre preciso di Chazelle, un po’ classico e un po’ post-moderno. Perché, ce lo dice lui stesso, il cinema è un continuo riflusso di idee, di immagini digerite e nuovamente intuite, inventate e reinventate. Babylon non è il primo e non sarà di sicuro l’ultimo film sul cinema, perché il cinema da sempre si nutre di se stesso, è un linguaggio cannibale, un metalinguaggio rigenerante, potenzialmente infinito. Lui è Manny, noi siamo Manny. E Nellie LaRoy era veramente una star, come altre attrici (non) lo sono state. Sogni, fantasmi, che bazinianamente muoiono e vivono tutti i giorni, ogni volta che riparte quel fascio di luci. Pellicola o digitale. Effetti speciali o meno. Persino in 3D, ma con moderazione: «Il 3D può fare la differenza nelle mani di James Cameron, magari meno nelle mani di qualcun altro». Ha le idee chiare Damien Chazelle, ha un cuore cinefilo e ha uno sguardo preciso, riconoscibile, coerente. E, scapestrati o meno, sa scegliersi gli attori e i compagni di viaggio.

Note
1 Dall’incontro di Damien Chazelle con la stampa a Roma, Hotel de la Ville, del 16 gennaio 2022 per il tour di presentazione di Babylon. Idem i successivi virgolettati.
Info
Il trailer di Babylon.

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