Toro scatenato

Toro scatenato

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Jake La Motta alias Toro scatenato nella biografia struggente e brutale di Martin Scorsese, che trova nella tecnica cinematografica il suo personale modo di connettere la classicità e la modernità, in un balzello sulle punte che dal ralenti arriva a colpire con un gancio destro il volto dello spettatore. Monumentale, come l’interpretazione di Robert De Niro, qui alla quarta delle nove collaborazioni con il regista italo-americano.

That’s Entertainment!

Storia di Jake La Motta, un duro italo-americano del Bronx che divenne campione mondiale dei pesi medi all’indomani della seconda guerra mondiale. Detronizzato da Sugar Ray Robinson, si ritira a vita privata. Abbandonato dalla moglie, rovinato da una serie di iniziative economiche sballate, La Motta sembra finito. Riuscirà però a trovare un nuovo, seppur modesto successo, come intrattenitore nei night club. [sinossi]

In un passaggio del suo Una claustrocinefilia (e verrà perdonato fare riferimento a un film diretto da uno dei fondatori di questa rivista) Alessandro Aniballi ha una eccellente intuizione, quella di mettere in relazione Toro scatenato con Quarto potere. Cosa lega i due film? Il discorso sull’intrattenimento, la parabola umana, ma anche e soprattutto un dettaglio tecnico: i flash. L’utilizzo del flash come elemento di scena non solo in entrambi i film detta il tempo del montaggio, squarciando l’occhio dello spettatore con un lampo – i due film, qualora qualcuno non fosse avvezzo alla materia, sono fotografati in bianco e nero –, ma diventa anche un modo antiretorico per evidenziare le zone d’ombra che attanagliano i due protagonisti, tanto il magnate Charles Foster Kane quanto il pugile Jake La Motta, il primo costruito sull’ingombrante figura di William Randolph Hearst e il secondo realmente esistito. Sempre Aniballi sottolinea come non sia casuale che La Motta venga mostrato agli inizi della sua carriera nel 1941, proprio l’anno in cui raggiunse le sale il capolavoro di Orson Welles, destinato a mutare per sempre la storia del cinema. Non è questo invece lo spirito con cui Martin Scorsese si approccia insieme al più volte sodale Paul Schrader a Toro scatenato (la prima stesura dello script, affidata a Mardik Martin, venne pesantemente rivista da Schrader che aggiunse degli elementi fondamentali, a partire dalla presenza in scena del fratello del protagonista): se da un lato nelle pieghe della sceneggiatura non è arduo rintracciare il discorso sull’umano, sull’ossessione, sulla colpa e l’impossibile redenzione di Schrader, la regia di Scorsese si muove avanti e indietro nel tempo come stesse saltellando sul ring, con la stessa movenza ora rabbiosa ora leggiadra del pugile La Motta. Scorsese è un fine manierista, un cesellatore ineffabile, un autore in grado di comprendere fino in fondo la potenza di ciò che sta avvenendo in scena e dunque permettere agli eventi di esplodere, di deflagrare in un atto belluino eppur elegiaco, brutale e poetica a un tempo. Ogni inquadratura di cui è composto Toro scatenato afferma una verità e il suo totale opposto. Si prenda ad esempio la circolarità narrativa (di nuovo il rimando a Citizen Kane non è certo peregrino), che parte e arriva a un La Motta invecchiato e imbolsito, commediante di scarso successo e di poca tempra che cerca di sbarcare il lunario intrattenendo quelle persone che un tempo esultavano al suo gancio destro: nel sordido camerino in cui l’improvvisato attore ripassa le battute non solo si rinnova la sfida allo specchio già ingaggiata da Robert De Niro nei panni di Travis Bickle pochi anni prima in Taxi Driver, ma si può intravvedere la luce del palcoscenico (“That’s entertainment!”, sentenzia La Motta) che è ombra dello spirito, e viceversa. Si prendano gli inserti in super-8, unica presenza di colore nella fotografia, che sintetizzano le vicende famigliari ma sono leggibili dallo spettatore come antitetici rispetto alla verità che stanno raccontando.

Si può legittimamente discettare del valore della scelta di un pugile, e dunque dell’arte nobile per eccellenza, quella del ring (e Toro scatenato segnerà un punto di passaggio irremovibile da lì in avanti, perché esiste il pugilato al cinema prima e dopo di lui, e per quanto non manchino com’è ovvio titoli rimarchevoli – Il sentiero della gloria di Raoul Walsh e Stasera ho vinto anch’io di Robert Wise su tutti – nessun film avrà il potere suggestivo pari a quello di Scorsese): si può pensare che stia lì a sostenere un valore metaforico, o che serva come “distrazione” rispetto al racconto intimo del personaggio, o invece che ne sottolinei senza utilizzo di spiegazioni superflue i vari passaggi. Si può ritenere anche che l’intento di Scorsese e Schrader sia puramente biografico, ovviamente. Non che siano riflessioni in fin dei conti così interessanti, perché più ancora che nei film immediatamente precedenti o successivi l’impressione è che tutto, ma proprio tutto, passi in realtà attraverso la macchina-cinema, la tecnica, la costruzione possibile dell’immaginario attraverso la meccanica del mezzo. Così se la fotografia straordinariamente lavorata da Michael Chapman (quei all’ultimo lungometraggio con Scorsese, ma i due lavoreranno insieme sette anni più tardi a Michael Jackson: Bad) sfrutta il bianco per lavorare sullo spazio, oltre a rendere più facilmente digeribile l’emoglobina che scorre a flutti nel corso del film – escamotage, quest’ultimo, che mise in pratica tra i primi Alfred Hitchcock all’epoca di Psyco –, il montaggio della fedelissima Thelma Schoonmaker, che è alla moviola con il regista italo-americano fin dai tempi di Chi sta bussando alla mia porta? (1969), permette a Scorsese di elaborare la propria poetica epica, che parte dalla frenesia furibonda dello scontro fisico – il primo ring, quello del 1941, resta esemplare sotto questo punto di vista – e arriva allo straniamento fuori dai codici del “reale” del ralenti, cifra stilistica che Scorsese nel corso degli anni farà sempre più sua. Sulla linea di mezzeria che divide il cinema classico col moderno – e dunque anche l’Âge d’or dell’industria con le rivendicazioni d’auteur della New Hollywood – Scorsese si muove a balzelli, fondendo l’una e l’altra istanza, rivendicando l’assolutezza del proprio sguardo senza però venire meno ai dettami drammaturgici tipici dell’eroe-antieroe americano in grado di raggiungere vette altissime per poi cadere nel baratro da cui è necessario rialzarsi. Anche l’affidarsi di nuovo a De Niro, qui alla quarta delle nove collaborazioni con Scorsese, sta a testimoniare la volontà di ricreare uno star system, di ridonare vigore all’industria e al suo intrattenimeno – di nuovo, le due facce della verità che si specchiano.

Scorsese filma Jake La Motta come se il suo fosse un unico lunghissimo incontro, tanto sul set quanto fuori, nella vita di tutti i giorni che lo porterà a un matrimonio malatissimo e a una gelosia così ottenebrante da fargli dubitare della fedeltà di chiunque, perfino del fratello – a proposito di star, l’interpretazione di Joe Pesci resta impressa a fuoco nella memoria –, fino alla prigione: lì, nella solitudine della cella, colui che concorreva per il titolo mondiale potrà infine combattere contro sé stesso, in un’intuizione puramente schraderiana che deriva dalla “redenzione limitata” che è uno dei cinque punti del Calvinismo. Jake La Motta vorrebbe rispecchiarsi in Riccardo III, pur accettandone le tragiche conseguenze, ma non riesce a elevarsi dal ruolo di Otello di terz’ordine, ingabbiato sul ring come nella sua casetta borghese che può solo arrivare a sfasciare, esattamente come la faccia del malcapitato di turno contro cui può alzare i guantoni. Se nella surreale redenzione di Travis c’era una bimba da salvare dalla perdizione, che dunque “giustificava” una mattanza mai così veridica – lì il rosso del sangue piomba addosso allo spettatore come quell’indimenticabile plongée che prelude la fine della sparatoria –, in Toro scatenato niente di tutto ciò è possibile. Rimane solo un uomo sconfitto, che non ha più neanche diritto di riflettersi nello specchio. Resta uno spazio vuoto, con la voce fuori campo che continua un incitamento grottesco. Resta l’intrattenimento, quello che nessuna tragedia può spazzar via, perché l’aspirazione della plebe è ancora panem et circenses. «I know I’m no Olivier but if he fought Sugar Ray, He would say that the thing ain’t the ring, It’s the play. So gimme a stage where this bull here can rage. And though I can fight, I’d much rather recite. That’s entertainment!».

Info
Il trailer di Toro scatenato.

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