L’esorcista – Il credente

L’esorcista – Il credente

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L’esorcista – Il credente, nuovo capitolo di una delle saghe horror più famose di sempre, in occasione del cinquantenario del capostipite si pone come suo discendente diretto e ambisce da un lato a solleticare la nostalgia dello spettatore, dall’altro a cavalcare l’onda dei tempi. Il risultato è deludente, confuso ma soprattutto irritante, nel momento in cui si genuflette al “correttismo” a tutti i costi, deprivando l’orrore di tutta la sua capacità perturbante.

She/Devil

Il fotografo Victor perde sua moglie incinta nel terremoto di Haiti. Tredici anni dopo, vive felicemente con la tredicenne Angela, sopravvissuta a quella tragedia. Ma un giorno, sua figlia sparisce nel bosco insieme a un’amichetta. Quando ricompaiono tre giorni dopo, le due ragazze presentano sintomi preoccupanti e via via sempre più inquietanti. Al punto che, alla fine, Victor va in cerca dell’unica persona che forse può aiutarlo: l’esperta in esorcismi Chris MacNeil… [sinossi]

Oramai è tradizione che a ogni anniversario importante del capostipite di un franchise si palesi un remake/sequel/reboot e via dicendo. Stavolta tocca al cinquantenario de L’esorcista (The Exorcist, William Friedkin, 1973). A omaggiare quello spesso viene definito l’horror più spaventoso di sempre, viene convocato nuovamente David Gordon Green, regista proveniente dal cinema indie, che pur non avendo mai girato un film dell’orrore in vita su, si è trovato a realizzare, in occasione del quarantennale, i tre nuovi capitoli della saga di Halloween. E proprio come nel suo Halloween del 2018, anche L’Esorcista – Il credente adotta la strategia di prescindere dai vari sequel per riagganciarsi direttamente all’archetipo, al numero primo. Come a dire: noi qui torniamo alle radici e facciamo sul serio. Benissimo. Cos’è che ha contraddistinto maggiormente i capitoli della saga dell’Esorcista, oltre alla capacità di mettere addosso una paura dannata (specie il primo)? A nostro avviso, il fatto di avere dietro alla macchina da presa dei signori registi, con una loro precisa idea di cinema, con i loro rispettivi discorsi e le loro visioni: William Friedkin, John Boorman, lo stesso William Peter Blatty, autore del terzo capitolo, nonché del romanzo che diede il via a tutto. Infine, Paul Schrader con il suo Dominion: Prequel to the Exorcist (2005; meglio dimenticarsi invece della versione di Renny Harlan che andò in porto l’anno prima). L’interesse, la forza di quei film era la loro capacità di indagare il male, di addentrarvisi e di perdervisi. Che è poi, in buona sostanza, ciò che fa ogni horror degno di tale nome. Perché il male non lo si spiega, ammansisce, addomestica. Soprattutto non lo si adegua.

Ma facciamo un passo indietro. Il film si apre su questa giovane e bella coppia in vacanza a Port au Prince, a Haiti (sequenza girata però nella confinante Repubblica Dominicana). Lui fotografo, lei incinta, entrambi afroamericani. Quest’ultimo fattore, assieme alle immagini quasi documentaristiche, ma anche pervase da una patina solare, calda, non può non far ripensare all’esordio di David Gordon Green, quel George Washington (2000) che all’epoca apparve come un piccolo miracolo di cinema indie, vincendo come miglior film in ben due festival. Ma i due innamorati hanno scelto l’anno sbagliato, il 2010, quando proprio a inizio anno un terribile terremoto di 6.1 della scala Richter provocò circa 230.000 morti. Una di questi, nel film, è proprio la moglie incinta del protagonista, Victor (Leslie Odom Jr.). La quale, prima di morire, si raccomanda al marito affinché protegga la nascitura. Tredici anni dopo, Angela (Lidya Jewett) ha 13 anni ed è una ragazzina apparentemente felice, con un padre che la adora ma che non parla mai della madre, della quale lei invece cerca ancora disperatamente una traccia, un qualcosa. E qualcosa trova, una sera in un bosco, insieme alla sua amichetta (bianca) Katherine (Olivia O’Neill, Marcum nei credits): entrambe scompaiono per riapparire tre giorni dopo, e sono entrambe possedute da un demone. Questa possessione è presentata, inizialmente, come una sorta di stato confusionale o post traumatico, facendo quasi pensare a una nuova strada, quella magari di un’indagine meno effettistica e più “realistica” circa le possessioni (ma per quello c’è già l’ottimo Requiem, 2006, di Hans-Christian Schmid). Ma non sarebbe stato verosimile, visto che a produrre sono la Blumhouse di Jason Blume e la Morgan Creek, che rilanciò la saga in questione a inizio Duemila, e visto che entrambe in definitiva giocano nel cortile della Universal, ovvero la casa dei mostri per eccellenza. E allora che mostri siano. Ben presto infatti la possessione prende tutte le luci su di sé e si appropria dei vari segni distintivi del sottogenere esorcistico: bibbie, crocefissi, voci demoniache, occhi malefici che roteano nelle orbite, teste che ruotano di 180 gradi sul collo, etc. Ma non basta. Siccome abbiamo detto che l’ambizione qui, come nell’Halloween del 2018 e seguiti, è di riappropriarsi del capostipite, se lì tornava clamorosamente in scena Jamie Lee Curtis, qui non poteva certo mancare Ellen Burstyn nei panni di Chris MacNeil. Che è una donna ormai anziana, la quale, dopo aver pubblicato un libro in cui raccontava la sua terribile esperienza, è stata abbandonata dalla figlia Regan (la posseduta “storica”) che non vuole più saperne di lei. Ed è proprio a Chris che Victor, seppur ateo e poco propenso a discorsi di tipo religioso, si rivolge, oramai disperato, quando le cose si fanno ingestibili.

Subito dopo aver compiuto l’aggancio con il film del ’73, premendo sul tasto nostalgia (target assolutamente primario per l’entertainment di questi anni, come sappiamo), L’esorcista – Il credente non vuole restare indietro neanche su quelli che sono alcuni dei temi più caldi e à la page. Ecco perciò che una famiglia nera e una bianca si ritrovano a lottare, dapprima alleate, poi rivali, per la salvezza delle reciproche figlie. Ecco che i preti si rivelano del tutto inutili e anche un po’ vigliacchi, mentre a rubare la scena sono, a parte Victor, tutte donne e solo donne: infermiere-suore mancate, sacerdotesse in odor di New Age e ovviamente la nostra Chris MacNeil, finalmente non più messa da parte dal patriarcato dei preti (la battuta è sua) ma in prima fila contro il demonio. Solo che poi, a ben vedere, anche questa sorellanza, produce ben pochi effetti, e a servire è qualcos’altro. Il tutto però appare molto confuso e velleitario, sul piano della scrittura, così come lo era, del resto, in Halloween Kills (2021) e Halloween Ends (2022), in cui si cercava di aggiornare o addirittura di “elevare” il filone proponendo una lettura sociologica del male, cercando di spiegarne l’origine, di normalizzarlo.

In questo caso, la strategia messa in atto da Gordon Green e dai suoi produttori sembra essere quella di rendere quanto più attuale, trendy e ovviamente inclusivo-barra-correttissimo il nuovo epigono di una saga che vanta precedenti illustri dinnanzi ai quali questo presunt(uos)o sequel/reboot fa davvero una magra figura. Ma almeno fa paura? Poco, ma non è questo il punto. Perché nel suo genuflettersi al wokismo imperante a Hollywood, che vive di moralismi e chiede chiarezza, il film paradossalmente si fa confuso anche nella lettura dello stato delle cose. Ma soprattutto perde di vista la spinta fondamentale della saga in cui si iscrive, che è quella di aprire il vaso di Pandora, esplorare il male, creare disorientamento, terrore. Di farsi perturbante. Nel prefinale (prima dell’ultima sorpresona bomba – si legga: telefonatissima) dobbiamo sorbirci anche un pistolotto in voice over che pretende di spiegarci una volta per tutte, anche qui, che cosa sia il male, esplicitando la morale della fabula. Devitalizzandola.

Info
Il trailer de L’esorcista – Il credente.

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