Giona A. Nazzaro, cinema politico e politiche del cinema

Giona A. Nazzaro, cinema politico e politiche del cinema

L’ultimo giorno della Mostra di Venezia, come d’abitudine, abbiamo incontrato Giona A. Nazzaro, il delegato generale della Settimana Internazionale della Critica. Partendo dalla selezione del 2018, che ha visto trionfare lo splendido Still Recording, ci siamo spinti a fare un bilancio di questo triennio della SIC ma anche dello stato del cinema, e delle politiche che lo riguardano tanto a livello nazionale che internazionale. Un’occasione per parlare di politica, e di politiche estetiche e produttive.

Cominciamo dal film vincitore, Still Recording. In che momento della selezione è arrivato?

Giona A. Nazzaro: Stava lì da tre anni, nel senso che questo film l’ho visto tre anni fa a Qumra, organizzato dal Doha Film Institute, dove è arrivata la montatrice Rania Stephan che aveva presentato delle scene per la durata complessiva di venti minuti. Tutti gli altri tutor che stavano lì dicevano che quel film non aveva una struttura, che era impossibile montare una roba così. Lei diceva: pensavamo anche di stare in una durata abbastanza lunga. E le veniva risposto che nessun festival avrebbe preso un film come quello, per di più lungo. A quel punto entro a gamba tesa e dico: no, lo prendo senz’altro io. Ma questa cosa che era un po’ una boutade, era comunque un gesto fatto per incoraggiare quella che era la prima montatrice del film. E comunque mi avevano veramente colpito quei venti minuti che avevo visto, e quindi siamo rimasti in contatto per questi tre anni. E ingenuamente pensavo che loro riuscissero ad arrivare alla SIC già il primo anno, ma non ce l’hanno fatta. Quindi la lavorazione è andata avanti, è passato tutto il secondo anno, e io mi scrivevo sempre con lei, anche perché i registi alla fine li ho conosciuti qui, non li avevo mai incontrati prima. E lei mi diceva: No, è difficile, il produttore non sa bene cosa fare. Però ogni volta che cominciavo a pensare alla selezione successiva questo film mi ritornava, per cui quando sono stato a Beirut per altri ragioni le ho detto: Sono qui, vediamoci. Sono andato in studio e lei mi ha fatto vedere un’altra versione ancora, che onestamente non mi convinceva tanto, ma il problema è che loro erano ormai talmente dentro al progetto e non riuscivano proprio a uscire. E allora, essendo un teorico dell’idea che se sei sotto pressione pensi meglio rispetto a quando stai rilassato, le ho detto: Facciamo così, entro una tot data, mi dai un rough cut, se invece non me lo mandate entro quella data non vi prendo. E non è che avevo fatto una promessa, avevo detto semplicemente: Lo guardo per considerarlo. Non avevo detto: Vi prendo. Perché pensavo che se di questo film non capisci bene cosa succede e chi fa cosa rispetto a quel che si vede in scena, è difficile. E tenete presente che io l’ho visto sempre senza sottotitoli, cioè con delle persone che mi dicevano: questi sono i ribelli, qui siamo a Douma, questa è l’accademia, oppure qui stanno pensando di organizzare questa cosa o quest’altra. Quindi vedevo solo le immagini, non sapevo cosa dicessero. E quindi è nato così. Poi i due registi avevano delle idee molto diverse sul montaggio. Ah, in tutto questo all’altezza del primo e del secondo anno avevo scritto una lettera, dichiarando l’interesse della Settimana della Critica, indirizzata a vari fondi per sostenere il progetto. E questa lettera è entrata a far parte del dossier che loro inviavano per cercare finanziamenti. E poi, a ogni rough cut che mi mandavano, io rispondevo con le mie osservazioni, e quindi quando poi Ranja si è allontanata dal progetto per questioni di esaurimento fisico, perché dopo cinque anni non ce la faceva più, loro hanno mandato il lavoro alla persona attualmente accreditata come montatore e il montatore ha fatto riferimento, me lo dicevano ieri, anche ad alcune mie indicazioni. Non è insomma un film che è arrivato finito, anzi è il film che abbiamo seguito di più. Ma non è l’unico caso, nel senso che Touch Me Not l’avevo seguito, per dire, quando ho incontrato la regista a Sarajevo anni fa e le avevamo dato un premio per la post-produzione e anche lì c’era stata questa speranza di averlo da noi alla Settimana. Poi loro sono andati a Berlino e hanno anche vinto. Poi un film che sta qui a Orizzonti, quello di Soudade Kaadan (The Day I Lost My Shadow, N.d.A.), anche quello è un film che ho seguito per moltissimo tempo permettendomi anche dei consigli molto precisi sul montaggio. Faccio questi esempi per dire che una serie di questi film negli anni li abbiamo seguiti. Quest’anno nessun film che abbiamo presentato qua lo abbiamo visto finito, locked in selezione. Comunque tutti i film sono stati presi in uno stato molto avanzato di lavorazione, però non chiusi. Lavorare così è più interessante, perché hai la possibilità di entrare molto meglio nel film che stai per prendere o meno rispetto a un banale “mi piace” “non mi piace”.

Si crea anche una dialettica, in questo modo.

Giona A. Nazzaro: Sì, tra l’altro senza mai imporre nulla. Ma cercando di dare dei consigli.

Tornando a Still Recording, non c’è mai stato un dubbio sul fatto che comunque non era un film di finzione?

Giona A. Nazzaro: No, è il primo documentario in tre anni di selezione, e comunque non c’è mai stato nessun dubbio in proposito. Poi, non voglio fare il solito discorso, ma per me il documentario non esiste. Piuttosto, la cosa che mi preoccupava è che, siccome volevo avere anche il controcampo di persone fidate di quella zona, di quell’area geografica, avevo fatto vedere il film anche a quelle persone lì, e loro erano un po’ perplesse, perché dicevano: Non si capisce un granché di quello che succede. Allora questo mi aveva un po’ creato dei problemi, perché la cosa che volevo evitare era di rimandare l’idea che il conflitto fosse incomprensibile e quindi perpetuare l’idea che quando ci si uccide da quelle parti è normale che non si capisca nulla perché sono dei barbari e hanno sempre fatto così. Allora questa cosa mi dava molte preoccupazioni. Il produttore è poi lo stesso che ha prodotto anche Taste of Cement, quindi quando ci siamo incontrati a Visions du Rèel a Nyon ne abbiamo parlato, perché quando quel film vinceva l’edizione 2017 di Vision du rèel, io stavo già seguendo Still Recording. E allora io gli ho detto: la mia unica preoccupazione è che bisogna davvero tentare di capire da quale angolazione raccontare quello che sta succedendo. Quella era l’unica remora, insomma. Quando prendi un film così, tu ti fai carico di tutte le persone che non possono vederlo per ovvie ragioni, quelle persone che non possono vederlo non ci sono più per una ragione specifica, che è politica, storica, non perché è caduto qualcosa dal cielo e quindi per me era importante che il film riflettesse le condizioni storiche in cui era nato. E loro hanno fatto un lavoro straordinario affinché queste condizioni emergessero.

Tra l’altro il fatto che sia anche chiaro quello che accade lo dimostra anche il Premio del Pubblico, perché all’interno della selezione c’erano probabilmente film più “semplici”.

Giona A. Nazzaro: Una cosa che mi ha molto impressionato, per esempio, è che c’era una scena in cui loro facevano il cous cous praticamente con niente, l’equivalente delle nostre “paste col nulla”, e la piadina era stata sostituita dalle foglie di verza, e loro stavano al buio a mangiare questo cous cous col nulla mentre fuori cadevano le bombe. Poi a un certo punto c’è uno che si accende una canna… Ecco, tutte queste situazioni di quotidianità mi avevano molto colpito.

Bè, per esempio c’è la scena in cui un militante parla via radio con un soldato di Assad che va proprio in quella direzione…

Giona A. Nazzaro: Lì percepisci esattamente la propaganda che si stratifica in quello che accade. Uno rimprovera all’altro cose che nessuno dei due ha visto. Non è che non ci stanno i russi, gli israeliani o tutto il resto. Però dato che è una guerra di posizione, con armi a lunga gittata, non è che vedi il tuo “avversario”.

In sala all’ultima proiezione c’era anche una madre con una bambina che avrà avuto sette o otto anni. A un certo punto la madre ha chiesto alla bambina se si stesse annoiando e volesse uscire. E lei ha risposto “no, voglio vedere cosa succede a questi ragazzi”.

Giona A. Nazzaro: Questa è la sua forza. Inoltre, la cosa interessante del film è che nonostante tutto ha un senso dell’umorismo. Non si coglie subito ma c’è. Quando il tizio si vuole rubare il megaschermo nell’ufficio delle poste, per esempio, sembra di vedere una commedia italiana. Così come quando fanno “l’esecuzione dell’alcool” e loro sono lì agghiacciati a dire “ma cosa state facendo?”. E poi c’è un altro aspetto che a me interessava, però l’ho scoperto dopo e per fortuna Saeed è stato così acuto da riportarlo: non è che i ribelli sono Daesh e quel carnefice di Bashar al-Assad è l’unica possibilità per questa gente. Tra Bashar al-Assad e Daesh c’è la democrazia. C’è un popolo. E quello è fondamentale. Mi raccontava Saeed sorridendo che suo padre è un vecchio comunista staliniano ed è stato a capo della Cineteca di Damasco. In Siria c’era una borghesia colta che è stata spazzata via, ed è un ulteriore problema. L’altra motivazione di fondo è che odio quando sento dire “ah, ma gli arabi”, come se esistesse questa massa indistinta di arabi, “devono alzare la voce e dissociarsi dall’Isis”, continuando a chiamarlo Isis e non Daesh (e l’Italia è l’unico paese dove accade questo, dimostrando un’altra grossa mancanza nei confronti delle persone che subiscono questa violenza). Ma perché mai dovrebbero dissociarsi pubblicamente? Le azioni di Daesh non definiscono certo altre persone al di là di loro stessi. E poi voi dove siete quando queste persone che tanto criticate agiscono? Ad esempio, a Tunisi se entri nella libreria che è proprio sul viale principale della città trovi tutti i libri di filosofi tunisini, di scrittori e di scrittrici. La nostra cultura si rende conto che nei paesi arabi esiste una grande intellighenzia che lavora, visto che sono loro le prime vittime di questa lotta? Quindi per me era fondamentale, avendo a disposizione questo film, di far vedere alla gente che non è come la maggioranza pensa.

Allargando il discorso al resto della selezione, ci sembra che la riflessione che hai appena fatto rientri anche in altre scelte. Pensiamo al film di chiusura, Dachra, peraltro il secondo film tunisino in tre anni alla SIC, a The Roundup che è il primo film sudanese della storia della Mostra, ma anche a un’opera come Tumbbad che svela un altro lato possibile del cinema e dell’immaginario indiano. La direzione appare ben chiara: mostrare delle realtà che ragionano per prime loro stesse sull’immaginario senza subirlo.

Giona A. Nazzaro: Avete colto perfettamente il punto. Mi sono stancato di questa classe intellettuale estremamente pigra che pensa di dare lezione alle persone che la Storia la vivono quotidianamente sulla loro pelle rischiando perfino la vita. Credo sia intollerabile. Ora, questa non è una selezione “militante”, perché l’abbiamo fatta tenendo sempre presente un principio di piacere: a noi questi film piacevano perché si confrontavano con le contraddizioni dei propri paesi attraverso la forma del cinema. Mettendo in campo le idee, il poetico contro il politico. Questa è la grande lotta, no? Io prendo il poetico e lo espongo a quello che succede. Non come in occidente dove accade che scrivo la sceneggiatura sulla persona X che perde il lavoro e faccio il grande film “di sinistra”, con il grande attore o la grande attrice. A me quella roba lì non interessa. The Roundup esiste perché Hajooj Kuka è vicino ai ribelli; non impugna armi ma documenta con la videocamera quello che fanno i ribelli. Quando c’è stato un problema politico tra lui e i ribelli, questi ultimi gli hanno ri-arruolato gli attori, mettendo a repentaglio il film. Quindi per riavere gli attori e chiudere il film c’è stato un lavoro politico che ha fatto sì che quella frattura si risanasse. Tutto questo all’interno di una tregua che dura tre mesi, come afferma il film, il tempo della stagione delle piogge. Poi quando torna il bel tempo si riprende a combattere. E chi ha notato in Italia che poco prima della Mostra di Venezia in Sudan c’è stato un massacro in cui hanno perso la vita più di duecentocinquanta bambini, dati al rogo? Chi ne ha parlato in Italia? Praticamente nessuno. Quello che voglio dire è questo. I film li abbiamo scelti perché ci piacevano, ma è anche una selezione che abbiamo fatto tenendo presente che siamo nel 2018. Nel 2018 dell’Europa di Visegrad, del protezionismo trumpiano, di uno dei peggiori ministri degli Interni dai tempi di Tambroni, e così via. Il cinema non è politico solo quando lo dichiara in maniera aperta. Per esempio Bêtes blondes non è un film politico, eppure il modo in cui va contropelo rispetto a tutta la produzione del cinema francese dice delle cose, anche considerando il fatto che è stato prodotto interamente con i soldi del produttore, senza nessun tipo di sostegno “altro”. Per noi era importante rimarcare un punto: la SIC non sta con gli occhi bendati. M per esempio è il nostro contributo al fatto che sovente il punto di vista femminile rimane all’interno di categorie del maschile. Questo è un film abrasivo, che può piacere o anche non piacere, ma che mostra una donna che si è fatta carico di tutto dall’inizio alla fine. Ed è una cosa 100% irriducibile ad altre categorie che non siano quelle della persona che l’ha fatto e vissuto sulla propria pelle. Questo è il nostro contributo al discorso che si sta facendo in questi tempi. Mi rendo conto che un film come M rischia di avere un’emorragia di pubblico dalla sala, ma se questo è il tempo per cui per la prima volta c’è un’attenzione e una necessità di rimettere in gioco il rimosso del femminile e del femminino, io M non posso lasciarlo fuori dalla selezione.

Però proprio seguendo il discorso che stai facendo Saremo giovani e bellissimi di Letizia Lamartire sembra un po’ più tradizionale, e non osa quello che sembra promettere…

Giona A. Nazzaro: Capisco il punto di vista e mi rendo conto che all’interno di una selezione possa sembrare fuori quadro, ma il film italiano ha comunque anche altri parametri di contestualizzazione, che sono quelli della produzione nazionale. Rispetto a quest’anno, con le opere prime che erano in gioco, il film di Letizia Lamartire ci è sembrato particolare. Innanzitutto, va oltre i parametri standard del film “di periferia”: il film napoletano, il film romano, il film siciliano. È un film ambientato in un altro ambiente, quasi un altro mondo, Ferrara, ed è il film di una ragazza che vuole raccontare delle storie. Anche rispetto all’industria osa fare qualcosa di un po’ diverso, perché mette in scena la storia di un figlio e di una madre che hanno un rapporto estremamente ambiguo e lo fa in un paese come l’Italia dove la mamma è comunque un’istituzione intoccabile. Ci sembrava che fosse degno di attenzione che una ragazza riuscisse a toccare questo argomento e a farlo attraverso un film che ha delle canzoni ma non è un musical, ha degli aspetti di commedia ma non è una commedia, e che racconta personaggi spezzati, disillusi, che vivono in maniera precaria e senza soldi.

Ma il film vi è arrivato già chiuso?

Giona A. Nazzaro: No, no. L’anno scorso Letizia ha fatto questo bel corto che si intitola Piccole italiane e lo abbiamo selezionato a SIC@SIC. Ci siamo tenuti in contatto e lei mi ha detto che stava iniziando a girare. Sono andato sul set a vedere cosa stava succedendo e nella leggerezza con cui Letizia si muoveva e si relazionava agli attori mi era parso di cogliere una grande chiarezza di idee. Quando poi ho visto il primo montaggio le ho chiesto di farmi avere al più presto una versione definitiva. Mi fa piacere che attorno al film e alla sua uscita in sala si sia creata una certa curiosità, perché lei è giovane e un riscontro in sala potrebbe far bene a tutta la filiera. Significherebbe che si può tentare qualcosa di diverso sia come storie che come scelta delle location.

Uscendo un attimo dalla SIC e ragionando sugli esordi visti alla Mostra trovi che ci sia una consonanza di qualche tipo tra il film di Letizia Lamartire e Un giorno all’improvviso di Ciro D’Emilio?

Giona A. Nazzaro: Il film di Ciro D’Emilio è molto buono. A me piace parecchio e ritengo che l’interpretazione della Foglietta sia molto interessante. Credo sia senz’altro vero che possa esistere un mood che spinge a una messa in discussione dei rapporti madre-figlio così come sono stati consolidati nel racconto cinematografico italiano nel corso degli anni.

Domanda a bruciapelo: sei soddisfatto?

Giona A. Nazzaro: Certo che sono soddisfatto, è evidente che sono soddisfatto. Lo sono perché presentare qui Dachra, o il fatto che Still Recording vinca il FIPRESCI oltre al Premio del pubblico, e vada via dal Lido con ben cinque premi nel complesso, dimostra la bontà del nostro lavoro. I film che vanno via dalla SIC se ne vanno con un viatico di successo. Tumbbad è già prenotato da una ventina di festival da qui a fine anno, The Roundup ne ha già quasi quindici fissati, e via discorrendo. La soddisfazione è pericolosa perché rischia di diventare autocompiacimento e di far perdere la concentrazione. Credo si funzioni meglio stando sotto pressione.

Ti va di fare un bilancio di questo triennio come delegato generale?

Giona A. Nazzaro: È un po’ imbarazzante fare un bilancio, perché sembra una cosa di autopromozione. Credo però che i risultati siano sotto gli occhi di tutti. Il mio primo anno ci furono poco meno di 340 iscrizioni per la selezione, quest’anno siamo arrivati a 510. La rassegna stampa che riguarda la SIC è aumentata a dismisura e siamo su tutti i trade. Abbiamo attivato la collaborazione con Cinecittà e Istituto Luce, e quest’anno abbiamo reso la SIC@SIC competitiva coinvolgendo Stadion Video, Frame by Frame, Fondazione Cinema Fare Cinema di Bobbio. Abbiamo coinvolto la Settimana della Critica di Berlino a venire a vedere i nostri cortometraggi. Credo che sia stato fatto tutto quello che si poteva fare senza gravare sul Sindacato per diffondere quanto più possibile il marchio della SIC. Adesso i venditori guardano la line-up dei nostri film appena la annunciamo. Dachra è stato comprato da Celluloid Dreams, per esempio. Quello che ci ha fatto nell’ultimo anno Les garçons sauvages di Bertrand Mandico in termini di promozione è difficile da quantificare. Per non parlare della presenza negli altri festival dei nostri film. I nostri film sono stati ovunque, in luoghi prestigiosissimi. E anche quelli che hanno viaggiato relativamente di meno poi si sono trovati finalisti in Biennale College o altrove. Secondo me non poteva andare meglio. Per esempio, i film francesi che abbiamo avuto qui sono stati tutti sostenuti e appoggiati dalla stampa specializzata francese. Quando sono sul palco in Sala Perla e alzo lo sguardo verso la platea so di incrociare anche lo sguardo di programmatori e direttori di festival, perché c’è curiosità. Sono risultati importanti, che si ottengono perché si fanno scelte di un certo tipo. Non sono un ingenuo, so benissimo che alcuni film continueranno a svuotare parte della sala, anche se in cuor mio spero sempre che non accada. E la prima mondiale è sempre particolare, gli stessi registi a volte non sono consapevoli al 100% di ciò che hanno portato a termine. Il pubblico entra in sala a Venezia a vedere M e non ha idea di cosa si tratti. Qualche mese dopo, in un altro festival, la gente che andrà a vederlo saprà benissimo cosa aspettarsi e sarà proprio quello il motivo che li spingerà in sala. E che ne determinerà il successo.

Gli anni scorsi ci dicevamo che la SIC era territorio del cinema di ricerca anche perché altrove nella Mostra questo aspetto non risvegliava un interesse particolare. Credi ancora che sia così?

Giona A. Nazzaro: Capisco quello che volete dire, ma non credo di avere l’esclusività di nulla. I film che scelgo li scelgo perché credo in loro e ritengo, anzi riteniamo, che quei film debbano far parte di una discussione più alta e larga. Poi noi siamo la Settimana della Critica, e dobbiamo tenere un determinato atteggiamento. Fa parte del dna della nostra sezione. Io conosco molto bene i consulenti che lavorano con Barbera e sono tutte persone estremamente competenti. Al di là di tutto io non credo ci sia altro modo di lavorare, perché tu non prendi solo un film, tu crei delle relazioni. Il film, che è fondamentale, è parte di un processo più ampio. Ho visto poche cose fuori dalla SIC, per questioni di tempo, ma ciò che ho visto mi è piaciuto molto. Ho visto Introduzione all’oscuro di Gaston Solnicki, che è un ottimo film. E credo che The Nightingale di Jennifer Kent sia uno dei migliori film selezionati in tutti gli anni di Barbera. È un film magnifico.

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Il sito della Settimana Internazionale della Critica.

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