Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo

Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo

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Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo segna il ritorno in scena dell’archeologo più famoso della storia del cinema a diciannove anni di distanza da L’ultima crociata. Trattato con sufficienza al momento della sua uscita nelle sale il film testimonia una volta di più la ricerca di un rapporto con il “classico” all’interno del cinema di Steven Spielberg.

New Adventures in Hi-Fi

1957 deserto, nel pieno della guerra fredda. Indy e il suo compagno Mac sono appena sfuggiti ad un agente sovietico. Rientrato a casa, il Marshall College, il professor Jones scopre che il suo lavoro è stato messo sotto sorveglianza dal governo che sta facendo pressioni sull’università per mandarlo via. Sulla sua strada Indy incontra un giovane ribelle, Mutt, che gli propone di unirsi a lui nella ricerca di un importante oggetto archeologico, il Teschio di Cristallo di Akator, oggetto di venerazione e paura. [sinossi]

Diciannove anni, questo il tempo che è stato necessario per far sapere a tutti che L’ultima crociata non era davvero l’ultima: dopo un’infinita ridda di ipotesi, tra titoli più o meno credibili, annunci di lavorazioni in corso cui non fu mai posta la prima pietra e “svaghi” d’altro genere per i dipendenti in crisi d’astinenza (serie televisive, videogiochi, pupazzi e modellini d’ogni forma e dimensione), nel maggio del 2008, al Festival di Cannes, arriva infine Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo. Ed è un ritorno di fiamma in piena regola, visto che la sacra triade Lucas/Spielberg/Ford (ideazione/realizzazione/incarnazione) è presente al cento per cento. Diciannove anni in cui queste tre figure centrali per la ri-creazione dell’immaginario hollywoodiano degli anni Settanta e Ottanta si sono frequentate solo in maniera occasionale: Lucas ha rimesso mano in tutti i sensi alla sua creatura più cara, la galassia lontana di Star Wars, dapprima aggiornando i tre capitoli “centrali” e poi dirigendo in prima persona tre prequel, in gran parte disconosciuti dagli appassionati e poco apprezzati anche dalla critica – con l’eccezione forse del capitolo terzo, La vendetta dei Sith –; Ford si è mosso nell’universo autoriale non disdegno del blockbuster, tra Sydney Pollack e il sublime Zemeckis de Le verità nascoste, rarefacendo notevolmente le proprie apparizioni con l’ingresso nel nuovo millennio; Spielberg infine ha sfruttato il ventennio senza Indy prendendo in maniera forse definitiva posto sullo scranno più elevato di Hollywood, unico regista in grado di gestire allo stesso tempo la grandeur spettacolare, la necessità ludica e perfino la stratificazione autoriale – con lui il solo Zemeckis, che non a caso può essere considerato un suo fedele adepto. Per quanto l’attesa nei confronti della nuova avventura dell’archeologo più famoso della storia del cinema – e forse del più famoso tout court, con l’eccezione solo del dilettante Heinrich Schliemann – fosse notevole, Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo venne accolto con una certa freddezza fin dalla sua apparizione sulla Croisette. Per quanto figure centrali nel pantheon critico statunitense come Roger Ebert e Leonard Maltin espressero pareri positivi, in molti lamentarono di non aver ritrovato nel film l’alchimia sprigionata dai tre capitoli precedenti. Considerato però che se si esclude Il cavaliere oscuro, il quarto “Indiana-movie” fu il più grande successo commerciale a livello mondiale del 2008, è difficile pensare che la Lucasfilm abbia pianto lacrime sui dubbi della critica. Sarcasmi dal vago sapore hitchcockiano a parte, a oltre dieci anni di distanza dalla sua realizzazione è forse arrivato il momento di approcciarsi a Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo con uno sguardo più lucido. Perché fin dall’incipit è possibile cogliere il senso, ancora una volta coerente, dell’operazione.

Il film si apre, dopo il logo scintillante di Lucasfilm, su quello della Paramount, e lo spettatore avveduto sa già che in dissolvenza il First Majestic Mountain si trasformerà nella prima inquadratura. Ne I predatori dell’arca perduta diveniva il profilo delle Ande peruviane; ne Il tempio maledetto riecheggiava – in tutti i sensi – intagliato nel bronzo di un gong in un night club di Shanghai; ne L’ultima crociata è una propaggine rocciosa del deserto dello Utah. Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo propone una versione più prosaica e sarcastica: il glorioso logo è infatti il montarozzo di terra da cui fuoriesce curioso e un po’ spaventato un cane della prateria. Elvis Presley, tanto per ribadire il concetto, canta Hound Dog mentre una macchina con a bordo degli adolescenti sfreccia a tutta velocità nel deserto del Nevada, ingaggiando una gara con una fila di camion militari. La sfida non avrà una conclusione degna dell’agone, perché la carovana militare svolta cambiando direzione: al contrario dei giovanotti ha un programma da seguire, e non può sgarrare. In appena un paio di minuti Spielberg, sorretto anche dalla sceneggiatura di David Koepp (che lavora sul soggetto scritto a quattro mani da Lucas e Jeff Nathanson, quest’ultimo in buona sostanza chiamato, come Koepp, a svecchiare l’immaginario dei sessantenni Lucas e Spielberg), segnala anche ai più disattenti i riferimenti ideali del suo film, e in senso più esteso del suo Indiana Jones – che come tutte le icone i fan credono di possedere: in tal senso è sempre valido il discorso intrapreso da Stephen King in Misery non deve morire. C’è la gara automobilistica, che rimanda alla sfida del coniglio di Rebel Without a Cause (o Gioventù bruciata che dir si voglia); c’è lo sfondo monumentale della natura selvaggia, a ricordare che fordiani si nasce, non lo si improvvisa; c’è perfino il ricordo della serie La natura e le sue meraviglie prodotta dalla Disney negli anni Cinquanta, e in particolare di Deserto che vive. C’è, infine, il gioco tutto interno alla mitologia lucasiana, con la vettura su cui scorrazzano i ragazzi che è in tutto e per tutto uguale a quelle che si rincorrono in sfide addirittura mortali nella Modesto di American Graffiti. Quelle macchine su cui correva anche un giovane Harrison Ford. Ancora una volta le avventure di Indiana Jones “servono” a Spielberg per raccordarsi con il classico senza accettarne le comodità reazionarie ma tentando sempre di allargare il campo dello sguardo, cercando traiettorie mai usurate. Ford, la Disney, Nick Ray, l’insorgere – seppur nostalgico – della New Hollywood: queste le direttrici dell’ottica del film, che affronta l’avventura senza dimenticare l’umano, sapendo di dover maneggiare il gioco ma cercando di riscoprire sempre le proprie origini, le stesse in qualche modo va cercando un archeologo, nel rapporto tra il moderno e l’antico.

È facile, in qualche modo, decidere di tenersi a distanza da Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo: in un mondo che ha proceduto in avanti cercando sempre nuove ipotesi in un’adulazione tecnocratica, il classicismo esasperato di Spielberg appare quasi come una reliquia del passato, un credo superato dal tempo – quel tempo che il regista annulla nella sequenza dell’incontro con gli alieni. Ci si può lamentare del ritmo, della scelta di ricorrere a stratagemmi già sfruttati (il doppio gioco, l’attrazione per la “bella nemica”, in questo caso sovietica, il rapporto genitore-figlio), eppure ogni esasperazione del linguaggio avventuroso, a partire dall’assai criticata sequenza del fungo atomico, è lì a suggerire la volontà da parte di Spielberg di continuare ad aver fiducia nel proprio immaginario, a ribadire l’avamposto di una visione del mondo – e del mondo-cinema – che non si lascia lusingare dalle modernità e allo stesso tempo non le rifiuta, sfruttandone la potenza espressiva per continuare a percorrere le strade polverose di sempre: Indiana vive nel tempo ma lo subisce più che attraversarlo (l’ostilità del governo, la stanchezza di doversi confrontare con le pastoie della Storia, lui che dell’eternità della Storia ha fatto il suo impiego quotidiano), eppure non è un eroe crepuscolare. Anzi, gli basta ritrovarsi nel bel mezzo dell’agone per rispolverare una volta ancora il ghigno a mezza bocca che l’ha reso celebre in tutto il mondo. Chi si aspetta sorpresa da questo quarto capitolo potrà anche ritrarsi deluso o infastidito, ma dimostrerà di non aver mai davvero compreso in fondo il senso del personaggio e del suo sviluppo nel corso della saga. Oltre a questo non si può non ammirare la maestria registica di Spielberg, la qualità naturale delle sue scene d’azione – il combattimento tra jeep in corsa, la già citata fuga dall’atomica, il superamento delle cascate –, che appaiono come oggetti d’arte in veloce movimento, estasi coreutica che può fare a meno del senso strettamente narrativo. Lì il peso dell’età di Ford viene meno, come mancasse la gravità, come si galleggiasse nello spazio, in un mondo alieno. Quel mondo imperfetto e umano, limpido e avventuroso, in cui da sempre si agita il cinema di Spielberg, l’unico vero tycoon poeta della storia del cinema.

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Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo, trailer.

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