La grande abbuffata

La grande abbuffata

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Opera maledetta e scandalosa, come del resto tutto il cinema di Marco Ferreri, La grande abbuffata rappresenta l’atto di morte di una borghesia decadente, che si consuma nell’opulenza e nei lussi di cui ama circondarsi. Il regista costruisce un meccanismo di autodistruzione ‘metabolica’, in un film che funziona come un continuo baccanale di cibo ingurgitato, sesso sfrenato, secrezioni corporee e flatulenze.

L’ultima indigestione a Parigi

Quattro uomini agiati (i cui nomi sono quelli degli attori che li interpretano), decidono di suicidarsi chiudendosi in una casa nei dintorni di Parigi per mangiare fino alla morte. Sono Ugo, un ristoratore, Michel, un produttore televisivo, Marcello, un pilota civile, Philippe, un magistrato che vive ancora con la sua balia d’infanzia. I quattro si recano alla villa, di proprietà di Philippe, dove cominciano la loro abbuffata. Arriva una scolaresca che vorrebbe visitare il giardino per vedere il famoso “tiglio di Boileau”, albero sotto il quale il poeta francese era solito sedersi per cercare l’ispirazione. I quattro accettano e conoscono la maestra Andréa, che decide di rimanere con loro fino alla morte di tutti e quattro. [sinossi]

Negli anni Settanta il cinema produce opere disturbanti, che si spingono a livelli di trasgressione fino ad allora impensabili, accomunate da un sentimento di “épater la bourgeoisie”, uno spirito corrosivo indigeribile per la società dell’epoca, come di oggi, tanto che alcune subirono il forte ostracismo delle autorità, con processi, censure, tagli. Film come Ultimo tango a Parigi, Salò o le 120 giornate di Sodoma, lo stesso Novecento rappresentano l’inquietudine di quegli anni, la maturità dei loro autori ma anche un’apertura produttiva e una voglia di osare del cinema. Si poteva quindi azzardare una distruzione del sistema che non fosse più quella gentile, come definita poi da Fassbinder, di Douglas Sirk. Un clima che sarebbe poi tramontato con il conformismo e l’omologazione del decennio successivo. Rientra pienamente in questo spirito caustico, con non poche analogie con i film già citati, La grande abbuffata (La grande bouffe è il titolo originale del film che è una coproduzione franco-italiana) dove Marco Ferreri dispiega tutto il suo sarcasmo e la sua ferocia nei confronti di una società borghese capitalista marcia, con la sua opulenza, la sua bulimia e in definitiva la sua vacuità.

La grande abbuffata funziona come un lungo baccanale, un’orgia sadiana di cibo, sesso, escrementi, flatulenze e morte. Tutto si consuma all’interno dello spazio della lussuosa villa di inizio Novecento, piena di cimeli come un wunderkammer, il cui atrio è dominato da un grande diorama di uccelli imbalsamati. È un ecosistema cristallizzato in una teca così come l’ecosistema umano contenuto in quell’edificio signorile parigino, in cui alcuni dei protagonisti finiranno la loro esistenza come mummificati o ibernati, come la donna scimmia (o come il cagnolino imbalsamato che conserva Mario di Break Up). Fissati come le statue che adornano il giardino della dimora, con la loro carica sensuale ed erotica (Marcello palpa i glutei di una di queste, toccando contemporaneamente quelli molli di Andréa, mentre le foto erotiche d’altri tempi, che vengono proiettate nella villa, vengono paragonate alla Pietà di Michelangelo). La dimora riproduce un concentrato di universo borghese che si fonda su opulenza e sprechi, in cui confluiscono le risorse alimentari, il camioncino che porta la carne dal macello, in grandi tagli o anche dei capretti interi, destinata a essere trasformata in cibi prelibati, in una catena alimentare che non si chiude. Il flusso di carne in ingresso continua anche oltre la morte dei personaggi e finirà per ornare quel giardino, come delle nuove sculture, tra statue, cani, oche, pesci e alberi secolari testimoni della storia, il tiglio amato dal poeta barocco secentesco Nicolas Boileau. E la villa diventa anche una grande cloaca, nella scena in cui esplode il water spandendo liquami ovunque. Quella dimora, che Ugo definisce decrepita e romantica, vede un viavai di persone, il custode Ettore, il cinese, la scolaresca, il furgone con la carne, ma i protagonisti non riusciranno a uscirne, imprigionati come i personaggi di L’angelo sterminatore. Marcello, il pilota, ci prova due volte con quella auto d’epoca, la Bugatti, per cui prova un legame feticistico, usandone il cofano tanto per mangiare come per fare sesso. Ma non ci riesce, come nel film di Buñuel, venendo come bloccato o, la seconda volta, morendo. E così anche Michel si fermerà prima, quando salirà sulla sua vettura.

Nel prologo del film i quattro amici protagonisti sono come abbozzati. Ciascuno di loro porta lo stesso nome dell’attore che lo interpreta, attori molto famosi che già, a parte Noiret, avevano lavorato con Ferreri. E il nome viene enfatizzato anche per Andréa Ferréol, scritto su un piatto a lei dedicato, mentre poi le verrà dedicata anche una torta. I personaggi riportano forse qualcosa del loro vissuto, è nota per esempio la grande passione da gourmand di Ugo Tognazzi che nel film è un ristoratore e cuoco. L’attore avrebbe anche raccontato che La grande abbuffata potrebbe essere stata ispirata alle cene luculliane da lui organizzate e preparate ai fornelli, che Ferreri, che era uno degli ospiti abituali, commentando l’abbondanza delle portate, definiva come un suicidio. In merito ai motivi per cui nomi propri di personaggi e attori combaciassero, il regista, che raramente prendeva sul serio le interviste, sosteneva che così gli attori avrebbero potuto tenere le proprie camicie, con le loro iniziali ricamate. L’imitazione che Ugo fa di Marlon Brando nel Padrino sembra sancire un distacco rispetto a un diverso livello di interpretazione, e di messa in scena, pomposo e distaccato.

Proprietario di quella magione è Philippe, la cui vita è già immersa in quei vizi, un magistrato colto, amante delle citazioni dotte, di famiglia aristocratica, con un rapporto morbosissimo con la sua balia, una donna corpulenta, anziana e procace che lo accudisce fin da quando era bambino. Esplicito da subito anche il suo infantilismo come quello dei suoi compari. Si tratta solo di bozzetti psicologici appena accennati, non sono esplicitati i motivi per cui i quattro vogliano finire la propria esistenza su questo mondo e perché facciano parte di quell’originale club dei suicidi. Non dicono mai di volersi togliere la vita. Raccontano vagamente ai loro congiunti o colleghi che hanno qualcosa da fare nel weekend, senza nemmeno cercare scuse credibili. Il loro suicidio è un qualcosa di organico, connaturato al vuoto della loro esistenza borghese, fisiologico come il cibo e il sesso. L’autodistruzione è una pulsione congenita nella borghesia, come il suicidio di Mario di Break Up, che in un attimo, d’istinto si butta dalla finestra, o quello mimato da Glauco di Dillinger è morto. Per Ferreri che ha sempre dichiarato la sua ispirazione di un cinema ‘fisiologico’ dal dipinto di Rembrandt Lezione di anatomia del dottor Tulp, la morte fa parte del metabolismo corporeo, tanto più di quello bulimico e rapace della borghesia e del capitalismo. La morte è l’ultima digestione, o l’ultima indigestione di un banchetto pantagruelico, l’ultimo orgasmo di un’orgia, l’ultimo piacere della carne.

Tutto il film si gioca sulla connessione tra cibo, sesso, flatulenze e defecazioni, e morte. La carica scatologica è giocata spesso da Michel con la sua aerofagia. Lui, un uomo colto che è anche un raffinato ballerino e musicista, accompagna con i peti la musica al pianoforte. Il decesso è anticipato da quella montagna di paté, modellata come un duomo, incastonata di uova sode che rappresentano la morte per gli ebrei. La figura di Andréa, la maestrina, è pure indicativa. Rimane nella villa, comprendendone la perversione, a differenza delle due prostitute che se ne vanno. Lei, che è un’educatrice – come l’insegnante delle magistrali feticista interpretato da Tognazzi nell’episodio Il professore di Controsesso –, è più puttana delle puttane. Al contempo il suo corpo si distingue da quelli longilinei delle due ragazze, con le sue grazie paffute, simbolo di una sessualità materna, come la balia di Philippe. Si inserisce perfettamente in quel contesto orgiastico e si compenetra e amalgama in quel banchetto di sesso e cibo. Partecipa a quel trionfo di corpi flaccidi e il suo culo ha la stessa consistenza dell’impasto molle su cui si siede. La sua abbondanza corporea si riflette in quel dolce che porta a Philippe a forma di due grandi tette, l’ultimo suo pasto prima di crepare. Aveva già accompagnato alla morte anche Ugo, masturbandolo mentre Philippe lo imboccava, portandolo al decesso proprio nell’acme dell’orgasmo.

Ferreri sceglie di ambientare La grande abbuffata in Francia, con un cast misto italo-francese, paese che aveva già sviluppato il culto della gastronomia raffinata. La grande abbuffata anticipa il filone dei cosiddetti ‘food film’, ma già ne rappresenta come una dissacrazione ante litteram, caricando di un senso mortifero quel tripudio catartico di cibo e sensualità di opere come Il pranzo di Babette. Forse solo il giapponese Tampopo considera anche la morte, ma con una sensibilità orientale, molto diversa.

Info
Il trailer de La grande abbuffata.

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