L’ultimo spettacolo è in sospeso

L’ultimo spettacolo è in sospeso

La notizia della distribuzione “in sospeso” di Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson, che sarebbe dovuto uscire il prossimo 3 febbraio, è forse la goccia che fa traboccare il vaso per quel che concerne il discorso sulle sale. Cosa si vuole davvero fare per difendere la visione collettiva, che è alla base dell’esperienza cinematografica? E perché i vari elementi della filiera non trovano un punto d’incontro per rivendicare la centralità della sala? Forse sarebbe ora di rivedere in modo serio le cosiddette “finestre di sfruttamento”, ma l’impressione è che l’Italia sia allergica a qualsiasi discorso di politica culturale.

Solo cinque giorni fa, alla notizia della morte di Peter Bogdanovich, quella parte di mondo che ha a che fare con il cinema è corso con la mente a The Last Picture Show, vale a dire L’ultimo spettacolo, sottolineando la contemporaneità della riflessione sul cinema come arte della melanconia, morente. Nel film di Bogdanovich la chiusura del piccolo cinema dell’immaginaria Anarene, con l’ultima proiezione de Il fiume rosso di Howard Hawks, simboleggiava la fine dell’adolescenza, la perdita di un’illusoria innocenza. Di film che hanno mostrato sale perdute, diroccate, in declino, nel corso dei decenni ce ne sono stati molti, e se l’utopia ancora perseverava in alcuni casi (si pensi al finale di Splendor di Ettore Scola, dove l’intera comunità cittadina si metteva in prima persona a difendere il cinema gestito ad Arpino da Marcello Mastroianni), altrove lo sguardo si è mostrato assai meno consolatorio. Già nel 2003 Tsai Ming-liang con Goodbye, Dragon Inn elaborava la sala vuota come riflesso della perdita del contatto umano, della collettività, della dialettica. Il discorso l’ha poi ripreso, tra gli altri, Paul Schrader con The Canyons e Michael Wahrmann con Avanti Popolo, dove l’agonia della sala era anche agonia di una nazione, e le immagini delle vestigia dimesse di un cinema erano sovrastate dalle parole cantate di Bandiera rossa. Difficile non commuoversi, per un cinefilo, di fronte a una sala dismessa. O no? A guardar bene la situazione attuale sembrerebbe suggerire il contrario. Ieri si è diffusa la notizia che Licorice Pizza, il nuovo film diretto da Paul Thomas Anderson che Eagle Pictures avrebbe dovuto portare nelle sale cinematografiche il prossimo 3 febbraio, è “pending”, vale a dire che per ora la data di uscita risulta sospesa. Non è il primo caso di film la cui distribuzione è stata rinviata a data da destinarsi: anche Spencer, che Pablo Larraín ha dedicato alla figura di Lady Diana, sarebbe dovuto uscire il prossimo 20 gennaio con 01 Distribution, ma non è più a disposizione degli esercenti. Lo stesso discorso vale per Red, il nuovo film Pixar che la Disney ha pensato bene di non mettere più a disposizione delle sale a partire dal prossimo marzo, come invece era preventivato, e per Deep Water di Adrian Lyne, sempre di proprietà della Casa del Topo. Ma perfino la commedia italiana, quella che di solito sposta alcuni equilibri del botteghino, ha deciso semplicemente di spostarsi dalla sala, visto che sia Vicini di casa di Paolo Costella che Tre di troppo di Fabio De Luigi non risultano più in distribuzione a gennaio. Insomma, un vero e proprio bagno di sangue, che sembra non avere fine. Ma perché si è arrivati a questa tragica – e anche un po’ tragicomica – situazione, quali sono le motivazioni alle spalle di una simile scelta drastica?

È proprio qui che la nebbia si infittisce, e la lettura del momento diventa inevitabilmente farraginosa. Non c’è dubbio che gli incassi degli ultimi mesi, e in particolar modo quelli durante il periodo delle festività siano stati molto bassi, ben al di sotto della soglia considerata critica. Chiunque sia stato in sala tra l’8 dicembre e l’epifania, il “mese d’oro” del box office italiano, ha potuto constatare la desertificazione umana: sale semivuote per titoli che di solito avrebbero fatto il pieno, contando anche su molti “sold out”. Invece, nulla. Le motivazioni possono essere molte, e non si può far finta che non si sia nel mezzo di una pandemia che ha modificato il rapporto del singolo cittadino con lo spazio esterno, percepito ora come pericoloso, o comunque da evitare laddove possibile. D’altro canto si è nel mezzo di una variante la cui diffusività è notevole, e per quanto con la tripla vaccinazione i dati per quel che concerne la pressione sugli ospedali (e sui decessi) siano molto incoraggianti, la percezione generale è quella di un rischio ancora maggiore, perché Omicron si diffonde con una rapidità assai superiore sia al “ceppo originale” che alle varianti già riconosciute in precedenza. Eppure altri spazi condivisi non hanno avuto una moria di presenze come quella che ha afflitto le sale cinematografiche: si pensi ai dati forniti da Coldiretti/Censis per quel che concerne l’acquisto di merce, con il 64% degli italiani (6 su 10) che hanno ridotto il ricorso all’e-commerce per tornare a comprare direttamente in negozio; ma anche i dati riportati da alcuni teatri (ad esempio il Petruzzelli a Bari e lo Stabile di Torino) parlano di un forte incremento nello sbigliettamento. Diverso il discorso per il settore alberghiero – che patisce anche le difficoltà di spostamento dall’estero – e per la ristorazione, con un calo dei consumi per quest’ultimo del 27,3% rispetto al 2019 (ma comunque non nei confronti del 2020). Gli italiani sono tornati nei negozi, ma voltano le spalle alla sala cinematografica.

Se non è dunque la pandemia l’elemento assoluto e determinante di questo evidente scollamento, dove va rintracciato? Su queste pagine lo si è scritto più e più volte durante questo orribile biennio: la lente d’ingrandimento si deve concentrare sulla politica culturale. Perché è solo nelle scelte politiche ad ampio raggio che si può davvero osservare il problema in ogni sua sfaccettatura. A parole, ma anche almeno in parte nei fatti se si prendono in esame gli aiuti dispensati nel corso del 2020, quando il lockdown ha bloccato le persone in casa in maniera coatta – va ricordato che le sale sono rimaste chiuse dal 9 marzo al 15 giugno del 2020, e poi di nuovo dal 24 ottobre 2020 al 26 aprile 2021, per un totale di 282 giorni, oltre il 77% di un anno solare –, il governo attraverso il Ministero della Cultura presieduto in modo consecutivo da Dario Franceschini nonostante il cambio di maggioranza (dal cosiddetto Conte Bis a Mario Draghi come presidente del Consiglio) ha dichiarato di vedere nell’esercizio cinematografico della sala un elemento centrale della filiera. Ma è davvero così? Se i titoli principali di inizio anno vengono posticipati a data da destinarsi – a rischio è anche Assassinio sul Nilo di Kenneth Branagh, previsto per metà febbraio: fa bene ricordare come il suo Assassinio sull’Orient Express nell’autunno 2017 raggranellò quasi 15 milioni di euro, cifra che oggi è appannaggio solo dei Cinecomic, e neanche tutti –, quale futuro può mai esserci per la sala? E soprattutto, chi la sta difendendo? Ovvio che dietro la barricata ci sia l’ANEC, che per voce del suo presidente Mario Lorini ha più volte rivendicato la necessità di operare in favore degli esercenti. Ma qualcuno davvero pensa che spostare in là film previsti per questo momento possa in qualche modo agevolarne la fruizione più avanti? Forse i titoli bloccati dal lockdown hanno avuto un vantaggio dall’essere distribuiti in una data differita? A pensare al pessimo risultato di Supereroi di Paolo Genovese sarebbe logico scuotere la testa. L’impressione è che le distribuzioni si muovano alla giornata, seguendo l’umore del momento, senza una strutturazione logica: se si rimandano alle calende greche titoli come Spencer o Licorice Pizza, già oggi rintracciabili illegalmente online per chi è avvezzo alla materia, questo non agevolerà ancor più la pirateria? La verità poi è che la sala è, al di là delle parole di circostanza, davvero l’elemento centrale della filiera, senza il quale è pressoché impensabile mantenere in piedi sotto il profilo economico l’intera struttura legata alla produzione e alla diffusione cinematografica. Eppure ad avvantaggiarsi di questa situazione non potranno che essere le già proliferanti piattaforme.

Oramai è prassi, quando si discorre di cinema con conoscenti e amici, sentirsi rispondere alla domanda se si è visto tal film o talaltro: “No, su quale piattaforma lo trovo?”. Un esercizio automatico della mente, che ha già rimosso quasi del tutto l’esigenza della visione in sala. In effetti è difficile operare in senso opposto quando titoli di ampio sfruttamento cinematografico risultano reperibili online legalmente a pochissima distanza dalla data di uscita. La questione delle “finestre” si sta trasformando in Italia – e solo in Italia – in una sorta di far west, terra incognita e selvaggia dove vince il primo a estrarre la pistola e praticamente tutto è concesso. Dunque, si vuole davvero fare qualcosa per difendere la visione in sala? Se la risposta è sì, si torni politicamente a ragionare sul senso della sala, a partire dalla ridiscussione seria delle suddette finestre: prima di un minimo di 90 giorni, ad esempio, lo sfruttamento economico del film dovrebbe essere riservato solo agli esercenti. In Francia, per portare un esempio concreto, la legge sulle finestre di sfruttamento è in fase di nuova discussione, ma per ora è ancora valida la regola dello sfruttamento esclusivo per 36 mesi da parte delle sale cinematografiche (e comunque anche l’eventuale revisione, tutta da verificare, al massimo scenderebbe a 12 o 14 mesi). In un’ottica simile è ovvio che, a meno di non puntare tutto sulla pirateria informatica – ma si sa che questo è un elemento che interviene in modo molto parziale nel discorso complessivo –, lo spettatore medio sarebbe costretto a tornare in sala. Si tratta dunque di una discussione di politica culturale cui il nostro Paese sembra non solo del tutto disinteressato, ma proprio disabituato. D’altro canto è comprovato che il mondo cinefilo ha a sua volta abbandonato la sala, adducendo come motivazioni (risibili, sia concesso un attributo così squalificante) la scarsa qualità della proiezione, la non modernità delle sale o l’impossibilità di vedere un film in lingua originale. Sarà un caso, ma la proiezione delle 18.30 al Nuovo Olimpia di Roma di Matrix Resurrections, proprio in v.o., lo scorso weekend è partita a sala praticamente vuota: di nuovo, il problema non può essere questo. Se si abitua la popolazione che tutto ciò che dovrebbe metterla in moto per poterla ottenere la si può ricevere senza problemi – e legalmente – a casa, è difficile pensare che accada un miracolo. Ed è su questo che quasi tutti gli agenti in gioco risultano parimenti colpevoli.

È colpevole il dicastero, che nulla sta davvero facendo per promuovere una politica culturale concretamente a vantaggio del cinema come luogo della collettività. Sono colpevoli le distribuzioni, che spaventate dagli incassi pensano semplicemente ad annullare i propri listini, come lo struzzo che mette la testa sotto la sabbia pensando che il felino di turno non faccia più caso a lui ma prediliga altre prede. È colpevole un pubblico obnubilato dalla tecnocrazia, pigro intellettualmente, e questo vale tanto per lo spettatore medio, quello che andava al cinema una volta al mese – se non meno – quanto e forse ancor più per quello avveduto, onanisticamente chiuso nella sua torre d’avorio social nella quale può dispensare pareri senza ritenersi parte integrante di una comunità. È colpevole un mondo critico che, potendosi beare del privilegio festivaliero, dove molti film sono visibili in anteprima, poco o nulla fa per sostenere l’impegno di quei pochi resistenti che ancora spingono per dare peso alla sala. E il problema non è certo la pandemia, perché come la proverbiale valanga che si ingrossa rotolando fino a devastare il panorama, tutto era già preventivabile quando iniziarono a chiudere le monosale cittadine, quelle dei paesini, costringendo milioni di italiani fuori dalle grandi metropoli e chiudersi in casa; o quando fu dato libero accesso all’arrivo dei multiplex nelle città di media grandezza, che cannibalizzarono la situazione accentrando su loro stessi i film in sala, riducendo paradossalmente l’offerta e dunque tenendo a distanza spettatori che non trovarono più le opere che gli interessavano. Insomma, oggi si sta pagando in modo forse definitivo un problema che si trascina da un ventennio, senza che la politica pensi opportuno intervenire. Se si vuole uccidere la sala, con tutto ciò che comporta, lo si faccia ma dichiarandolo senza vergogna, e assumendosene in toto la responsabilità. Se invece davvero interessa preservare questo aspetto cruciale del significato del cinema – arte popolare, e che quindi ha senso solo se parla a un popolo in modo collettivo e dialettico – allora si compiano gli atti necessari per difendere la visione sul grande schermo. Sarebbe ora che la filiera, in modo trasversale e riunendo tutti gli aspetti (produzione, distribuzione, esercizio, critica) si ricordasse del valore della lotta e della rivendicazione. Se così non sarà, se si chinerà la testa anche di fronte a questo ultimo “sgarro”, ci sarà poco di cui lamentarsi in futuro.

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