The Boogeyman

The Boogeyman

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Rob Savage, regista dei due gioiellini Host e Dashcam, approda all’horror di serie A firmando con The Boogeyman l’adattamento di un vecchio racconto di Stephen King, ma lascia a casa gran parte dell’inventiva che aveva dimostrato: la tensione e la paura non mancano, anzi, ma il film rimane per tutto il tempo entro il perimetro di genere, con eccessiva diligenza e rispettandone fin troppo i dettami.

Chi ha paura del buio?

La liceale Sadie Harper e sua sorella minore Sawyer sono sconvolte dalla recente morte della madre e non ricevono molto supporto dal padre, Will, un terapista che sta, a sua volta, affrontando il proprio dolore. Quando un paziente disperato si presenta inaspettatamente a casa loro in cerca di aiuto, lascia dietro di sé una terrificante entità soprannaturale che va a caccia di famiglie e si nutre della sofferenza delle sue vittime. [sinossi]

Che fosse capace di fare paura, Rob Savage lo aveva già dimostrato con i suoi due horror inventivi e a basso budget, Host (2020) e Dashcam (2021). Con il suo terzo lungometraggio The Boogeyman il giovane regista inglese (classe 1992) entra di diritto nella serie A: al timone ci sono infatti la 21 Laps di Shawn Levy e di Stranger Things, e la 20th Century, ormai di proprietà della Disney. Ma, così facendo, compie un mezzo passo indietro: quello che ci guadagna in mezzi, confezione e durata (i due horror precedenti, piuttosto grezzi, duravano circa un’ora, il primo, e poco più il secondo), lo perde in originalità, rimanendo fin troppo dentro le pastoie dell’horror convenzionale a base di mostri e lasciando fuori l’ambiguità o quantomeno la complessità dei personaggi e dei significati, a differenza di quanto avveniva, ad esempio, nel notevole Babadook (Jennifer Kent, 2014). In breve, Savage qui prende il genere “alla lettera”. Senza dubbio però lo fa bene: nell’affrontare l’ennesimo film del filone “Babau” o “uomo nero” o comunque lo si voglia chiamare, Savage bandisce qualsiasi ironia e ammiccamento cinefilo e punta tutto sull’elemento primario del genere, la paura, mirando a dire la parola definitiva sul tema. E così il regista non dà tregua, la tensione non viene mai meno e le sequenze spaventose sono più numerose di quelle in cui finalmente si può tirare un sospiro di sollievo. Provvisorio, perché il buio è onnipresente e genera mostri, e non solo nella mente dei bambini. Girando per lo più in spazi chiusi, Savage gioca bene col buio e con i luoghi topici (gli armadi, i corridoi, la cantina), coadiuvato da una colonna sonora che non tralascia il minimo effetto, dai rumori e i cigolii inquietanti all’improvvisa ipetrofia dei decibel nei jumpscare, ma soprattutto dalle musiche di Patrick Jonsson, dalla timbrica sorda e il ritmo martellante, che contribuiscono attivamente alla tridimensionalità di questo ennesimo incubo cinematografico.

Se il racconto omonimo di King, pubblicato nella raccolta A volte ritornano (Night Shift, 1978), è utilizzato solo come canovaccio (il paziente dall’aria ambigua e tormentata che racconta al terapeuta che un mostro ha ucciso i suoi figli), dell’universo kinghiano il film porta avanti la centralità dell’orizzonte infantile/adolescenziale (assente nel racconto in questione, ma centrale in molte delle opere del romanziere di Portland, non ultima il capolavoro It del 1986). E tratta, sì, il piano simbolico dei dolori della crescita e dell’elaborazione del lutto (in questo caso, la perdita della madre posta come evento traumatico e antecedente al presente del film), ma rende poi anche concreta e terrificante questa incarnazione della paura conferendole vita propria. E lo fa puntando, per tutta la prima metà, sul buio, su ciò che non si vede ma si immagina, su ciò che forse si nasconde o forse non esiste. Poi però deve per forza di cose (ma è davvero così? Sembra di sì, quantomeno nell’horror mainstream) dare corpo al mostro, e lo fa ricorrendo alla CGI con esiti discreti ma non certo innovativi.

I fan più esigenti dell’horror lamenteranno la quasi assenza di sangue nelle scene particolarmente violente (siamo pur sempre in seno a mamma Disney), nonché la prevedibilità delle varie tappe del racconto. Non c’è nulla di davvero originale in The Boogeyman, ogni tappa è rispettata, ogni promessa mantenuta. La prevedibilità dilaga e il regista, per la prima volta alle prese con un progetto non suo, sembra saperlo. Ed è per questo tenta in tutti i modi di sostituire l’inatteso, che latita, con l’intensificazione del terrore utilizzando scientemente i famigerati jumpscare, che arrivano sempre quando lo spettatore più se li aspetta, ma nonostante questo fanno saltare sulla poltrona. E questo non è da tutti. The Boogeyman, in sostanza, è un discreto prodotto mainstream, un meccanismo perfettamente calibrato e oliato che, forte anche di una giovane stella in ascesa e di talento, la Sophie Thatcher della serie Yellowjackets, mira soprattutto a un target preciso: i più giovani, cresciuti con le piattaforme e la serialità (per come si mettono le cose, nulla vieterebbe uno o più sequel…). Vuole fare paura e ci riesce, ma in superficie, senza mai sconvolgere o destabilizzare davvero: è un incubo dal quale si esce non appena si accendono le luci, senza strascichi. Lo spettatore lo avverte sin da subito e accetta di entrare nel tunnel dell’orrore e farsi terrorizzare a tempo determinato. E almeno in questo non rimane deluso.

Info
The Boogeyman, il trailer.

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