Hokage – Ombra di fuoco

Hokage – Ombra di fuoco

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Quindicesimo lungometraggio nella carriera di Shinya Tsukamoto, Hokage (Shadow of Fire è il titolo in inglese scelto per la vendita internazionale, che diventa il sottotitolo Ombra di fuoco in Italia) è l’ennesimo tassello nella visione dell’umano del grande cineasta giapponese, che torna a riflessioni sulla brutalità della guerra già espresse nei precedenti Fires on the Plain e Zan. Tra le visioni più sconvolgenti della Mostra di Venezia 2023, dove è stato collocato inspiegabilmente nel concorso di Orizzonti, quando avrebbe dovuto partecipare all’agone per la conquista del Leone d’Oro.

Storia del Giappone del dopoguerra

Al termine della Seconda guerra mondiale, in una città distrutta dalle bombe incendiarie, una donna gestisce un piccolo ristorante ma guadagna denaro solo prostituendosi. Nei dintorni del locale si aggira un bambino, e quando un soldato reduce dalle Filippine inizia a frequentare il ristorante, il bizzarro trio sembra quasi poter creare un nucleo famigliare. Ma la guerra ha lacerato ben più delle mura della città… [sinossi]

Prima di addentrarsi nella disamina di Hokage, vale a dire Shadow of Fire (Ombra di fuoco nel sottotitolo italiano), quindicesimo lungometraggio diretto in trentacinque anni di carriera da Shinya Tsukamoto, è impossibile non esternare lo stupore nell’aver assistito a una delle visioni più sconvolgenti, emozionanti, e dolorose dell’ottantesima edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia in Orizzonti, e non nel concorso principale. Una scelta, da parte del comitato di selezione, che non si esita a definire scellerata, frutto o di miopia o di calcoli geografico-politici a dir poco discutibili – viene da pensare che la presenza nella competizione principale di Evil Does Not Exist di Ryūsuke Hamaguchi abbia di fatto bloccato la casella destinata al Giappone, se non addirittura all’intero estremo oriente, mentre a gareggiare ci sono sei film italiani, cinque statunitensi, e tre francesi –, e che priva Tsukamoto della possibilità di competere per il Leone d’Oro, riconoscimento che alla fine della proiezione stampa è apparso perfettamente alla portata del grande cineasta giapponese. Ma tant’è, si vive in un’epoca mediocre, e forse non si può pretendere che l’importanza, il senso, la straziante bellezza di un film come Hokage venga compreso da tutti, anche se permane forte l’impressione di uno sgarbo mosso nei confronti del regista di Tetsuo, Snake of June, e Kotoko, che si trova a dover gareggiare con le nuove generazioni di cineasti, quasi la sua intera filmografia non abbia peso. Palpabile era l’emozione che trasmetteva la platea della proiezione stampa, per di più confinata nella scomoda sala Casinò, quella che fino a pochissimi anni fa serviva per le conferenze, e che ora resta per lo più appannaggio delle visioni di Venezia Classici; un’emozione dovuta al dolore che Tsukamoto lancia in faccia allo spettatore, ma anche a quella derelitta grazia che accompagna oramai ogni suo film, ed emozione legata alla sensazione sempre più rara di questi tempi di essersi trovati di fronte al Cinema nella sua espressione più alta, dove l’atto estetico, l’afflato umanista, e la visione politica diventano un tutt’uno, inscindibili.

Ambientato subito a ridosso della fine della Seconda guerra mondiale in una città che ha subito un bombardamento incendiario che ne ha raso al suolo buona parte trasformandola in un cumulo di macerie e di detriti di ciò che un tempo era “vivo”, Hokage sembra da principio interamente concentrato in un singolo luogo, un piccolo ristorante la cui proprietaria – la bravissima Shuri – vende il proprio corpo per garantirsi la sussistenza. In questo luogo che porta visibilmente su di sé i segni dell’apocalisse di fuoco che ha colpito la città pochi si avventurano, tra questi un bambino orfano con ogni probabilità dedito a furti di cibo nel vicino mercato nero, e un soldato reduce dalle Filippine che un tempo è stato maestro elementare. I tre sembrano quasi formare un nuovo nucleo famigliare, come se l’orrore della guerra fosse in qualche modo superabile, e si potesse tornare a una parvenza di vita normale, nonostante tutte le cicatrici che straziano i cuori. Se continuasse a suonare in questa chiave Hokage si muoverebbe nel solco di molto cinema post-bellico, incentrato sulla rinascita, su ciò che riparte dopo l’abominio bellico. Ma l’afflato pacifista e umanista di Tsukamoto, che permette in qualche modo di inserire quest’ultimo film in una sorta di trilogia con gli immediatamente precedenti Fires on the Plain e Killing, non si apre a note di speranza. E come potrebbe, dal momento che il mondo nel 2023 non è in una fase post-bellica, ma è nel pieno di uno/cento/mille conflitti a ogni latitudine? Ecco dunque che la guerra, con il suo carico di detriti impossibili da smaltire, riemerge come un fantasma che aleggia nella mente fino a portare alla follia. Il ristorante/casa diventa a sua volta un luogo quasi magico, forse orrorifico, e perfino la donna può arrivare ad apparire come uno yūrei, gli spettri della tradizione nipponica. D’altro canto nel momento in cui perse il marito – mai tornato dal fronte – e il figlioletto la giovane è morta a sua volta, e quella di concedersi una nuova vita con una famiglia costruita pezzo per pezzo è a sua volta un’illusione, forse un sogno in un universo di incubi quotidiani, tanto a occhi aperti quanto nel cuore della notte.

Mai, neanche nella giungla dominata dalla psicosi militare di Fires on the Plain, Tsukamoto era stato così livido, eppure allo stesso tempo così accorato nello stringere a sé i personaggi, consapevole dell’impossibilità di conceder loro una nuova vita ma sospinto dalla necessità di proteggerli, dimostrando ancora un briciolo di quell’umanità che si è invece persa. Nella scelta di concentrarsi su pochi personaggi, di certo non nuova all’interno della sua filmografia, c’è anche la volontà di utilizzarli come paradigmi dei disastri che porta con sé la guerra. La donna, che ha perso tutto compresa la proprietà del corpo; il reduce dal fronte estero, che ha scatti d’ira irrefrenabili e il più delle volte si ferma per ore a fissare un punto nel vuoto; il bambino, che non ha alfabetizzazione alcuna, vive probabilmente sgraffignando ciò che può, e si ritrova persino tra le proprie mani una pistola. Proprio l’arma, quell’arma che la donna guarda con terrore ben sapendo che è parte integrante dal lutto che le è impossibile superare, spingerà il bambino, e con lui la visione, a uscire per la prima volta dal locale, oltre un’ora dopo l’inizio del film. Perché a ben vedere Hokage si articola in tre momenti chiave: la lunga parte già citata nel ristorante, il viaggio a suo modo iniziatico del bambino con un misterioso uomo a cui serve la pistola (e che si traduce in una sequenza violenta e dolorosissima, che ha impresso su di sé il marchio lasciato dalla guerra), e il ritorno del piccolo in città. Questi tre segmenti sono utilizzati da Tsukamoto per tracciare un quadro del Giappone del dopoguerra, attraverso un racconto che trasuda pietà da ogni immagine ma ha perso qualsiasi speranza. Non esiste per gli esseri umani via d’uscita dalla guerra, neppure se si è miracolosamente scampati a una raffica di bombe incendiarie. Si resta lì, fantasmi viventi, demoni disperati che abitano i tunnel sotterranei lontani dagli sguardi di tutti e quindi pronti a essere dimenticati di modo che possa scoppiare un nuovo conflitto senza che si rammentino davvero le conseguenze di un simile atto. Diretto da Tsukamoto con uno stile che mescola la pacatezza dell’affetto a sfuriate improvvise di violenza, tanto in scena quanto nella costruzione della stessa, Hokage è un incubo a occhi aperti che sconvolge lo sguardo, provocando un dolore profondo, intimo, come se ogni spettatore possedesse nel profondo del proprio animo la memoria ancestrale della guerra, e fosse solo necessario riportarla a galla. Questo angoscioso e tristissimo racconto sul Giappone del dopoguerra, sulla miseria umana ed economica distrugge e purifica l’occhio di chi assiste alla visione, ed è quantomai attuale nella fase storica in cui ci si ritrova a vivere. Anche per il suo valore politico e contemporaneo, al di là della straordinaria qualità artistica, la Mostra di Venezia avrebbe dovuto riconoscere a Tsukamoto un posto nel concorso, garantendo così anche una maggiore visibilità a un’opera che altrimenti avrebbe rischiato, come rischia, di rimanere relegata nella bolla cinefila, quando invece il suo scopo – ed è evidente – è parlare a tutto il pubblico, in un discorso universale che rende il film un’opera centrale dell’oggi, e del senso del cinema. E sull’inquadratura finale è impossibile non provare un senso di impotenza, e di annichilimento, percependo come l’uomo si distrugga in un ciclo infinito, dal quale non esiste possibile scampo.

Info
Hokage sul sito della Biennale.

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