Diamanti

Diamanti

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A 65 anni Ferzan Özpetek firma la regia del suo quindicesimo lungometraggio e con Diamanti porta a termine la sua opera più ambiziosa, quella in cui la riflessione sul femminile – da sempre tra i cardini della poetica del cineasta – raggiunge il suo acme, senza per questo schivare le trappole di un mélo eccessivamente barocco, frastornante, e in cui la dimensione meta-narrativa appare un orpello non solo poco efficace, ma persino deleterio.

Non sai chi è Piero Tosi?

Un regista convoca le sue attrici preferite, quelle con cui ha lavorato e quelle che ha amato. Vuole fare un film sulle donne ma non svela molto: le osserva, prende spunto, si fa ispirare, finché il suo immaginario non le catapulta in un’altra epoca, in un passato dove il rumore delle macchine da cucire riempie un luogo di lavoro gestito e popolato da donne, dove gli uomini hanno piccoli ruoli marginali e il cinema può essere raccontato da un altro punto di vista: quello del costume. Tra solitudini, passioni, ansie, mancanze strazianti e legami indissolubili, realtà e finzione si compenetrano, così come la vita delle attrici con quella dei personaggi, la competizione con la sorellanza, il visibile con l’invisibile. [sinossi]

Erano cinque anni che il pubblico cinematografico non aveva in sorte di imbattersi in un film diretto da Ferzan Özpetek, e mai vi era stato un lasso di tempo così lungo tra un titolo e il successivo (addirittura in un’occasione, il 2017, sul mercato era stato lanciato un film in primavera, Rosso Istanbul, e uno in inverno, Napoli velata). Certo, appena dodici mesi fa c’era stato l’interludio rappresentato da Nuovo Olimpo, ma si trattava di un’opera pensata e prodotta per lo schermo domestico, per la visione su un cinquanta pollici, o addirittura su un computer, visto e considerato che segnava la prima collaborazione tra il cineasta d’origine turca e la piattaforma streaming Netflix. Un dettaglio, si dirà, e può essere che in parte sia così, ma nel vedere in sala Diamanti ci si può render conto di come la questione non sia tanto semplice, e riguarda prettamente il linguaggio. Da sempre cineasta fastoso nel suo amore per il peso anche materiale della scenografia, e per la raffinatezza dell’immagine, Özpetek sfruttava la dimensione del piccolo schermo per lavorare sul tempo in luogo dello spazio, riconfigurando alcuni dei suoi punti di svolta canonici – l’omosessualità vissuta in una dimensione altra, velata, rispetto alla prassi borghese, per esempio, l’arte come tentativo di sublimare la vita – attraverso una storia di avvicinamenti e allontanamenti sentimentali che si articolava tra le epoche, dalle riottosità “settantasettine” fino al contemporaneo. Questa dimensione intima, prettamente privata, viene invece almeno all’apparenza rimossa in Diamanti, quindicesimo lungometraggio che appare per molti aspetti la summa dello sguardo özpetekiano sul mondo, e ancor più sul cinema e il suo senso. E ovviamente sul femminile, vero centro nevralgico della poetica del regista, elemento cardine che è servito in alcuni dei precedenti film anche a riflettere sulle distonie del maschile, sulla fragilità di un potere esercitato sovente nel ricorso alla prevaricazione.

Com’è ovvio e intuibile sono le donne i diamanti (affatto grezzi) che può maneggiare Özpetek, che qui si lancia in una sorta di gineceo con ben diciotto protagoniste, di fatto il non plus ultra o quasi del sistema attoriale femminile italiano: nel costruire un racconto tutto attorno a una celebrata sartoria romana degli anni Settanta, così importante da rivestire un ruolo di non poco conto nell’immaginario – ovviamente fittizio – dell’epoca (c’è anche una battuta che sa un po’ di pleonastico, e che serve al gioco tutto interno della vita come rappresentazione: “vuoi fare la costumista e non sai chi è Piero Tosi?”), si passa in rassegna il tratto distintivo dell’approccio autoriale del regista, tra mélo che si maschera a tratti da commedia all’italiana, soprattutto per l’inserimento di personaggi a uso e consumo di tale dialettica – ascoltare per credere le battute pronunciate da Geppi Cucciari, tanto per fare un esempio –, sorelle in contrapposizione, e poi ancora malattie, lutti insuperabili, problematiche nel rapporto con l’altro sesso, e chi più ne ha più ne metta. In tal senso, nella superficie liscia delle cose in cui Özpetek ama rimanere, appare davvero interessante che il film sia strutturato ricorrendo al meta-linguaggio, con le succitate diciotto attrici che vengono chiamate sul set dal regista nelle vesti di se stesso per interpretare proprio quel Diamanti che quindi a conti fatti non esiste neanche nella finzione scenica come verità, ma solo come suo specchio riflettente. Così come le sorelle Alberta e Gabriella Canova, incarnate da Luisa Ranieri e Jasmine Trinca, vivono tra broccati e simulazioni di realtà storica, dovendo lavorare a un film ambientato nel passato con tutte le difficoltà che ciò comporta, allo stesso modo il regista sembra solo sfiorare quel multiforme universo femminile che fa incontrare, convivere, e che gli permette di ritornare a quel cinema della convivialità che è un punto fermo fin dagli esordi – che restano anche le opere più coinvolgenti e rilevanti della sua filmografia.

Non sembra in fin dei conti interessante entrare nello scavo di questi molteplici personaggi, che servono soprattutto a sollevare questioni del femminile facenti parte del dibattito odierno. Dopotutto, come si è scritto prima, non sono altro che figure fittizie, attrici che come dichiara apertamente il film interpretano un ruolo; certo, Diamanti rincorre una volta di più il dramma strappalacrime nazionalpopolare che ha sempre garantito a Özpetek un ottimo rapporto con il pubblico, ma se la speranza quasi trent’anni fa era quella di aver rintracciato le coordinate espressive di un Raffaello Matarazzo è amaro constatare come quella aspettativa sia diventata chimerica, e ci si debba accontentare di un intrattenimento senza dubbio non privo di finiture esteticamente apprezzabili – quel vermiglio che riveste quasi ogni inquadratura rilanciando l’ipotesi di una passione che viene poi però addomesticata da una messa in scena borghese – ma in fin dei conti vacuo, deprivato della sua forza primigenia. Se il fantasma di Almodóvar aleggia come sempre, qui si mescola a Luciano Emmer, a quel femminile (che non aveva però bisogno di velarsi dietro la coperta del meta-film, ma osava parlare direttamente al suo tempo e al suo pubblico) che è poi il padre putativo anche di oneste incursioni televisive come Il paradiso delle signore, che oggettivamente sembra il parente più prossimo di Diamanti. E di nuovo quell’interrogativo sul conoscere o meno Piero Tosi si fa consistente, e fa pensare a come George Cukor, uno che di donne in scena ne aveva spesso molte, non dovesse ricorrere alla cinefilia, o all’arte pregressa, per raccontarle e farle vivere. Gli bastava il cinema.

Info
Diamanti, il trailer.

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